Visitazione della Beata Vergine Maria
                                 
31 maggio



Dopo l'annuncio dell'Angelo, Maria si mette in viaggio frettolosamente" dice S. Luca) per far visita alla cugina Elisabetta e prestarle servizio. Aggregandosi probabilmente ad una carovana di pellegrini che si recano a Gerusalemme, attraversa la Samaria e raggiunge Ain-Karim, in Giudea, dove abita la famiglia di Zaccaria. E’ facile immaginare quali sentimenti pervadano il suo animo alla meditazione del mistero annunciatole dall'angelo. Sono sentimenti di umile riconoscenza verso la grandezza e la bontà di Dio, che Maria esprimerà alla presenza della cugina con l'inno del Magnificat, l'espressione "dell'amore gioioso che canta e loda l'amato" (S. Bernardino da Siena): "La mia anima esalta il Signore, e trasale di gioia il mio spirito...".
La presenza del Verbo incarnato in Maria è causa di grazia per Elisabetta che, ispirata, avverte i grandi misteri operanti nella giovane cugina, la sua dignità di Madre di Dio, la sua fede nella parola divina e la santificazione del precursore, che esulta di gioia nel seno della madre. Maria rimane presso Elisabetta fino alla nascita di Giovanni Battista, attendendo probabilmente altri otto giorni per il rito dell'imposizione del nome. Accettando questo computo del periodo trascorso presso la cugina Elisabetta, la festa della Visitazione, di origine francescana (i frati minori la celebravano già nel 1263), veniva celebrata il 2 luglio, cioè al termine della visita di Maria. Sarebbe stato più logico collocarne la memoria dopo il 25 marzo, festa dell'Annunciazione, ma si volle evitare che cadesse nel periodo quaresimale.
La festa venne poi estesa a,tutta la Chiesa latina da papa Urbano VI per propiziare con la intercessione di Maria la pace e l'unità dei cristiani divisi dal grande scisma di Occidente. Il sinodo di Basilea, nella sessione del 10 luglio 1441, confermò la festività della Visitazione, dapprima non accettata dagli Stati che parteggiavano per l'antipapa.
L'attuale calendario liturgico, non tenendo conto della cronologia suggerita dall'episodio evangelico, ha abbandonato la data tradizionale del 2 luglio (anticamente la Visitazione veniva commemorata anche in altre date) per fissarne la memoria all'ultimo giorno di maggio, quale coronamento del mese che la devozione popolare consacra al culto particolare della Vergine.
"Nell'Incarnazione - commentava S. Francesco di Sales - Maria si umilia confessando di essere la serva del Signore... Ma Maria non si indugia ad umiliarsi davanti a Dio perchè sa che carità e umiltà non sono perfette se non passano da Dio al prossimo. Non è possibile amare Dio che non vediamo, se non amiamo gli uomini che vediamo. Questa parte si compie nella Visitazione".

Martirologio Romano: Festa della Visitazione della Beata Vergine Maria, quando venne da Elisabetta sua parente, che nella vecchiaia aveva concepito un figlio, e la salutò. Nel gioioso incontro tra le due future madri, il Redentore che veniva santificò il suo precursore già nel grembo e Maria, rispondendo al saluto di Elisabetta ed esultando nello Spirito, magnificò il Signore con il cantico di lode.




Dopo circa XX secoli di storia, di tradizione e di culto la Chiesa ha sentito il bisogno di riordinare le idee intorno alla posizione dottrinale e cultuale in onore della Vergine Maria, e lo ha fatto con due interventi solenni: con il Concilio Vaticano II, con Paolo VI e le varie riforme del calendario liturgico. Alla luce dei principi teologici del Vaticano II si è aperto un capitolo nuovo sulla comprensione del mistero globale della Madre di Dio. In questo clima di approfondimento e di riordinamento, bisogna leggere anche la festa della Visitazione di Maria ad Elisabetta. 
Mentre prima del Concilio si dava spazio più al dato di fatto che alla sua giustificazione teologica, nel senso che si insisteva di più sul culto di venerazione dovuto alla Vergine Maria, e meno sulla spiegazione circa il rapporto con la Liturgia della Chiesa, tanto che il ciclo mariano sembrava quasi autonomo e in parallelo a quello cristico. Oggi, invece, con il concilio Vaticano II, si è più aperti alla riflessione teologica per evidenziare i motivi per cui il culto di venerazione è dovuto alla Vergine Maria nell’anno liturgico, cioè si è più sensibili e attenti a trovare il giusto inserimento della memoria mariana nel tempo di Cristo e dello Spirito, come unico ciclico cultuale dell’anno liturgico.
Per questo, l’attenzione della Chiesa si è focalizzata nel saper collocare il giusto ricordo di Maria nei tempi liturgici particolari, nelle solennità e feste del Signore, che con lei hanno uno speciale rapporto; nel saper cogliere il significato delle solennità, feste e memorie di Maria nell’armonia dell’anno liturgico del Signore, in quanto si tratta di episodi che appartengono alla stessa economia della salvezza, sia che precedano la nascita del Signore (come la Natività di Maria e la sua Presentazione al tempio) sia che seguano la pentecoste (come è il caso della Assunzione di Maria).

Il fondamento teologico della presenza di Maria nella liturgia
Specialmente nella Costituzione liturgica Sacrosanctum concilium (SC) e in quella dogmatica Lumen Gentium (LG), il Concilio Vaticano II ha tracciato le linee programmatiche sia dottrinali che cultuali in onore della Vergine Maria. Il primo testo è straordinariamente ricco pur nella sua brevità, e recita: “Nella celebrazione del ciclo annuale dei misteri di Cristo, la santa Chiesa venera con speciale amore la beata Maria Madre di Dio, congiunta indissolubilmente con l’opera salvifica del Figlio suo; in Maria ammira ed esalta il frutto più eccelso della redenzione e contempla con gioia, come in un’immagine purissima, ciò che essa tutta desidera e spera di essere” (SC 103).
Non può sfuggire l’importante novità del principio teologico che fonda il binomio Maria e liturgia, ossia dottrina e culto, fede e devozione, e cioè il vincolo indissolubile di Maria con l’opera salvifica di Cristo, e il risvolto ecclesiale della venerazione di Maria, immagine purissima della Chiesa. In questo modo, viene superato sia l’idea di un culto mariano parallelo a quello di Cristo, e sia il culto tributato a Maria, senza una spiegazione teologica adeguata e né un valido legame con la liturgia, perché il Concilio lo riconduce nell’unica celebrazione del mistero di Cristo e della Chiesa.
Il riferimento al principio teologico, però, va al di là della giustificazione di una presenza di Maria nel ciclo liturgico, per diventare il fondamento della memoria della Vergine nella liturgia, in quanto memoriale, presenza, attualizzazione dell’opera salvifica di Cristo, cui Maria è “indissolubilmente” congiunta.
La giustificazione cristologica e la valenza ecclesiale, asserite dal testo conciliare, trascendono lo stesso ciclo liturgico annuale, per guardare Maria nel memoriale dei misteri di Cristo, unico oggetto di ogni celebrazione liturgica. Idea che trova la sua giusta continuazione nel cap. VIII della Lumen Gentium, che, contemplando Maria nel mistero di Cristo e della Chiesa, dentro l’economia della salvezza, ha permesso di ricomprendere anche il culto a lei riservato, distinto in liturgico e devozionale, come espliciterà poi l’Esortazione apostolica Marialis cultus (MC) di Paolo VI.
Dal contesto dei testi conciliari, si evince che il culto mariano trae fondamento dal mistero di Cristo nella sua globalità, secondo “il principio della vicinanza a Cristo”: come Maria fu presente nei misteri di Cristo, così non può essere taciuta nell’attuazione liturgica di essi, esplicitando il principio fondante del binomio Maria-liturgia. E poiché la liturgia, nel testo conciliare, è descritta come il mistero pasquale di Cristo e la sua presenza nella Chiesa (SC 5-8), il ricordo di Maria acquista una maggiore e specifica portata: la sua presenza è “indissolubilmente” legata al compimento del mistero di Cristo dalla predestinazione all’incarnazione, dalla passione-morte-risurrezione all’ascensione e pentecoste. 
In breve, due i dati messi in evidenza dal Concilio: l’indissolubile vincolo di Maria con l’opera salvifica di Cristo, attualizzata nell’azione liturgica, e il risvolto ecclesiale della venerazione di Maria, come immagine della Chiesa.

Esplicitazione mariana della riforma conciliare in Paolo VI
Sulla scia del Vaticano II, si colloca l’Esortazione Apostolica di Paolo VI la Marialis cultus (2 febbraio 1974), che, con stile semplice e piano, affronta argomenti complessi in ordine al culto della Vergine Maria nella liturgia, dando una lettura lucida e oggettiva della dimensione mariana nella liturgia rinnovata alla luce dei rinnovati libri liturgici. La sua pubblicazione sembra il felice coronamento sia dei vari interventi mariani precedenti (Mense maio 1965; Christi Matri 1966; e Signum magnum 1967) e sia della riforma liturgica in atto (Calendarium Romanum 1969 e Missale Romanum 1970).
Nel contesto della festa della Visitazione, è importante tener presente la prima parte della Marialis cultus dal significativo titolo “La Vergine nella restaurata liturgia romana”, dove si presenta una chiara interpretazione del ricordo di Maria nell’anno liturgico. Sulla base del rivisto Calendario, infatti, che “ha permesso di inserire in modo più organico e con un legame più stretto la memoria della Madre nel ciclo annuale dei misteri del Figlio” (MC 2), sono passati in rassegna i tempi dell’Anno liturgico, le solennità, le feste e le memorie mariane.
Le tre solennità mariane dell’anno liturgico celebrano tre dogmi della Chiesa cattolica circa il mistero della Vergine Maria: Immacolata fin dal suo primo isyante (8 dicembre); Madre di Dio nella sua missione salvifica (1 gennaio); e Assunta in cielo nel suo destino finale accanto a Cristo, primizia della Chiesa (15 agosto). Le due feste mariane ricordano la sua Natività (8 settembre) e la Visitazione (31 maggio). E le memorie (La Madonna di Lourdes (11 febbraio); la Madonna del Monte Carmelo (16 luglio); la dedicazione della Basilica di Santa Maria Maggiore (5 agosto); la Vergine Maria Regina (22 agosto); la Vergine Addolorata (15 settembre); la Vergine Maria del Rosario (7 ottobre); la Presentazione di Maria al Tempio (21 novembre); il Cuore Immacolato della Beata Vergine Maria (sabato dopo la solennità del Sacro Cuore di Gesù).
La Marialis cultus è stata come una luce che, in un momento storico difficile per la pietà mariana, ha permesso di vedere meglio il posto di Maria nella vita liturgica e nelle forme devozionali, secondo lo spirito del cap. VIII della Lumen Gentium. L’intento di Paolo VI riguardò non solo il superamento della “crisi mariana” degli anni ‘70, ma specialmente di incrementare “il rinnovamento della pietà mariana” (MC 24-39), perché apparisse con più chiarezza e l’aspetto dottrinale e la bellezza della forma. Allo scopo si sottolinea l’importanza della “nota trinitaria cristologica ed ecclesiale nel culto della Vergine”. A queste indicazioni dottrinali, Paolo VI si preoccupa anche di aggiungere quattro orientamenti per il culto della Vergine: “biblico liturgico ecumenico e antropologico” (MC 29-37).
Nella conclusione della Marialis cultus, Paolo VI sintetizza il “valore teologico e pastorale del culto della Vergine Maria”, affermando come la conoscenza, la celebrazione e il gustare la presenza viva di Maria sono elementi fondamentali per l’efficacia della vita pastorale e per il rinnovamento della vita in Cristo.

Storia della festa
La festa della Visitazione ha la sua giustificazione nel vangelo di Luca (1, 39-56), che ricorda la Vergine Madre “che porta in grembo il Figlio [di Dio], e che si reca da Elisabetta per porgerle l’aiuto della sua carità e proclamare la misericordia di Dio Salvatore” (MC 7). Come per tante altre feste mariane, anche questa della Visitazione affonda le sue origini nell’oriente bizantino.
Per quanto riguarda la sua origine, sembra utile distinguere il concetto generale dall’attuale sistemazione. Originariamente, infatti, più che una festa con riferimento specifico al testo lucano, si trattava della memoria conosciuta con diversi nomi, tutti risalenti a una reliquia, il maphorion o omophorion (dal greco omos, spalla, e pherein, portare), ossia il “manto o velo o veste” della Vergine, usato per coprirsi il capo e le spalle, che i patrizi Galbios e Candidos portarono a Costantinopoli da Gerusalemme nel 472, e custodita nel santuario di Blacherne a Costantinopoli, dedicato alla Madonna. L’Imperatore Leone I e la regina Verina fecero costruire, accanto al santuario, una cappella a pianta centrale, chiamata la “Santa Soros”, per custodire la reliquia del maphorion, la cui dedicazione avvenne il 2 luglio 473. La festa, infatti, era nota anche con il nome di “Madre di Dio del segno”, o “Platitera”, “più ampia (del cielo)”, perché contiene Colui che i cieli non possono contenere. Iconograficamente, l’immagine riproduce un tema molto caro all’arte bizantina, ossia la rappresentazione della Madonna in posizione frontale, con le braccia sollevate in segno di preghiera e di accettazione, e con l’immagine del bambino Gesù in un tondo (clipeo) posto al centro del ventre.
Il soggetto richiama chiaramente il mistero dell’Incarnazione del Verbo e, quindi, l’evento dell’Annunciazione, con la sottesa mediazione della grazia, come si deduce dalla visita “in fretta” alla cugina Elisabetta. Durante l’incursione degli Avari (5 giugno 619), la preziosa reliquia venne nascosta e custodita in luogo sicuro; e il 2 luglio dello stesso anno venne restituita al santuario in forma solenne. Da qui, la tradizione della data 2 luglio come celebrazione della festa, che ne frattempo si era diffusa anche nell’Occidente intorno al XII secolo, con il titolo di “Madonna delle grazie”, e così entrò nell’ambito della ricerca teologica, divenendo oggetto anche di studio.
La diffusione della festa della Visitazione ebbe un grande incremento dal 1263 in poi, quando il Ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori, Bonaventura da Bagnoregio, nel Capitolo generale di Pisa (1263), la estese a tutti i conventi dell’Ordine francescano, insieme alla celebrazione dell’Immacolata Concezione. Nel 1389, Urbano VI fissò la data della festa al 2 luglio nel calendario liturgico. E nell’anno giubilare del 1390, Bonifacio IX, con la bolla Superni benignitas Conditoris, decretò la celebrazione a tutta la Chiesa occidentale. Estensione che divenne giuridicamente effettiva, solo dopo lo scisma d’occidente (1414), con la conferma da parte del Concilio di Basilea (1 luglio 1441). Titolo e data si sono perpetuati fino alla riforma liturgica del Vaticano II, quando nel nuovo Calendarium Romanum (14 febbraio 1969), voluto da Paolo VI, viene determinato l’attuale sistemazione: grado liturgico di “festa”; titolo della memoria “Visitazione della Vergine Maria”; e data della celebrazione al 31 maggio.

Aspetto dottrinale della festa
Come per la festa dell’Immacolata Concezione la difficoltà principale era costituita dai testi rivelati (Rm 3, 23; 5, 12) circa l’unicità del Redentore per tutti gli uomini, così anche per la Mediazione di tutte le grazie c’è di fronte la categorica e semplice unicità dell’“unico mediatore tra Dio e gli uomini, l’Uomo Cristo Gesù” (1Tm 2, 5; Gv 3,17; At 4,12), che rendeva inutile proporre un’altra forma di mediazione intermedia. Tuttavia, i grandi autori della Scolastica del XIII secolo sono d’accordo nel ritenere che a Maria la “pienezza” di grazia deriva sia per la purificazione nel seno della madre sia per la concezione del Figlio; e da questa “pienezza” graziosa scaturiscono per Maria l’esenzione dal peccato attuale e l’estinzione del fomite (inclinazione) al peccato, così da poter essere degna Madre di Cristo ed esercitare l’ufficio di mediazione verso gli altri.
Il Cantore dell’Immacolata, Giovanni Duns Scoto, oltre a queste ragioni, già sufficiente per affermare la mediazione di Maria, introduce anche un’altra ragione, quella dell’esenzione dal peccato originale, che è più radicale. Di conseguenza, l’esenzione dalla colpa originale costituisce da un lato l’esenzione da ogni colpa attuale e dall’altro fonda la vera radice della dignità di Maria, che la rende “piena di grazia”, cioè superiore a tutte le creature dell’ordine naturale come dell’ordine soprannaturale.
Questo speciale “dono” a Maria, secondo Duns Scoto, non è altro che la conseguenza logica della predestinazione assoluta e incondizionata di Maria insieme a Cristo, nell’“unico e medesimo atto di predestinazione” prima della creazione del mondo e prima della colpa di Adamo. In pratica, Maria è legata a Cristo da un duplice legame: quello naturale o materno, e quello morale o di grazia. Cristo e Maria a motivo della loro predestinazione si trovano al sommo vertice della gloria e della grazia: Cristo per natura, e Maria per partecipazione (o grazia).
Oltre che sulla speciale predestinazione, la mediazione di Maria si fonda storicamente anche sulla sua maternità, che la rende più perfetta di ogni altra creatura, perché più vicina a Cristo, fonte della gloria e della grazia. Difatti, scrive Duns Scoto: “nella concezione del Figlio, Maria ha avuto quella pienezza di grazia, cui lei per disposizione di Dio doveva pervenire” (Ordinatio, IV, d. 4, q. 6, n. 3). È da credere, pertanto, che Cristo, come ha voluto trasfondere gratuitamente nella sua Madre la “pienezza di grazia”, così l’ha voluta anche accanto a sé nell’azione Mediatrice, tra l’uomo e lui stesso. Si può anche aggiungere che la mediazione di Maria riceve il suo sigillo con il consenso a essere la Madre del Signore: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1, 38).   
In altri termini, la mediazione di Maria deriva fondamentalmente dal primato assoluto di Cristo e partecipa all’unica sua mediazione. Teologicamente, il Figlio è prima della Madre; mentre cronologicamente Maria precede il Cristo. Di conseguenza, nel presentare il compito di mediazione di Maria, si deve sempre partire non da lei, ma da Cristo “unico mediatore”. Per cui, anche l’aforisma schematico “Per Mariam ad Iesum”, deve sottendere prima l’altro “Per Iesum ad Mariam”, che lo fonda e lo giustifica.
Questo breve spaccato del primato assoluto di Cristo, affermato dal Cantore dell’Immacolata, ha trovato la sua giusta applicazione nel principio generale della riforma liturgica voluta dal concilio Vaticano II, come sopra ricordato, che, da un lato dichiara: “l’unica mediazione del Redentore non esclude, ma suscita nelle creature una varia collaborazione partecipata da un’unica fonte” (LG 62); e dall’altro ha permesso a Paolo VI di applicarlo anche alla Vergine Maria, nella sua esortazione apostolica Marialis cultus, riordinando la festa con il titolo di “Visitazione della Vergine Maria” e fissando la data di celebrazione al 31 maggio, con il grado  liturgico di “festa”.

Significato della festa

Parte “in fretta”
Maria porta ormai in sé il Verbo umanizzato, la Parola divina incarnata, il Figlio che assume il “figlio”, l’uomo. Senza indugiare, “in fretta”, come spinta dall’Essere-Agire di Dio, si mette in cammino, per risponde subito e con responsabilità alla chiamata del Signore. Non si tratta, certo, di andare a verificare il segno che le è stato annunciato, ma di obbedire senza indugio all’invito indiretto che l’Arcangelo le ha rivolto: “Vedi, anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio...” (Lc 1, 36). Maria ha compreso il senso della notizia: solo chi è stata toccata dalla stessa grazia, può condividere la sua gioia. E vola ad annunciare a Elisabetta la Buona Novella. La sua persona, risplendendo della pienezza della graziosa gioia, si sente come spinta a parteciparla: “l’amore di Cristo ci spinge” (2Cor 5, 14).
Rinnovata dalla nuova vita che abita in lei, la giovane Madre scende dalla Galilea per salire verso la montagna di Giuda, dove abita la sua parente Elisabetta. Oltre al normale motivo umano, la partenza è dovuta anche e specialmente alla nuova e potente energia che l’anima interiormente, come se vivesse in anticipo, in una meravigliosa sintesi, tutte le tappe principali dell’attesa Maternità. E così, alla prima carovana disponibile, si accoda, forse, insieme al suo sposo Giuseppe, e tra luoghi solitari, centri abitati e santuari di culto raggiunge la “città di Giuda”, Ain Karim, nei pressi di Gerusalemme.
Questo speciale pellegrinaggio familiare e missionario insieme potrebbe simbolicamente ricordare, al cuore dei promessi sposi, alcuni dei momenti più salienti della storia del popolo sacro: da un lato, la via seguita un tempo dai Patriarchi - Abramo Isacco e Giacobbe - quando attraversarono la Terra Promessa da nord a sud, toccando santuari e luoghi di vittoria di Israele - Sichem, Betel, Silo, Gilgal, Gabaon, Gerusalemme; e dall’altro, la “città di Giuda”, può loro ricordare anche la sede della primitiva Tradizione, ricevuta da Melchisedek, attraverso Abramo e che, passando per il re Davide, arriva fino a Giuseppe, secondo l’albero genealogico del Cristo (Mt 1, 16; Lc 3, 23).
Maria sale allora verso la montagna santa per ritornare anche alla sorgente della Tradizione rivelata, dove anche Elisabetta vanta la discendenza prestigiosa di Aronne, il sommo Sacerdote dell’Alleanza sigillata sul Sinai. Così anche il nome della “città di Giuda”, Ain Karim, è profondamente evocativo: significa, infatti, “sorgente della vigna”, “sorgente di Israele”, “sorgente di Giuda”. In questo luogo sorgente, il Cristo presente nel seno di Maria si rivela, in nuce, come “sorgente e compimento” del disegno di Dio.

L’incontro tra due donne
Maria porta in sé la novità delle novità, ed Elisabetta viene invasa di gioia dalla semplice presenza. Maria è la Vergine che genera, Elisabetta la sterile che partorisce. Le due donne sono madri per grazia di Dio: ciascuna in modo differente. Attraverso di esse, due mondi si incontrano: l’Antica Alleanza, simboleggiata dalla sterilità della “vecchiaia”; e la Nuova Alleanza, dalla fecondità della “giovane madre vergine”.
Attraverso la semplice semantica degli nomi dei due trittici si può rappresentare anche un significato evocativo dell’incontro. I primi ad accorgersi delle novità sono i due nascituri nel grembo delle rispettive madri: Giovanni, “il Signore è misericordia”, simboleggia il frutto della giustizia di Israele che riconosce presente il Salvatore, i cui genitori sono dichiarati “giusti davanti a Dio” (Lc 1, 6); Elisabetta, “Dio l’ha detto con giuramento”; e Zaccaria, “Il Signore si è ricordato”. Come a dire che l’Antico Testamento può riassumersi nella triade dei nomi propri attraverso la simbolica dell’etimologia: Giuramento Memoria e Misericordia. Allora, quando si ricorda a Dio del suo giuramento, vuol dire che Dio offre la misericordia al suo Popolo.
Anche dalla triade rappresentante il Nuovo Testamento - Gesù Giuseppe e Maria - si possono rievocare simbolicamente gli aspetti più significativi. Il Bambino che nascerà da Maria si chiamerà Gesù: “Dio Salvatore “. Come Giosuè è stato il conquistatore della Terra Promessa, così Gesù è colui che apre al Popolo di Dio il cammino verso il Regno di Dio, la vera Patria del Cielo. Giuseppe, “il Signore ha aggiunto”, annuncia la sovrabbondanza di grazia offerta da Dio al suo Popolo; e il nome di Maria, infine, in base alla radice di riferimento - aramaica ebraica o egizia - può avere più significati: dall’aramaico, “Principessa, Regina, Signora”, tradotto in greco con Kyrìa, femminile di Kyrios, Signore; e in latino con Domina, femminile di Dominus; significato che trova felice e antica rievocazione nella Donna primordiale (Gn 3, 15) ed escatologica (Ap 12, 1-6), di cui parlano le profezie di Isaia (7, 14-15) e di Micheia (5, 1-3); all’ebraico, invece, Maria potrebbe indicare Colei che vede, Colei che fa vedere, intuizione che introduce direttamente alla sua missione: Colei che rende visibile l’Invisibile, confermato dalla Parola: “Nessuno ha mai visto Dio” (Gv 1, 18; 1Gv 4, 12), “né può vederlo” (1Tm 6, 16), “solo l’unigenito Figlio [Incarnato] lo ha rivelato” (Gv 1, 18); difatti: “Cristo è l’immagine del Dio invisibile” (Col 1, 15) e “chi vede me [Cristo] vede ugualmente Dio Padre” (Gv 12, 45; 14, 7-10); dall’egizio, infine, può significare Colei che è amata da Dio. Sublime indicazione! Maria è la Donna amata-da-Dio, perché porta nel suo seno l’Amato, il Diletto, il Prediletto: “Tu sei il Figlio mio prediletto” (Mc 1, 11; 9, 7).
L’incontro alle sorgenti di Giuda tra i due trittici umani, raffigurati dal dialogo delle due madri, da un lato sintetizza, in Giovanni, la giustizia dell’Antico Testamento, fecondata dalla Misericordia divina; e dall’altro, l’accoglienza del nascituro Gesù apre alla nuova realtà inaugurata da Maria, la “Vergine fatta Chiesa”. La semplice presenza di Cristo in Maria è sorgente di gaudio per chi lo riconosce; il Battista, infatti, esulta di gioia nel grembo di sua madre, perché ha riconosciuto per rivelazione la presenza di Cristo.
Dalle profondità del proprio essere, Elisabetta viene contagiata dal suo frutto viscerale e piena di Spirito esclama: “Come mai la Madre del mio Si¬gnore viene a me?” (Lc 1, 43), dandone anche la motivazione: “E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1, 45). La risposta alla parola-invito divino rende soggettivamente presente Dio nell’uomo. Risposta che tecnicamente si chiama fede. Alla parola dell’Angelo, Maria ha risposto: “Eccomi… avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1, 38); e con il suo “sì”, ha reso presente agli altri la Parola, davanti alla quale Elisabetta, interiormente sollecitata dal “sì del suo frutto”, gioisce profondamente ed esulta nella sua anima.
Maria non risponde alla lode di Elisabetta, né assapora la lusinga del complimento, ma si pone sola davanti al Dio Incarnato nel suo seno. E in modo sublime proietta la lode ricevuta al suo Signore, unica sorgente di gioia e solo degno di onore (Ap 4, 11; 5, 12). Nasce così lo schema della preghiera: da Dio a Cristo, da Cristo a Maria e da Maria all’uomo, e inversamente dall’uomo a Maria, da Maria a Cristo e da Cristo a Dio. È il ciclo di ogni preghiera autentica che voglia rispettare l’iniziativa e la fecondità della Parola, secondo il Primato assoluto di Cristo.

Il racconto
La visita di Maria a Elisabetta pone a confronto il Precursore e il Messia. L’evento messianico annunciato dall’arcangelo Gabriele esce fuori dal seno di Maria, per iniziare la sua avventura storico-umana. Il racconto è semplice essenziale e senza retorica. È una narrazione scarna di aggettivi e con tre modalità specifiche: Maria si mette in cammino “in fretta”; Elisabetta grida con “voce forte”; e il bambino sobbalza di “gioia”. Importante notare la disposizione dei personaggi e delle relazioni che si instaurano fra loro: sulla scena, da un lato le due madri ben in vista; e dall’altro i due nascituri invisibili; e lo Spirito come protagonista invisibile e visibile a un tempo nelle manifestazioni che suscita.

Il saluto
Maria porge il saluto, attorno al quale si sviluppano gli aspetti importanti dell’episodio: il sussulto del bambino nel grembo; la venuta dello Spirito; il riconoscimento di Elisabetta. Il saluto di Maria è senza parole. Luca utilizza il silenzio per collocare la persona di Maria al centro della scena: è la voce di Maria a fare sussultare il bambino, e non le sue parole. Il nascituro percepisce la presenza del Messia atteso attraverso la voce. 

L’avvenimento
È raccontato due volte: da Luca e da Elisabetta. Il tratto comune è il sussultare del bambino, che assume un peso particolare. I due racconti sono diversi. Il primo racconta tre cose: il bambino che sussulta nel grembo materno; Elisabetta che viene riempita di Spirito Santo; e proclama a gran voce. Il secondo precisa che a far sobbalzare il bambino è stata la voce di Maria e che si trattò di un salto di gioia. Per esprimere questa speciale sensazione materna, diversa da quella naturale, Luca usa un termine che esprime quella profonda e delicata gioia, che pervade tutta la persona e che “trasuda” anche all’esterno del corpo. È la gioia messianica. Elisabetta sente il bambino sobbalzare in grembo e - ripiena di Spirito Santo - comprende che si tratta di un gesto da leggere in ordine alla salvezza. Prima di nascere, Giovanni riconosce che Maria porta nel suo grembo il Messia. Ed esprime questo riconoscimento con un sobbalzo di gioia e di allegrezza. Maria è portatrice di santificazione e di autentica gioia.

Benedetta fra le donne

Al saluto di Maria, Elisabetta risponde: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?... E beata colei che ha creduto” (Lc 1, 42-45).  Queste parole di Elisabetta non sono soltanto una risposta, ma una interpretazione di ciò che accade; non sono un semplice augurio, ma una rivelazione di Dio. Interpretano: l’evento che accade in Maria. Tre i riconoscimenti: benedetta fra tutte le donne; madre del Signore; e beata perché ha creduto. Il grido di Elisabetta non augura una benedizione, ma constata una benedizione già ricevuta da Dio.
Con l’espressione semitica “fra le donne”, che equivale a un superlativo, “fra tutte le donne”, l’evangelista vuole attirare l’attenzione sulla funzione di Maria: essere la “Madre del Signore”. A lei viene riservata una benedizione e una beatitudine: l’una, perché ontologicamente predestinata da Dio; l’altra, perché storicamente accetta e aderisce alla volontà di Dio. In questo modo, Maria partecipa alla visibilità dell’invisibile Verbo di Dio. Ora Elisabetta le riconosce tale funzione materna di Maria, e la proclama “benedetta come madre” e “beata come credente”.

La madre del mio Signore
Giovanni saltò di gioia all’udire la voce di Maria. E dal sussulto, Elisabetta comprende l’intimo significato della voce di Maria, perché anche lei, “pieno di Spirito”, si chiede: “A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?” (Lc 1, 43). Espressione che, nella meraviglia, pone una domanda, cui non c’è risposta. Dicendo: “la Madre del mio Signore”, Elisabetta riconosce al tempo stesso l’identità di Maria e quella di Gesù. Per la prima volta, nel vangelo di Luca, Gesù è chiamato “Signore”. Con lo stesso titolo lo chiameranno poi gli angeli nell’annuncio ai pastori: “Oggi è nato…il Cristo Signore” (Lc 2,11). Il riconoscimento della “Madre del Signore” è il titolo mariano più splendido e più meraviglioso. Si può paragonare all’espressione della fede pasquale di Tommaso: “Mio Signore e mio Dio” (Gv 20, 28). 

Beata colei che ha creduto

Elisabetta riconosce Maria come Madre e come Credente. II primo riconoscimento è singolare e personale, e riguarda direttamente soltanto Maria; il secondo, invece, “Beata colei che ha creduto” (Lc 1, 45), è usato in terza persona, per indicare anche l’apertura verso l’universalità. La maternità fisica appartiene solo alla persona di Maria; mentre, la maternità spirituale si apre agli altri e si applica a chiunque crede. Per la sua fede, Maria è modello di tutti coloro che ascoltano la Parola e la osservano. E per questo, può chiamarsi “la Madre dei credenti”, come Abramo è “il Padre dei credenti” (Rm 4, 1-25; Gal 3, 6-29).
Come le due funzioni della maternità in Maria sono presenti in lei da sempre, a motivo della sua predestinazione assoluta; così anche la sua fede è stata sempre adulta e matura fin dall’inizio. Maternità e fede esprimono in Maria la sua singolare personalità della “donna”: dal Genesi (3, 15) all’Apocalisse (12, 1). Nella primordiale scelta a “Madre del Signore” è implicita anche la funzione formale del credente perfetto.

Il Cantico dell’amore e dell’umiltà
Il cantico del Magnificat per la sua multi-forma ricchezza di contenuti si può definire una piccola “summa” teologica e una scuola di preghiera. La chiave di lettura è certamente la pienezza di lode e di ringraziamento, vibranti nel cuore della giovane Madre, che, a nome dell’intera umanità, ha sentito tutta la gioia di elevare al suo Figlio e Signore, da poco resosi geneticamente presente nel suo seno. Pur lontano nel tempo, il cantico è sempre presente nella storia per il suo valore esemplare per l’uomo di fede. L’evangelista Luca pone sulla bocca della giovane Madre questo stupendo cantico, la cui eco non si è mai affievolita, da quando è stato eseguito, per la prima volta, ad Ain Karim, nei pressi di Gerusalemme, teatro universale dell’avventura teandrica di Cristo sulla terra. La sceneggiatura di questa avventura è penetrata nell’etere dell’universo mondo come memoriale: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22, 19; Mt 26, 26; Mc 14, 22;1Cor 11, 23-24).
La riflessione sul cantico vuole ricordare prima di tutto che il Magnificat è una scuola di vita spirituale, che sgorga da un cuore virgineo e puro, come diamante che riflette nel tempo bellezza e splendore dell’eternità; ma anche una guida sicura di preghiera per la vita interiore del credente. Ascoltando la giovane Madre che magnifica il Signore, si scopre il cammino autentico dell’umanità credente; e gustandolo, il cuore credente s’innamora e si illumi¬na nel profondo e viene spinto a pregare come lei e con lei.
Come gli altri “inni” del NT, anche questo del Magnificat è nato dalla fede della chiesa primitiva che ha ripreso alcuni temi propri della spiritualità degli “anawim”, i poveri del Signore, e li ha applicati all’evento-mistero della Redenzione. Luca ha ritenuto opportuno porlo sulle labbra di Maria e inserirlo nel suo racconto dell’infanzia di Gesù, insieme agli altri due cantici di Zaccaria e di Simeone. Nel suo complesso, si tratta di una raccolta di testi e di citazioni dell’AT, coordinati con elementi specifici della spiritualità degli “anawim”, che l’agiografo ha posto sulla bocca di Maria, per ricordare con più incisività l’azione salvifica di Dio quale si è rivelata nel corso della storia del popolo di Israele.
La struttura del cantico può ripartirsi in tre temi: la risposta di Maria; il soccorso dei poveri e dei piccoli a discapito dei ricchi e dei potenti; e il favore divino a Israele in seguito alla promessa fatta ad Abramo. Nella prima parte, Maria ringrazia brevemente Dio per il favore manifestato nei confronti della sua serva, che anticipa e descrive ciò che farà per i poveri, i deboli e gli oppressi del mondo che è il tema centrale della seconda parte del cantico; prima di annunciare il trionfo del disegno di Dio per tutti i popoli e ovunque, in forza della promessa, tema della terza parte. Dio viene esaltato per quanto ha fatto e farà, come distinzione logica dell’eterno presente dell’azione divina.
L’oggetto del magnificare di Maria è lo stesso Cristo, che si è impiantato nel suo grembo, perché l’azione dell’amore divino termina sempre e soltanto in Cristo, che storicamente è simboleggiato nello stesso “Israele, suo servo…”, cioè all’intera umanità. Con il suo sì, Maria abbraccia, con un colpo d’occhio, tutta la storia dell’Amore divino, dalla predestinazione alla glorificazione finale. In tal modo, la sua lode si riveste di universalità, superando ogni barriera temporale e spaziale, e assurge a valore di paradigma per qualsiasi credente che voglia essere perfettamente sé stesso e realizzarsi nel grandioso disegno divino, nel quale ogni uomo è presente in Cristo prima della creazione del mondo, e solo in Cristo può portare a compimento.

Il culto
Con il titolo di “Madonna delle grazie” o “Santa Maria delle grazie” sono dedicati molti santuari mariani e tantissime le chiese sia in Italia che all’estero. La data della celebrazione, tuttavia, non è uniforme: ogni paese festeggia nei giorni della propria tradizione. La data più comune, prima dell’attuale riforma, era il 2 luglio. Con la riforma conciliare, applicata da Paolo VI, nel nuovo Calendarium Romanum (1969) e nella Marialis cultus (1974), oggi si celebra, con il titolo di “Visitazione di Maria Vergine” e con il grado liturgico di “festa”, il 31 maggio. In questo modo, la festa viene a situarsi tra le solennità dell’Annunciazione del Signore (25 marzo) e della Natività di S. Giovanni Battista (24 giugno), che meglio si adatta alla narrazione evangelica.
La liturgia della “Visitazione della Vergine Maria” si celebra il 31 maggio.


Autore: P. Giovanni Lauriola ofm


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