Dettagli evento
- venerdì | 4 ottobre 2024
San Francesco d'Assisi
Patrono d'Italia
4 ottobre
Assisi, Perugia, 1182 – 3 ottobre 1226
Francesco nacque ad Assisi nel 1182, nel pieno del fermento dell'età comunale. Figlio di un mercante, da giovane aspirava a entrare nella cerchia della piccola nobiltà cittadina. Per questo ricercò la gloria tramite le imprese militari, finché comprese di dover servire solo il Signore. Si diede quindi a una vita di penitenza e solitudine in totale povertà, dopo aver abbandonato la famiglia e i beni terreni. Nel 1209, in seguito a un’ulteriore ispirazione, iniziò a predicare il Vangelo nelle città, mentre si univano a lui i primi discepoli. Con loro si recò a Roma per avere dal papa Innocenzo III l'approvazione della sua scelta di vita. Dal 1210 al 1224 peregrinò per le strade e le piazze d'Italia: dovunque accorrevano a lui folle numerose e schiere di discepoli che egli chiamava “frati”, cioè “fratelli”. Accolse poi la giovane Chiara che diede inizio al Secondo Ordine francescano, e fondò un Terzo Ordine per quanti desideravano vivere da penitenti, con regole adatte per i laici. Morì la sera del 3 ottobre del 1226 presso la chiesa di Santa Maria degli Angeli ad Assisi. È stato canonizzato da papa Gregorio IX il 16 luglio 1228. Papa Pio XII ha proclamato lui e santa Caterina da Siena Patroni Primari d’Italia il 18 giugno 1939. I resti mortali di colui che è diventato noto come il “Poverello d’Assisi” sono venerati nella Basilica a lui dedicata ad Assisi, precisamente nella cripta della chiesa inferiore.
Patronato: Italia, Ecologisti, Animali, Uccelli, Commercianti, Lupetti/Coccin. AGESCI
Etimologia: Francesco = libero, dall'antico tedesco
Emblema: Lupo, Uccelli
Martirologio Romano: Memoria di san Francesco, che, dopo una spensierata gioventù, ad Assisi in Umbria si convertì ad una vita evangelica, per servire Gesù Cristo che aveva incontrato in particolare nei poveri e nei diseredati, facendosi egli stesso povero. Unì a sé in comunità i Frati Minori. A tutti, itinerando, predicò l’amore di Dio, fino anche in Terra Santa, cercando nelle sue parole come nelle azioni la perfetta sequela di Cristo, e volle morire sulla nuda terra.
LA VITA
Della nascita di Francesco non si conosce con certezza né il giorno, né il mese e neppure l’anno. Comunemente, si accetta il 1182 come anno della sua venuta al mondo. Sia alla nascita che al fonte battesimale, il padre Pietro di Bernardone dei Moriconi, era assente, e la madre, la nobil donna Pica Bourlemont, d’origine provenzale, gli mise il nome Giovanni. Al ritorno dal viaggio di lavoro in Francia, il padre lo chiamò Francesco. Era una famiglia della borghesia nascente della città di Assisi.
Riceve la prima formazione in famiglia, specialmente dalla madre Pica, molto devota e pia. Intorno ai 6 anni frequenta il primo grado di istruzione per 5 anni. Vi si insegnava a leggere e a scrivere non solo in latino (la propria lingua), ma anche in francese; a cantare inni liturgici e salmodia; e anche a misurare secondo i non facili calcoli del tempo. E molto probabile, invece, che, per la sua elevata condizione economica e per assicurarsi una qualsiasi apertura alla vita sociale o alla carriera militare, Francesco abbia frequentato anche un corso di formazione superiore, presso qualche abbazia vicina.
La crisi
Prima del crollo definitivo di un progetto, c’è sempre un barlume di speranza, in cui l’uomo resta completamente solo con sé stesso, solo con la propria ambiguità, solo con l’essere di cui non si è potuto realizzare. Alla prima occasione, riemerge all’improvviso un guizzo dell’ideale desiderato. La campagna antimperiale, promossa dal papato nell’Italia meridionale, offrì a Francesco la possibilità di arruolarsi, per il raduno in Puglia. Così, tutto impettito nella lussuosa armatura militare a cavallo, e con profonda commozione e vivida speranza, prese commiato dai suoi cari in pena, dagli amici invidiosi e dalla ridente città natale. Il viaggio della speranza durò un sol giorno: nella tappa-sosta di Spoleto.
Episodio di Spoleto
Che cosa è accaduto? Difficile dirlo. Solo congetture.
Le Fonti ricorrono al soprannaturale con l’espediente della visione in sogno. Altre ipotesi: un improvviso riacutizzarsi della malattia; qualche dispetto di commilitone; la riflessione sulle finalità dell’arruolamento per guadagno e non per ideale; un ripensamento sull’inutilità della guerra per risolvere i problemi sociali... Questi e altri pensieri avranno turbinato nell’animo di Francesco, durante la prima notte della sua avventura militare. Il ritorno inatteso e solitario fa scalpore in Assisi. Un mormorio di curiosità e di dicerie passa di porta in porta e da bocca a bocca. I genitori assoporano l’amarezza della delusione. Francesco è provato dalle contrastanti emozioni, da cui si sente circondato dentro e fuori casa.
Al rientro da Spoleto, divenne più riservato solitario e taciturno, ma anche più attento alle esigenze degli altri e più prodigo verso i poveri. Cominciò a percepire una maggiore sensibilità verso la caducità della vita e delle cose. Questo “distacco” gli permetteva di essere libero-da e dare un diverso gusto alla vita, con uno spiccato bisogno interiore di stare solo con sé stesso e di abbandonare ogni altra occupazione. Onde, la ricerca di luoghi solitari e impervi. Al distacco dalle cose, Francesco aggiunse anche il “silenzio” dalle cose, aprendosi all’origine della loro esistenza, tanto da provocare in lui profonda gioia interiore, e contribuire a dimenticare anche le precedenti sofferenze. Nel cuore di Francesco era tornato la gioia: aveva trovato il segreto che lo rendeva “libero” da ogni cosa e “aperto” a ogni realtà.
Bacio al lebbroso
Ne è un esempio l’episodio del “lebbroso”. Nel contado di Assisi erano abbastanza evidenti i segni della guerra: lutti miseria malattie carestia disordine morale... La mancanza di adeguate strutture per la prima assistenza concreta costringeva alcuni ad “arrangiarsi”, girovagando per le campagne deserte, in cerca di qualcosa per sopravvivere o per tranquillizzare l’animo esacerbato dalla lotta fraterna tra ricchi e poveri. Disumana, invece, era la condizione del malato di lebbra, lasciato solo con sé stesso in balia del suo male. In un momento della sua crisi, Francesco si aggirava per le campagne in cerca di tranquillità interiore, e si incontrò con un lebbroso. Superata l’istintiva ripulsa, lo abbracciò e gli consegnò il denaro che possedeva. Con questa nuova gioia, fece il pellegrinaggio a Roma, in S. Pietro, come “finto” povero.
Preghiera al Crocifisso
Ai piedi del Cristo crocifisso, per es., la preghiera si trasformò in contemplazione, fino all’immedesimazione: Francesco si trovava come sospeso tra la profondità della sua psiche e la trascendenza di Dio: “Sommo e glorioso Dio, illumina le tenebre del cuore mio, e dammi fede retta, speranza certa e carità perfetta, saggezza e conoscimento, o Signore, affinché io faccia il tuo santo e verace comandamento” (Preghiera davanti al Crocifisso, in K. Esser, Gli Scritti di S. Francesco d’Assisi, Ed. Messaggero, Padova 1982, pp. 452-453).
L’invocazione di Francesco al Crocifisso segnò il momento decisivo della sua crisi. Anche l’espressione “ripara la mia casa che è in rovina”, gettò indicibile gioia nel cuore di Francesco, che si sentì investito della missione di riparare la cappella di S. Damiano. Anche l’episodio di Foligno perfeziona la sua volontà che lottava tra due sofferenze: quella per il disagio provocato all’ambiente familiare; e l’altra per l’ostacolo non superato a riparare la casa del Crocifisso per mancanza di fondi.
Intensificò, perciò, raccoglimento e preghiera. Grande giovamento ricevette dall’ascolto di alcune espressioni evangeliche, diventate di moda per la diffusione ad opera dei movimenti pauperistici. Si ricordano alcune che dividono il cuore: “Se uno non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14, 26); “Chi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 14, 33); “È più facile che un cammello entri nella cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei Cieli” (Mt 19, 24); “Chi avrà lasciato casa fratelli sorelle padre madre figli campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eternal” (Mt 19, 29); “Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello sorella e madre” (Mc 3, 35).
La dura decisione
Mentre Francesco era tutto intento a gustare l’immensa gioia interiore, proveniente dalla Parola del Signore, ecco che gli venne notificato, dai messi dei Consoli di Assisi, la citazione di comparizione, avanzata dallo sconsolato padre, Pietro di Bernardone. Senza punto scomporsi e valendosi di una consuetudine, diffusa tra gli eremiti e i penitenti, si autodichiarò servus ecclesiae, sottraendosi così alla giurisdizione dell’autorità civile. Nella piazza, dove il Vescovo amministrava la giustizia, si presentò Francesco tra l’emozione di alcuni e la curiosità di molti. E compì la “dura” decisione della sua conversione.
La prima esperienza apostolica
Il campo della primitiva esperienza è Assisi. Gli ascoltatori sono i suoi concittadini. Nel vederlo e ascoltarlo, alcuni consideravano Francesco un fallito e un pazzo, altri si lasciarono commuovere dalla sua scelta. La parola di Francesco usciva dal cuore per potenza e ricchezza d’amore. All’amore non si resiste, si risponde solo con amore. E Francesco, con parola semplice e d’amore infuocata, riusciva a risvegliare negli ascoltatori più benevoli quella scintilla d’amore divino, insito in ogni cuore, che dalla curiosità porta all’ammirazione e alla sequela.
I primi compagni
Il primo gruppetto era composto da 5 amici, di cui due sacerdoti, Pietro e Silvestro; due laici, Bernardo ed Egidio; e lo stesso Francesco. Dopo l’esperienza in Assisi, per la quale era sufficiente l’autorizzazione del Vescovo per predicare il verbum exortationis, Francesco fu come spinto da un impulso interiore a travalicare i confini del contado, per espandere la fragranza della sua gioia nelle località limitrofe. Improvvisò così una piccola spedizione missionaria, inviando gli amici a due a due per le vicine città.
Nel momento della verifica ad Assisi, Francesco si accorse delle reali difficoltà cui andava incontro il suo ideale e cominciò a pensare ai problemi di organizzazione. Come proposta viene fuori la necessità di dare al gruppo una organizzazione interna e garantirne la struttura giuridica. Per attuarla si decise di andare dal signor Papa, per chiedere la conferma al loro “propositum vitae”. Così, il gruppetto andò a Roma, ottenendo la conferma orale da parte di Innocenzo III.
La fondazione dell’Ordine
La prima Regola, presentata da Francesco nel 1221 per l’approvazione da Roma, è detta non bollata, perché non ricevette alcuna conferma da parte del Papa. In un momento molto provato della sua vita, Francesco riuscì, con la collaborazione di frati esperti e della stessa curia romana, a scrivere una nuova Regola, che Onorio III approvava con la bolla Solet annuere del 29 novembre 1223. Così, dal 1223 nasceva la Regola bollata dell’Ordine dei Frati Minori, che regola a tutt’oggi la vita dei francescani.
L’amore per la Terra Santa
Nel primo Capitolo Generale dei Frati Minori del 1217, Francesco divise il mondo da evangelizzare in “province”: tra le undici appare anche quella di Terra Santa, che comprendeva Costantinopoli e il suo impero, la Grecia e le sue isole, l’Asia Minore, Antiochia, la Siria, la Palestina, l’isola di Cipro, l’Egitto e tutto il resto del Levante. Fu affidata alle cure di Frate Elia, figura preminente nella nascente fraternità, sia per il suo talento organizzativo, sia per la sua vasta cultura. Nel 1219, lo stesso Francesco volle visitare almeno una parte della Provincia di Terra Santa. Durante la sua presenza tra i Crociati, sotto le mura di Damietta, incontrò il Sultano d’Egitto, Melek-el-Kamel, nipote di Saladino il Grande.
Il Natale di Greccio
Amore e fantasia in Francesco vanno sempre insieme, per il suo animo naturalmente poetico. Lo si evidenzia principalmente nel Natale del 1223, in cui lo spirito poetico spinge Francesco a rappresentare l’evento storico dell’Incarnazione, che gli ricordava la discesa sulla terra dello stesso Dio, rivestito di umiltà povertà e innocenza, quasi a simboleggiare i tre voti della scelta esistenziale. Rappresentazione che spiritualmente si può leggere anche come un peana di ringraziamento per il dono ricevuto dell’approvazione della Regola dalla Chiesa, pochi giorni prima (29 novembre!). Così, nel bosco di Greccio, Francesco rievoca per la prima volta la rappresentazione natalizia: nasce il Presepe! Della sua vita, forse, questo sembra l’“episodio più delicato e anche più ardito”, da cui prende inizio l’arte nuova della pedagogia “realistica”, sganciata dall’imperante simbolismo: la rievocazione dei fatti evangelici o la Bibbia dei poveri.
L’ “ultimo sigillo”
Il Natale non è disgiunto dalla Pasqua: ontologicamente la Pasqua precede e perfeziona il Natale. Di conseguenza, il Natale rivissuto da Francesco non poteva non proiettarsi verso la Pasqua, che, per sé, è sempre preceduta dalla sofferenza della Croce. Così, senza saperlo, Francesco si prepara a ricevere il “sigillo” pasquale sul sasso della Verna. Le sue richieste di “sentire nell’anima” la Croce, e di provare “nel cuore” la gloria della risurrezione vengono inaspettatamente assecondate dal Cristo, che, per lui, inventa il dono delle Stimmate. E così, Francesco, dal 14 settembre 1224, divenne un alter Christus. Il divin Poeta immortala l’evento con la terzina: “Nel crudo sasso intra Tevere ed Arno / da Cristo prese l’ultimo sigillo / che le sue membra due anni portarono” (Paradiso, XI, vv. 106-108). Il termine “sigillo”, raffigurante l’Agnus Dei, secondo l’uso dei lanieri, garantiva l’autenticità della merce soltanto dopo il terzo o “ultimo sigillo”. Applicato a Francesco voleva significare che, con le Stimmate o “ultimo sigillo”, la sua santità non aveva bisogno di altra autenticazione.
Dopo l’episodio delle Stimmate, Francesco è certamente stanco e sofferente. Il Vicario Generale frate Elia, insieme al Vescovo Guido di Assisi cercarono di farlo riposare e curare. Venne ospitato a San Damiano da Chiara e le sue Sorelle. E qui, Francesco compose il suo capolavoro Il Cantico delle creature o, meglio, Il Cantico del Creatore.
La morte
Gli ultimi due anni di Francesco furono certamente segnati con più profondità da “sorella sofferenza” sia per le Stimmate e sia per tutte le altre malattie del corpo. Nella primavera del 1226, mentre si trovava a Siena, sententosi mancare, dettò un “piccolo” Testamento. Dopo, mentre si trovava nel convento delle Celle a Cortona, ne fece scrivere un altro, l’ultimo, e volle che fosse legato alla Regola. Dalle sorgenti del fiume Topino, nei pressi di Nocera Umbra, dove si trovava, Fancesco si fece trasportare ad Assisi, alla Porziuncula, per esalare l’ultimo respiro al tramonto del 3 ottobre 1226. Il suo corpo, dopo aver attraversato Assisi e sostato in San Damiano, venne sepolto nella chiesa di San Giorgio, da dove, nel 1230, la salma venne trasferita nell’attuale basilica, due anni dopo la sua canonizzazione da parte di Gregorio IX con la bolla Mira circa nos del 19 luglio 1228, fissando la festa liturgica al 4 ottobre.
Il secondo Ordine o Clarisse
Tutta Assisi parlava delle “bizzarie” del giovane Francesco, che viveva in povertà con i compagni laggiù nella pianura e che spesso saliva in città a predicare il Vangelo con il permesso del vescovo, augurando a tutti “pace e bene”. Nella primavera del 1209 aveva predicato perfino nella cattedrale di San Rufino, dove nell’attigua piazza abitava la nobile famiglia degli Affreduccio, e, sicuramente, in quell’occasione, fra i fedeli che ascoltavano, c’era la giovanissima figlia Chiara. Colpita dalle sue parole, prese ad innamorarsi del suo ideale di povertà evangelica e cominciò a contattarlo, accompagnata dall’amica Bona di Guelfuccio. Nella notte seguente la domenica delle Palme del 1211, abbandonò di nascosto il suo palazzo e correndo al buio attraverso i campi, giunse fino alla Porziuncola, dove chiese a Francesco di dargli Dio, quel Dio che lui aveva trovato e col quale conviveva. Francesco, davanti all’altare della Vergine, le tagliò la bionda e lunga capigliatura (ancora oggi conservata) consacrandola al Signore. Poi l’accompagnò al monastero delle benedettine a Bastia, per sottrarla all’ira dei parenti, i quali dopo un colloquio con Chiara che mostrò loro il capo senza capelli, si convinsero a lasciarla andare. Successivamente, Chiara e le compagne che l’avevano raggiunta, si spostò dopo alterne vicende, nel piccolo convento annesso alla chiesetta di San Damiano, dove, nel 1215, a 22 anni, Chiara fu nominata badessa; Francesco dettò per le “Povere donne recluse di San Damiano” una prima Regola di vita, nel 1215, sostituita da quella di Chiara, approvata il 9 agosto 1253 da Innocenzo IV. Il secondo Ordine costituisce l’incarnazione al femminile dell’ideale francescano.
Il terz’Ordine secolare (OFS)
Il Terz’ordine francescano, dal 1978 Ordine Secolare Francescano, è l’estensione dell’ideale francescano al mondo laicale. I primi laici francescani sono ritenuti i beati: Lucchese e Buonadonna da Poggibonsi, contemporanei del Fondatore. Proprio con riferimento alla loro conversione e all’abito penitenziale che ricevettero da Francesco, alcuni riconoscono la nascita del Terz’ordine francescano a Poggibonsi, in provincia di Siena. Nell’arco di quasi otto secoli di storia, la Regola dell’OFS ha registrato tre interventi ufficiali da parte di Roma: Nicolò IV con la bolla Supra Montem (18 agosto 1289); Leone XIII con la costituzione Misericors Dei Filius (30 maggio 1883); e PaoloVI con il breve Seraphicus Patriarcha (24 giugno 1978), che vige tutt’ora.
Il Terzo Ordine Regolare (TOR)
In parallelo all’OFS, si sviluppa anche il Terzo Ordine Regolare (TOR), una forma comunitaria di vita di perfezione con la professione dei consigli evangelici e con un apostolato aperto a tutte le necessità esistenziali dell’uomo: dal servizio pastorale a quello assistenziale educativo e scientifico. La prima approvazione ufficiale del TOR risale a Bonifacio VIII con la bolla Cupientes cultum (11 luglio 1295); Giovanni XXII, con la bolla Altissimo in divinis (18 novembre 1323) ribadisce l’approvazione ecclesiastica; Niccolò V, con la bolla Pastoralis officii (20 luglio 1447), approva la federazione delle fraternità in un Ordine centralizzato, con un unico Ministro e un Consiglio generale; Leone X con la bolla Inter caetera (20 gennaio 1521) diede al TOR la Regola propria, separandolo definitivamente dall’OFS; Pio XI, con la bolla Rerum conditio (4 novembre 1927), approva una nuova Regola; Giovanni Paolo II con il breve Franciscanum vitae propositum (8 dicembre 1982) sancisce la Regola attuale.
GLI SCRITTI
Sembra uno scherzo della storia: Francesco d’Assisi, autodefinitosi “homo sine litteris”, venga celebrato anche fra i poeti e i maestri di spirito. I suoi Scritti, oltre a essere destinati all’insegnamento interno dei suoi frati, soddisfano anche il gusto estetico. L’afflato dell’arte, benché istintivo, echeggia nel linguaggio semplice scorrevole e carezzevole, almeno di alcuni dei suoi Scritti, come la Salutatio virtutum (Il saluto alle virtù), il De virtute effugante vitio (La virtù per allontare il vizio), il Cantico delle creature, che esprimono un sicuro e indiscusso valore poetico e anche artistico. Tutti gli Scritti, eccetto il Cantico delle creature, sono vergati in un latino parlato, abbastanza idoneo a esprimere sentimenti di natura spirituale e mistica nella loro delicata gamma espressiva.
Nel loro insieme, gli Scritti rivelano una forte carica emotiva, derivata più dall’esperienza spirituale che da tensione estrinseca. Per questo, lo stile denota un carattere meno razionale che emotivo, più rivolto all’aspetto immediato della verità rivelata che alla sua comprensione, più impegnato all’esaltazione di Dio presente nella natura che alla stessa realtà oggetiva. La natura assurge a “segno” e “simbolo” della realtà divina, con la conseguenza che del mondo Francesco ha più una visione religiosa che scientifica, più mistica che reale.
IL PENSIERO
Il pensiero di Francesco si presenta molto variegato e di difficile sintesi organica e sistematica. Attraverso l’analisi tematica della frequenza di parole chiavi nei suoi Scritti, emerge un corpus di idee essenziali che contengono una sicura Weltanschauung (concezione del mondo e della vita) originale e geniale insieme. Questa concezione della vita e del mondo spazia dalla teologia alla filosofia, dalla valutazione positiva della natura alla necessità di un impegno sociale, dalla necessità del lavoro come mezzo normale di sussistenza alla scelta della povertà volontaria come ideale di umanesimo e al proposito della pace fondata più sul dialogo che sulla forza. Questo corpus di idee può essere raggruppato in quattro istanze: teocentrinche cristologiche ecclesiali e filosofiche.
Istanze teocentriche
Le idee teologiche sono facilmente catalizzabili intorno ai misteri principali della fede cristiana: Dio, Cristo, Maria, Chiesa, Eucaristia. Il pensiero di Francesco in queste verità è espresso in uno stile piano e semplice, più intuitivo che dimostrativo, spesso anche poetico: si snoda senza seguire alcun modello precostituito, né si organizza intorno a schemi prestabiliti. Del poeta, manifesta sensibilità, intuizione e immaginazione, riuscendo a trasformare i sentimenti veri e profondi in immagini vive ed efficaci; del mistico, invece, vive l’esperienza meravigliosa della paternità di Dio in tutte le sue implicanze spirituali.
Dall’uso dei titoli divini, si ricavano utili indicazioni su Dio in rapporto all’essere (unità semplicità incorporeità perfezione eternità santità), all’intelletto (onnipotenza, onniscienza, sapienza) e alla volontà (giustizia amore e misericordia). Come linguaggio, Francesco utilizza sia quello catafatico o positivo sia quello apofatico o negativo: con il primo esprime la vasta gamma dei sentimenti verso Dio; con l’altro, i limiti nel parlare di Dio, in quanto “è misterioso” (Giud 13, 18), ossia ineffabile per eccellenza. I titoli più suffragati: Pater, Dominus Deus, Omnipotens, Altissimus.
Francesco ha di Dio una visione unitaria e originale ben marcata, che investe la sua semplicità radicale, percepibile solo nella visione mistica della vita. La realtà empirica è considerata meno naturalisticamente che teologicamente, nel senso che l’incanto del mistero di Dio illumina l’essere in tutti i suoi spessori. Francesco è come “incantato” da questa luce ineffabile di Dio. Il suo linguaggio più positivo che negativo spiega anche il senso metaforico dell’uso dei nomi divini, che si riferiscono quasi sempre all’agire di Dio ad extra, e mai in quello ad intra. La visione teocentrica che emerge è rappresentabile nello schema: la fede in Dio Padre conduce alla scoperta del Figlio di Dio Incarnato, la cui sequela riconduce a Dio Padre attraverso l’opera dello Spirito Santo.
Istanze cristologiche
Dai titoli e dai relativi contesti in cui vengono utilizzati, si evince che Francesco è conquiso e affascinato dal mistero della divinità di Cristo. I titoli più utilizzati: Dominus, Filius Dei, Deus verus, Corpus et sanguinis Domini. Dalla visione d’insieme, si evince che Francesco ha una conoscenza del mistero cristologico, come rivelazione del mistero trinitario che si realizza storicamente in Cristo e continua nella Chiesa, fino al termine del tempo. La centralità del Cristo è considerata più nella luce della divinità e dell’uguaglianza con il Padre nello Spirito Santo, che in quello dell’Incarnazione.
L’idea principale che si deduce è quella di una visione dell’amore divino verso l’uomo che fa aprire Francesco al sentimento di riconoscenza e ringraziamento, di adorazione e benedizione verso Colui che solo piace a Dio, perché lo ama come Dio. Interessante notare: il titolo di Sapientia, che, benché usato una sola volta, costituisce come il fondamento a tutti gli altri titoli nella costruzione della vita cristiana e religiosa. La sua mancanza, infatti, è la causa di chi non si converte, di chi non crede, di chi non segue il Cristo, di chi si allontana dalla retta via, di chi non osserva ciò che ha promesso, perché non ha conosciuto l’amore, ossia “il Figlio di Dio, che è la vera Sapienza del Padre” (Epistola ai Fedeli II, 67). L’esperienza religiosa di Francesco appare, perciò, come immersa nell’oceano dell’altissimo e ineffabile mistero di Dio, dal quale trae alimento, vita e gioia.
Istanze ecclesiali
Dagli Scritti di Francesco emerge con evidenza l’unità teologica del suo pensiero. Anche nei titoli “ecclesiali” o del “Regno di Cristo”, attraverso la trilogia dei misteri – Chiesa, Eucaristia e Vergine Maria – ne è una testimonianza eloquente. Questa trilogia è considerata da Francesco meno come verità isolate che estensione nel tempo dell’azione di Cristo. Per quanto riguarda, per esempio, il mistero della Chiesa, messa in discussione da alcuni movimenti pauperistici ed ereticali, Francesco manifesta il suo modo di sentire la Chiesa, attraverso l’uso e la frequenza di titoli - santità e romanità - che denotano profonda fede sia alla gerarchia costituita e sia alla realtà misterica insegnata.
L’Eucaristia rappresenta per Francesco meno un mistero di devozione e di adorazione che la sintesi efficace del disegno di Dio sull’umanità. L’utilizzo dei titoli nell’esprimere questo mistero fondamentale rispecchia il clima di confusione che regnava all’epoca. Come per i titoli ecclesiali, così anche per quelli eucaristici, la preoccupazione di Francesco è di ordine teologico e disciplinare, perché intende salvaguardare il suo movimento da ogni ingerenza estranea all’ortodossia, e proteggere i suoi frati da eventuali abusi in una materia così delicata.
Da uno sguardo generale ai titoli e alla varietà degli Scritti, in cui vengono utilizzati, si evince che per Francesco l’importanza dell’Eucaristia consiste meno nell’elemento cultuale che nel mistero della presenza reale del Signore, come cuore del disegno di salvezza voluto da Dio. Da ciò, scaturisce anche la venerazione verso il “sacerdote”, visto come colui che confeziona e amministra l’Eucaristia.
Dai due testi mariani, il Saluto alla Vergine e l’Antifona all’Ufficio della passione, si ricava l’impressione che le idee di Francesco derivino più da un atteggiamento di fede vissuta nella dottrina insegnata dalla Chiesa, che da uno studio sull’argomento. Nella loro composizione, Francesco evita di parlare della Vergine Maria come realtà a sé stante, ma sempre in contesto teologico, perché il suo mistero non può essere compreso se non da chi appartiene già a Cristo: è presentata sempre come “dono” di Dio all’umanità. E come tale, Francesco sente irrompente il bisogno di elevare inni di ringraziamento; ed ebbro di gioia invita la stessa Vergine a cantare, insieme alla corte celeste, l’inno di lode a Dio, Uno e Trino. Le due composizioni sono principalmente delle preghiere contemplative, in cui la fede si effonde in esclamazioni di lode, ammirazione e ringraziamento a Dio, da non lasciare spazio al pensiero umano di pensare. Dei titoli, tre sono di natura mariana (Virgo, Domina e Regina), uno ecclesiale (Virgo ecclesia facta), uno cristologico (Mater Domini), e gli altri di carattere trinitario. Tutti ruotano intorno alla “maternità divina”.
Anche intorno al mistero della Madonna, Francesco è attratto dalla sublimità del mistero di Dio, Uno e Trino, e in lui contempla tutta la pienezza della divinità realizzata nel Cristo storico e nel Cristo della fede. Il contesto cristologico, pur essendo meno appariscente, è profondamente presente, tanto da costituire il centro della vita di Francesco. Interessante è l’aspetto ecclesiale dei titoli mariani, specialmente attraverso la bella espressione “Maria, quae es Virgo ecclesia facta” (Maria è la Vergine fatta Chiesa), come a dire: Maria è venerata come la prima Chiesa consacrata da Dio, e in senso storico e in senso spirituale. Oggi, potrebbe corrispondere al titolo di “Madre della Chiesa”.
Istanze filosofiche
Di fronte al mistero di Dio, Francesco tiene ben distinta la conoscenza dalla dimostrazione della sua esistenza. L’idea di Dio nasce in lui da un’esperienza originaria, che si chiarisce e definisce in atteggiamento religioso. Lo conferma il suo linguaggio, la cui caratteristica fondamentale conserva ancora una mentalità simbolico-mitica e mistico-poetica. In diversi luoghi dei suoi Scritti, si parla di una conoscenza di Dio, in cui si possono distinguere tre aspetti diversi e complementari: conoscenza di Dio in sé, conoscenza di Dio nell’uomo e conoscenza di Dio nel mondo. Brevemente.
Conoscenza di Dio in sé
Il leit-motiv della conoscenza di Dio in Francesco è la fede nella “creazione”, che, da un lato, manifesta la sua indiscussa certezza nella potenza creatrice divina, e, dall’altro, rivela il limite ontologico della natura umana. Pensiero espresso chiaramente nella Regola non bollata (Rnb): “I frati annuncino agli increduli la parola di Dio, perché credano in Dio onnipotente Padre Figlio e Spirito Santo come creatore di tutte le cose” (Rnb 16, 7); “Temete e onorate, lodate e benedite, ringraziate e adorate il Signore Iddio onnipotente, nella trinità e unità, Padre Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose” (Rnb 21, 2); “Onnipotente, santissimo, altissimo e sommo Iddio, Padre santo e giusto, Signore e Re dell’universo, per te stesso ti rendiamo grazie, perché, per la tua santa volontà e mediante l’unico Figlio tuo nello Spirito Santo, hai creato tutte le cose spirituali e materiali, e noi, fatti a immagine e somiglianza tua…” (Rnb 23, 1ss).
Quale il fondamento filosofico di questa conoscenza?
La risposta di Francesco impressiona per semplicità e profondità, ma anche per difficoltà ermeneutica: “Considera, uomo, in quale condizione ti ha innalzato il Signore Iddio: ti creò formandoti a immagine del suo diletto Figlio per il corpo, e a sua immagine per l’anima” (Ammonizione, 5, 1). Come l’immagine tende per sua natura a ritornare alla propria origine, così anche l’essere umano diventa uomo, quando, trascendendo sé stesso, tende a identificarsi con la realtà di cui è immagine.
Conoscenza di Dio nell’uomo
Nell’aspetto della conoscenza di Dio nell’uomo, Francesco rivela anche la sua visione antropologica: “Tanto vale l’uomo quanto vale davanti a Dio, e non di più” (Ammonizione, 19, 3); “Lo Spirito del Signore abita nel cuore dei suoi fedeli” (Ammonizione, 1, 12); “Costruiamo sempre nei nostri cuori una stabile dimora al Signore Iddio onnipotente” (Rnb 22, 27); “Coloro che vivono nella conversione continua e si nutrono con fede dell’Eucaristia, sono benedetti e beati, perché lo Spirito del Signore riposerà su di essi e nei loro cuori costruirà la sua stabile dimora” (Epistola ai Fedeli, I, 3-6); “Lo Spirito del Signore riposerà su di essi e nei loro cuori costruirà la sua stabile dimora” (Epistola ai Fedeli, II, 48). L’idea principale emergente da questi testi è la certezza che Dio abita nel cuore dell’uomo, come dono, del quale l’uomo non può aver alcun motivo per gloriarsi, come lui stesso ricorda: “Anche se fossi così intelligente e sapiente, da possedere ogni scienza ed essere in grado d’interpretare ogni lingua e di penetrare nei misteri celesti, non potresti vantarti di queste qualità” (Ammonizione, 5, 5). Riconoscere questo rapporto creaturale significa essere di Dio, appartenere a Dio, ascoltare Dio e ricambiare tale amore.
Conoscenza di Dio nelle cose
Il riconoscimento di Di in sé stesso orienta l’attenzione di Francesco, quasi naturalmente, verso la sapienza divina presente nella realtà dell’universo, come si evince dal Cantico delle creature, che sviluppo è in tre tempi: apertura intuitiva al trascendente teologico, intuizione del trascendente immanente nel mondo, e ritorno laudativo e contemplativo al trascendente teologico. Ogni tempo scandisce un preciso attributo divino: l’Onnipotenza di Dio che ha chiamato all’esistenza ogni creatura; la Sapienza di Dio che conserva nell’ordine le cose create; e l’Amore di benevolenza con cui Dio assiste l’essere creato. Come i tre attributi esprimono la medesima realtà, così anche i tre tempi del Cantico vanno considerati nella loro unità, come l’invocazione iniziale esprime “Altissimu onnipotente bon Signore”: con il termine “Altissimu” viene esprime l’assoluta trascendenza; con l’“onnipotente”, la potenza creatrice; e con il “bon Signore”, l’amore di benevolenza.
In sintonia con la mentalità simbolica del XII secolo, Francesco afferma poeticamente che all’uomo è impedito ontologicamente di parlare in modo positivo e affermativo di Dio: “et nullu homo ene dignu te mentovare”; e ringrazia lo stesso Dio per la consapevolezza che gli ha dato della sua immanenza anche nell’universo: “laudato sie, mi signore, cum tucte le tue creature”. Di fronte all’umana impossibilità di penetrare la trascendenza di Dio, Francesco si concentra sul vestigium Dei, espresso bellamente dal verso: “de te, altissimo, porta significatione”, che richiama la tradizione fondata su Isaia: “se non crederai, non potrai comprendere” (Is 7, 9); cui fa Alano di Lilla (1120-1203): “La lira poetica nella corteccia superficiale della lettera risuona falsamente, ma interiormente manifesta agli uditori il segreto di un significato più elevato, affinché gettata via la scorza della falsità esteriore, il lettore trovi internamente il nucleo più dolce della riposta verità” (De planctu naturae, cit. in Henri De Lubac, Esegesi medievale, ed. Paoline, Roma 1972, II, p. 1340; M.D. Chenu, La teologia nel medio evo, Jaca Book, Milano 1972, p. 175); “ogni creatura dell’universo è per noi quasi un libro, un quadro e uno specchio [di Dio]” (Rytmus, cit. in M. D. Chenu, Op. cit., pp. 184-185); e Ugo di San Vittore che considera il mondo come un “libro scritto dalla mano di Dio” (Didascalicon, cit. in M. D. Chenu, Op. cit., p. 185).
Lo sviluppo dell’immagine della natura-libro porta a considerare non solo l’invisibile sapienza di Dio, anche la diversità dei lettori: chi crede e chi non crede. La chiave di lettura, perciò, è la fede che riesce a leggere il valore ontologico delle cose e a fare il salto di qualità verso la sapienza di Dio; chi non crede, l’“insipiens”, si ferma soltanto all’aspetto esteriore delle cose. La lettura della natura di Francesco è da “sapiens”, cioè non limitata all’essere che appare, ma trascende la dimensione percettiva per penetrare all’interno dell’essere fino a cogliere l’aspetto ontologico delle cose sottraendole ai limiti del linguaggio puramente esperienziale e scientifico.
IL CULTO
Nella famosa opera Del primato morale e civile degli italiani (1843), V. Gioberti, per celebrare la grandezza di Francesco d’Assisi lo chiama “il più amabile, il più poetico e il più italiano de’ nostri santi”! Solo successivamente, il giornalista Enrico Filiziani, nell’articolo “Per san Francesco d’Assisi”, pubblicato sul giornale La Vera Roma, il 18 gennaio 1903, completò la frase giobertiana in: “il più santo fra gli Italiani, il più Italiano fra i santi”.
Lo storico e scrittore, Enrico Pepe, definiva Francesco “Patrimonio dell’umanità”. Da Pio XII è stato riconosciuto come il “più italiano dei santi e più santo degli italiani” e il 18 giugno 1939, e lo proclamava Patrono principale d’Italia. E Giovanni Paolo II lo eleggeva a “Patrono dell’ecologia” con la Lettera Apostolica Inter sanctos del 29 novembre 1979.
Francesco è uno dei santi più conosciuto nel mondo sia occidentale che orientale, sia dai cattolici che dai non credenti; è anche il più amato dal popolo, specialmente per il suo spirito di umiltà e povertà. Nei luoghi dove trascorse la sua vita sono nati dei santuari. Assisi, dopo Roma, è il luogo più gettonato dal turismo spirituale mondiale.
La festa liturgica è il 4 ottobre.
Autore: P. Giovanni Lauriola ofm
Francesco nacque ad Assisi nel 1182, nel pieno del fermento dell'età comunale. Figlio di un mercante, da giovane aspirava a entrare nella cerchia della piccola nobiltà cittadina. Per questo ricercò la gloria tramite le imprese militari, finché comprese di dover servire solo il Signore. Si diede quindi a una vita di penitenza e solitudine in totale povertà, dopo aver abbandonato la famiglia e i beni terreni. Nel 1209, in seguito a un’ulteriore ispirazione, iniziò a predicare il Vangelo nelle città, mentre si univano a lui i primi discepoli. Con loro si recò a Roma per avere dal papa Innocenzo III l'approvazione della sua scelta di vita. Dal 1210 al 1224 peregrinò per le strade e le piazze d'Italia: dovunque accorrevano a lui folle numerose e schiere di discepoli che egli chiamava “frati”, cioè “fratelli”. Accolse poi la giovane Chiara che diede inizio al Secondo Ordine francescano, e fondò un Terzo Ordine per quanti desideravano vivere da penitenti, con regole adatte per i laici. Morì la sera del 3 ottobre del 1226 presso la chiesa di Santa Maria degli Angeli ad Assisi. È stato canonizzato da papa Gregorio IX il 16 luglio 1228. Papa Pio XII ha proclamato lui e santa Caterina da Siena Patroni Primari d’Italia il 18 giugno 1939. I resti mortali di colui che è diventato noto come il “Poverello d’Assisi” sono venerati nella Basilica a lui dedicata ad Assisi, precisamente nella cripta della chiesa inferiore.
Patronato: Italia, Ecologisti, Animali, Uccelli, Commercianti, Lupetti/Coccin. AGESCI
Etimologia: Francesco = libero, dall'antico tedesco
Emblema: Lupo, Uccelli
Martirologio Romano: Memoria di san Francesco, che, dopo una spensierata gioventù, ad Assisi in Umbria si convertì ad una vita evangelica, per servire Gesù Cristo che aveva incontrato in particolare nei poveri e nei diseredati, facendosi egli stesso povero. Unì a sé in comunità i Frati Minori. A tutti, itinerando, predicò l’amore di Dio, fino anche in Terra Santa, cercando nelle sue parole come nelle azioni la perfetta sequela di Cristo, e volle morire sulla nuda terra.
LA VITA
Della nascita di Francesco non si conosce con certezza né il giorno, né il mese e neppure l’anno. Comunemente, si accetta il 1182 come anno della sua venuta al mondo. Sia alla nascita che al fonte battesimale, il padre Pietro di Bernardone dei Moriconi, era assente, e la madre, la nobil donna Pica Bourlemont, d’origine provenzale, gli mise il nome Giovanni. Al ritorno dal viaggio di lavoro in Francia, il padre lo chiamò Francesco. Era una famiglia della borghesia nascente della città di Assisi.
Riceve la prima formazione in famiglia, specialmente dalla madre Pica, molto devota e pia. Intorno ai 6 anni frequenta il primo grado di istruzione per 5 anni. Vi si insegnava a leggere e a scrivere non solo in latino (la propria lingua), ma anche in francese; a cantare inni liturgici e salmodia; e anche a misurare secondo i non facili calcoli del tempo. E molto probabile, invece, che, per la sua elevata condizione economica e per assicurarsi una qualsiasi apertura alla vita sociale o alla carriera militare, Francesco abbia frequentato anche un corso di formazione superiore, presso qualche abbazia vicina.
La crisi
Prima del crollo definitivo di un progetto, c’è sempre un barlume di speranza, in cui l’uomo resta completamente solo con sé stesso, solo con la propria ambiguità, solo con l’essere di cui non si è potuto realizzare. Alla prima occasione, riemerge all’improvviso un guizzo dell’ideale desiderato. La campagna antimperiale, promossa dal papato nell’Italia meridionale, offrì a Francesco la possibilità di arruolarsi, per il raduno in Puglia. Così, tutto impettito nella lussuosa armatura militare a cavallo, e con profonda commozione e vivida speranza, prese commiato dai suoi cari in pena, dagli amici invidiosi e dalla ridente città natale. Il viaggio della speranza durò un sol giorno: nella tappa-sosta di Spoleto.
Episodio di Spoleto
Che cosa è accaduto? Difficile dirlo. Solo congetture.
Le Fonti ricorrono al soprannaturale con l’espediente della visione in sogno. Altre ipotesi: un improvviso riacutizzarsi della malattia; qualche dispetto di commilitone; la riflessione sulle finalità dell’arruolamento per guadagno e non per ideale; un ripensamento sull’inutilità della guerra per risolvere i problemi sociali... Questi e altri pensieri avranno turbinato nell’animo di Francesco, durante la prima notte della sua avventura militare. Il ritorno inatteso e solitario fa scalpore in Assisi. Un mormorio di curiosità e di dicerie passa di porta in porta e da bocca a bocca. I genitori assoporano l’amarezza della delusione. Francesco è provato dalle contrastanti emozioni, da cui si sente circondato dentro e fuori casa.
Al rientro da Spoleto, divenne più riservato solitario e taciturno, ma anche più attento alle esigenze degli altri e più prodigo verso i poveri. Cominciò a percepire una maggiore sensibilità verso la caducità della vita e delle cose. Questo “distacco” gli permetteva di essere libero-da e dare un diverso gusto alla vita, con uno spiccato bisogno interiore di stare solo con sé stesso e di abbandonare ogni altra occupazione. Onde, la ricerca di luoghi solitari e impervi. Al distacco dalle cose, Francesco aggiunse anche il “silenzio” dalle cose, aprendosi all’origine della loro esistenza, tanto da provocare in lui profonda gioia interiore, e contribuire a dimenticare anche le precedenti sofferenze. Nel cuore di Francesco era tornato la gioia: aveva trovato il segreto che lo rendeva “libero” da ogni cosa e “aperto” a ogni realtà.
Bacio al lebbroso
Ne è un esempio l’episodio del “lebbroso”. Nel contado di Assisi erano abbastanza evidenti i segni della guerra: lutti miseria malattie carestia disordine morale... La mancanza di adeguate strutture per la prima assistenza concreta costringeva alcuni ad “arrangiarsi”, girovagando per le campagne deserte, in cerca di qualcosa per sopravvivere o per tranquillizzare l’animo esacerbato dalla lotta fraterna tra ricchi e poveri. Disumana, invece, era la condizione del malato di lebbra, lasciato solo con sé stesso in balia del suo male. In un momento della sua crisi, Francesco si aggirava per le campagne in cerca di tranquillità interiore, e si incontrò con un lebbroso. Superata l’istintiva ripulsa, lo abbracciò e gli consegnò il denaro che possedeva. Con questa nuova gioia, fece il pellegrinaggio a Roma, in S. Pietro, come “finto” povero.
Preghiera al Crocifisso
Ai piedi del Cristo crocifisso, per es., la preghiera si trasformò in contemplazione, fino all’immedesimazione: Francesco si trovava come sospeso tra la profondità della sua psiche e la trascendenza di Dio: “Sommo e glorioso Dio, illumina le tenebre del cuore mio, e dammi fede retta, speranza certa e carità perfetta, saggezza e conoscimento, o Signore, affinché io faccia il tuo santo e verace comandamento” (Preghiera davanti al Crocifisso, in K. Esser, Gli Scritti di S. Francesco d’Assisi, Ed. Messaggero, Padova 1982, pp. 452-453).
L’invocazione di Francesco al Crocifisso segnò il momento decisivo della sua crisi. Anche l’espressione “ripara la mia casa che è in rovina”, gettò indicibile gioia nel cuore di Francesco, che si sentì investito della missione di riparare la cappella di S. Damiano. Anche l’episodio di Foligno perfeziona la sua volontà che lottava tra due sofferenze: quella per il disagio provocato all’ambiente familiare; e l’altra per l’ostacolo non superato a riparare la casa del Crocifisso per mancanza di fondi.
Intensificò, perciò, raccoglimento e preghiera. Grande giovamento ricevette dall’ascolto di alcune espressioni evangeliche, diventate di moda per la diffusione ad opera dei movimenti pauperistici. Si ricordano alcune che dividono il cuore: “Se uno non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14, 26); “Chi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 14, 33); “È più facile che un cammello entri nella cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei Cieli” (Mt 19, 24); “Chi avrà lasciato casa fratelli sorelle padre madre figli campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eternal” (Mt 19, 29); “Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello sorella e madre” (Mc 3, 35).
La dura decisione
Mentre Francesco era tutto intento a gustare l’immensa gioia interiore, proveniente dalla Parola del Signore, ecco che gli venne notificato, dai messi dei Consoli di Assisi, la citazione di comparizione, avanzata dallo sconsolato padre, Pietro di Bernardone. Senza punto scomporsi e valendosi di una consuetudine, diffusa tra gli eremiti e i penitenti, si autodichiarò servus ecclesiae, sottraendosi così alla giurisdizione dell’autorità civile. Nella piazza, dove il Vescovo amministrava la giustizia, si presentò Francesco tra l’emozione di alcuni e la curiosità di molti. E compì la “dura” decisione della sua conversione.
La prima esperienza apostolica
Il campo della primitiva esperienza è Assisi. Gli ascoltatori sono i suoi concittadini. Nel vederlo e ascoltarlo, alcuni consideravano Francesco un fallito e un pazzo, altri si lasciarono commuovere dalla sua scelta. La parola di Francesco usciva dal cuore per potenza e ricchezza d’amore. All’amore non si resiste, si risponde solo con amore. E Francesco, con parola semplice e d’amore infuocata, riusciva a risvegliare negli ascoltatori più benevoli quella scintilla d’amore divino, insito in ogni cuore, che dalla curiosità porta all’ammirazione e alla sequela.
I primi compagni
Il primo gruppetto era composto da 5 amici, di cui due sacerdoti, Pietro e Silvestro; due laici, Bernardo ed Egidio; e lo stesso Francesco. Dopo l’esperienza in Assisi, per la quale era sufficiente l’autorizzazione del Vescovo per predicare il verbum exortationis, Francesco fu come spinto da un impulso interiore a travalicare i confini del contado, per espandere la fragranza della sua gioia nelle località limitrofe. Improvvisò così una piccola spedizione missionaria, inviando gli amici a due a due per le vicine città.
Nel momento della verifica ad Assisi, Francesco si accorse delle reali difficoltà cui andava incontro il suo ideale e cominciò a pensare ai problemi di organizzazione. Come proposta viene fuori la necessità di dare al gruppo una organizzazione interna e garantirne la struttura giuridica. Per attuarla si decise di andare dal signor Papa, per chiedere la conferma al loro “propositum vitae”. Così, il gruppetto andò a Roma, ottenendo la conferma orale da parte di Innocenzo III.
La fondazione dell’Ordine
La prima Regola, presentata da Francesco nel 1221 per l’approvazione da Roma, è detta non bollata, perché non ricevette alcuna conferma da parte del Papa. In un momento molto provato della sua vita, Francesco riuscì, con la collaborazione di frati esperti e della stessa curia romana, a scrivere una nuova Regola, che Onorio III approvava con la bolla Solet annuere del 29 novembre 1223. Così, dal 1223 nasceva la Regola bollata dell’Ordine dei Frati Minori, che regola a tutt’oggi la vita dei francescani.
L’amore per la Terra Santa
Nel primo Capitolo Generale dei Frati Minori del 1217, Francesco divise il mondo da evangelizzare in “province”: tra le undici appare anche quella di Terra Santa, che comprendeva Costantinopoli e il suo impero, la Grecia e le sue isole, l’Asia Minore, Antiochia, la Siria, la Palestina, l’isola di Cipro, l’Egitto e tutto il resto del Levante. Fu affidata alle cure di Frate Elia, figura preminente nella nascente fraternità, sia per il suo talento organizzativo, sia per la sua vasta cultura. Nel 1219, lo stesso Francesco volle visitare almeno una parte della Provincia di Terra Santa. Durante la sua presenza tra i Crociati, sotto le mura di Damietta, incontrò il Sultano d’Egitto, Melek-el-Kamel, nipote di Saladino il Grande.
Il Natale di Greccio
Amore e fantasia in Francesco vanno sempre insieme, per il suo animo naturalmente poetico. Lo si evidenzia principalmente nel Natale del 1223, in cui lo spirito poetico spinge Francesco a rappresentare l’evento storico dell’Incarnazione, che gli ricordava la discesa sulla terra dello stesso Dio, rivestito di umiltà povertà e innocenza, quasi a simboleggiare i tre voti della scelta esistenziale. Rappresentazione che spiritualmente si può leggere anche come un peana di ringraziamento per il dono ricevuto dell’approvazione della Regola dalla Chiesa, pochi giorni prima (29 novembre!). Così, nel bosco di Greccio, Francesco rievoca per la prima volta la rappresentazione natalizia: nasce il Presepe! Della sua vita, forse, questo sembra l’“episodio più delicato e anche più ardito”, da cui prende inizio l’arte nuova della pedagogia “realistica”, sganciata dall’imperante simbolismo: la rievocazione dei fatti evangelici o la Bibbia dei poveri.
L’ “ultimo sigillo”
Il Natale non è disgiunto dalla Pasqua: ontologicamente la Pasqua precede e perfeziona il Natale. Di conseguenza, il Natale rivissuto da Francesco non poteva non proiettarsi verso la Pasqua, che, per sé, è sempre preceduta dalla sofferenza della Croce. Così, senza saperlo, Francesco si prepara a ricevere il “sigillo” pasquale sul sasso della Verna. Le sue richieste di “sentire nell’anima” la Croce, e di provare “nel cuore” la gloria della risurrezione vengono inaspettatamente assecondate dal Cristo, che, per lui, inventa il dono delle Stimmate. E così, Francesco, dal 14 settembre 1224, divenne un alter Christus. Il divin Poeta immortala l’evento con la terzina: “Nel crudo sasso intra Tevere ed Arno / da Cristo prese l’ultimo sigillo / che le sue membra due anni portarono” (Paradiso, XI, vv. 106-108). Il termine “sigillo”, raffigurante l’Agnus Dei, secondo l’uso dei lanieri, garantiva l’autenticità della merce soltanto dopo il terzo o “ultimo sigillo”. Applicato a Francesco voleva significare che, con le Stimmate o “ultimo sigillo”, la sua santità non aveva bisogno di altra autenticazione.
Dopo l’episodio delle Stimmate, Francesco è certamente stanco e sofferente. Il Vicario Generale frate Elia, insieme al Vescovo Guido di Assisi cercarono di farlo riposare e curare. Venne ospitato a San Damiano da Chiara e le sue Sorelle. E qui, Francesco compose il suo capolavoro Il Cantico delle creature o, meglio, Il Cantico del Creatore.
La morte
Gli ultimi due anni di Francesco furono certamente segnati con più profondità da “sorella sofferenza” sia per le Stimmate e sia per tutte le altre malattie del corpo. Nella primavera del 1226, mentre si trovava a Siena, sententosi mancare, dettò un “piccolo” Testamento. Dopo, mentre si trovava nel convento delle Celle a Cortona, ne fece scrivere un altro, l’ultimo, e volle che fosse legato alla Regola. Dalle sorgenti del fiume Topino, nei pressi di Nocera Umbra, dove si trovava, Fancesco si fece trasportare ad Assisi, alla Porziuncula, per esalare l’ultimo respiro al tramonto del 3 ottobre 1226. Il suo corpo, dopo aver attraversato Assisi e sostato in San Damiano, venne sepolto nella chiesa di San Giorgio, da dove, nel 1230, la salma venne trasferita nell’attuale basilica, due anni dopo la sua canonizzazione da parte di Gregorio IX con la bolla Mira circa nos del 19 luglio 1228, fissando la festa liturgica al 4 ottobre.
Il secondo Ordine o Clarisse
Tutta Assisi parlava delle “bizzarie” del giovane Francesco, che viveva in povertà con i compagni laggiù nella pianura e che spesso saliva in città a predicare il Vangelo con il permesso del vescovo, augurando a tutti “pace e bene”. Nella primavera del 1209 aveva predicato perfino nella cattedrale di San Rufino, dove nell’attigua piazza abitava la nobile famiglia degli Affreduccio, e, sicuramente, in quell’occasione, fra i fedeli che ascoltavano, c’era la giovanissima figlia Chiara. Colpita dalle sue parole, prese ad innamorarsi del suo ideale di povertà evangelica e cominciò a contattarlo, accompagnata dall’amica Bona di Guelfuccio. Nella notte seguente la domenica delle Palme del 1211, abbandonò di nascosto il suo palazzo e correndo al buio attraverso i campi, giunse fino alla Porziuncola, dove chiese a Francesco di dargli Dio, quel Dio che lui aveva trovato e col quale conviveva. Francesco, davanti all’altare della Vergine, le tagliò la bionda e lunga capigliatura (ancora oggi conservata) consacrandola al Signore. Poi l’accompagnò al monastero delle benedettine a Bastia, per sottrarla all’ira dei parenti, i quali dopo un colloquio con Chiara che mostrò loro il capo senza capelli, si convinsero a lasciarla andare. Successivamente, Chiara e le compagne che l’avevano raggiunta, si spostò dopo alterne vicende, nel piccolo convento annesso alla chiesetta di San Damiano, dove, nel 1215, a 22 anni, Chiara fu nominata badessa; Francesco dettò per le “Povere donne recluse di San Damiano” una prima Regola di vita, nel 1215, sostituita da quella di Chiara, approvata il 9 agosto 1253 da Innocenzo IV. Il secondo Ordine costituisce l’incarnazione al femminile dell’ideale francescano.
Il terz’Ordine secolare (OFS)
Il Terz’ordine francescano, dal 1978 Ordine Secolare Francescano, è l’estensione dell’ideale francescano al mondo laicale. I primi laici francescani sono ritenuti i beati: Lucchese e Buonadonna da Poggibonsi, contemporanei del Fondatore. Proprio con riferimento alla loro conversione e all’abito penitenziale che ricevettero da Francesco, alcuni riconoscono la nascita del Terz’ordine francescano a Poggibonsi, in provincia di Siena. Nell’arco di quasi otto secoli di storia, la Regola dell’OFS ha registrato tre interventi ufficiali da parte di Roma: Nicolò IV con la bolla Supra Montem (18 agosto 1289); Leone XIII con la costituzione Misericors Dei Filius (30 maggio 1883); e PaoloVI con il breve Seraphicus Patriarcha (24 giugno 1978), che vige tutt’ora.
Il Terzo Ordine Regolare (TOR)
In parallelo all’OFS, si sviluppa anche il Terzo Ordine Regolare (TOR), una forma comunitaria di vita di perfezione con la professione dei consigli evangelici e con un apostolato aperto a tutte le necessità esistenziali dell’uomo: dal servizio pastorale a quello assistenziale educativo e scientifico. La prima approvazione ufficiale del TOR risale a Bonifacio VIII con la bolla Cupientes cultum (11 luglio 1295); Giovanni XXII, con la bolla Altissimo in divinis (18 novembre 1323) ribadisce l’approvazione ecclesiastica; Niccolò V, con la bolla Pastoralis officii (20 luglio 1447), approva la federazione delle fraternità in un Ordine centralizzato, con un unico Ministro e un Consiglio generale; Leone X con la bolla Inter caetera (20 gennaio 1521) diede al TOR la Regola propria, separandolo definitivamente dall’OFS; Pio XI, con la bolla Rerum conditio (4 novembre 1927), approva una nuova Regola; Giovanni Paolo II con il breve Franciscanum vitae propositum (8 dicembre 1982) sancisce la Regola attuale.
GLI SCRITTI
Sembra uno scherzo della storia: Francesco d’Assisi, autodefinitosi “homo sine litteris”, venga celebrato anche fra i poeti e i maestri di spirito. I suoi Scritti, oltre a essere destinati all’insegnamento interno dei suoi frati, soddisfano anche il gusto estetico. L’afflato dell’arte, benché istintivo, echeggia nel linguaggio semplice scorrevole e carezzevole, almeno di alcuni dei suoi Scritti, come la Salutatio virtutum (Il saluto alle virtù), il De virtute effugante vitio (La virtù per allontare il vizio), il Cantico delle creature, che esprimono un sicuro e indiscusso valore poetico e anche artistico. Tutti gli Scritti, eccetto il Cantico delle creature, sono vergati in un latino parlato, abbastanza idoneo a esprimere sentimenti di natura spirituale e mistica nella loro delicata gamma espressiva.
Nel loro insieme, gli Scritti rivelano una forte carica emotiva, derivata più dall’esperienza spirituale che da tensione estrinseca. Per questo, lo stile denota un carattere meno razionale che emotivo, più rivolto all’aspetto immediato della verità rivelata che alla sua comprensione, più impegnato all’esaltazione di Dio presente nella natura che alla stessa realtà oggetiva. La natura assurge a “segno” e “simbolo” della realtà divina, con la conseguenza che del mondo Francesco ha più una visione religiosa che scientifica, più mistica che reale.
IL PENSIERO
Il pensiero di Francesco si presenta molto variegato e di difficile sintesi organica e sistematica. Attraverso l’analisi tematica della frequenza di parole chiavi nei suoi Scritti, emerge un corpus di idee essenziali che contengono una sicura Weltanschauung (concezione del mondo e della vita) originale e geniale insieme. Questa concezione della vita e del mondo spazia dalla teologia alla filosofia, dalla valutazione positiva della natura alla necessità di un impegno sociale, dalla necessità del lavoro come mezzo normale di sussistenza alla scelta della povertà volontaria come ideale di umanesimo e al proposito della pace fondata più sul dialogo che sulla forza. Questo corpus di idee può essere raggruppato in quattro istanze: teocentrinche cristologiche ecclesiali e filosofiche.
Istanze teocentriche
Le idee teologiche sono facilmente catalizzabili intorno ai misteri principali della fede cristiana: Dio, Cristo, Maria, Chiesa, Eucaristia. Il pensiero di Francesco in queste verità è espresso in uno stile piano e semplice, più intuitivo che dimostrativo, spesso anche poetico: si snoda senza seguire alcun modello precostituito, né si organizza intorno a schemi prestabiliti. Del poeta, manifesta sensibilità, intuizione e immaginazione, riuscendo a trasformare i sentimenti veri e profondi in immagini vive ed efficaci; del mistico, invece, vive l’esperienza meravigliosa della paternità di Dio in tutte le sue implicanze spirituali.
Dall’uso dei titoli divini, si ricavano utili indicazioni su Dio in rapporto all’essere (unità semplicità incorporeità perfezione eternità santità), all’intelletto (onnipotenza, onniscienza, sapienza) e alla volontà (giustizia amore e misericordia). Come linguaggio, Francesco utilizza sia quello catafatico o positivo sia quello apofatico o negativo: con il primo esprime la vasta gamma dei sentimenti verso Dio; con l’altro, i limiti nel parlare di Dio, in quanto “è misterioso” (Giud 13, 18), ossia ineffabile per eccellenza. I titoli più suffragati: Pater, Dominus Deus, Omnipotens, Altissimus.
Francesco ha di Dio una visione unitaria e originale ben marcata, che investe la sua semplicità radicale, percepibile solo nella visione mistica della vita. La realtà empirica è considerata meno naturalisticamente che teologicamente, nel senso che l’incanto del mistero di Dio illumina l’essere in tutti i suoi spessori. Francesco è come “incantato” da questa luce ineffabile di Dio. Il suo linguaggio più positivo che negativo spiega anche il senso metaforico dell’uso dei nomi divini, che si riferiscono quasi sempre all’agire di Dio ad extra, e mai in quello ad intra. La visione teocentrica che emerge è rappresentabile nello schema: la fede in Dio Padre conduce alla scoperta del Figlio di Dio Incarnato, la cui sequela riconduce a Dio Padre attraverso l’opera dello Spirito Santo.
Istanze cristologiche
Dai titoli e dai relativi contesti in cui vengono utilizzati, si evince che Francesco è conquiso e affascinato dal mistero della divinità di Cristo. I titoli più utilizzati: Dominus, Filius Dei, Deus verus, Corpus et sanguinis Domini. Dalla visione d’insieme, si evince che Francesco ha una conoscenza del mistero cristologico, come rivelazione del mistero trinitario che si realizza storicamente in Cristo e continua nella Chiesa, fino al termine del tempo. La centralità del Cristo è considerata più nella luce della divinità e dell’uguaglianza con il Padre nello Spirito Santo, che in quello dell’Incarnazione.
L’idea principale che si deduce è quella di una visione dell’amore divino verso l’uomo che fa aprire Francesco al sentimento di riconoscenza e ringraziamento, di adorazione e benedizione verso Colui che solo piace a Dio, perché lo ama come Dio. Interessante notare: il titolo di Sapientia, che, benché usato una sola volta, costituisce come il fondamento a tutti gli altri titoli nella costruzione della vita cristiana e religiosa. La sua mancanza, infatti, è la causa di chi non si converte, di chi non crede, di chi non segue il Cristo, di chi si allontana dalla retta via, di chi non osserva ciò che ha promesso, perché non ha conosciuto l’amore, ossia “il Figlio di Dio, che è la vera Sapienza del Padre” (Epistola ai Fedeli II, 67). L’esperienza religiosa di Francesco appare, perciò, come immersa nell’oceano dell’altissimo e ineffabile mistero di Dio, dal quale trae alimento, vita e gioia.
Istanze ecclesiali
Dagli Scritti di Francesco emerge con evidenza l’unità teologica del suo pensiero. Anche nei titoli “ecclesiali” o del “Regno di Cristo”, attraverso la trilogia dei misteri – Chiesa, Eucaristia e Vergine Maria – ne è una testimonianza eloquente. Questa trilogia è considerata da Francesco meno come verità isolate che estensione nel tempo dell’azione di Cristo. Per quanto riguarda, per esempio, il mistero della Chiesa, messa in discussione da alcuni movimenti pauperistici ed ereticali, Francesco manifesta il suo modo di sentire la Chiesa, attraverso l’uso e la frequenza di titoli - santità e romanità - che denotano profonda fede sia alla gerarchia costituita e sia alla realtà misterica insegnata.
L’Eucaristia rappresenta per Francesco meno un mistero di devozione e di adorazione che la sintesi efficace del disegno di Dio sull’umanità. L’utilizzo dei titoli nell’esprimere questo mistero fondamentale rispecchia il clima di confusione che regnava all’epoca. Come per i titoli ecclesiali, così anche per quelli eucaristici, la preoccupazione di Francesco è di ordine teologico e disciplinare, perché intende salvaguardare il suo movimento da ogni ingerenza estranea all’ortodossia, e proteggere i suoi frati da eventuali abusi in una materia così delicata.
Da uno sguardo generale ai titoli e alla varietà degli Scritti, in cui vengono utilizzati, si evince che per Francesco l’importanza dell’Eucaristia consiste meno nell’elemento cultuale che nel mistero della presenza reale del Signore, come cuore del disegno di salvezza voluto da Dio. Da ciò, scaturisce anche la venerazione verso il “sacerdote”, visto come colui che confeziona e amministra l’Eucaristia.
Dai due testi mariani, il Saluto alla Vergine e l’Antifona all’Ufficio della passione, si ricava l’impressione che le idee di Francesco derivino più da un atteggiamento di fede vissuta nella dottrina insegnata dalla Chiesa, che da uno studio sull’argomento. Nella loro composizione, Francesco evita di parlare della Vergine Maria come realtà a sé stante, ma sempre in contesto teologico, perché il suo mistero non può essere compreso se non da chi appartiene già a Cristo: è presentata sempre come “dono” di Dio all’umanità. E come tale, Francesco sente irrompente il bisogno di elevare inni di ringraziamento; ed ebbro di gioia invita la stessa Vergine a cantare, insieme alla corte celeste, l’inno di lode a Dio, Uno e Trino. Le due composizioni sono principalmente delle preghiere contemplative, in cui la fede si effonde in esclamazioni di lode, ammirazione e ringraziamento a Dio, da non lasciare spazio al pensiero umano di pensare. Dei titoli, tre sono di natura mariana (Virgo, Domina e Regina), uno ecclesiale (Virgo ecclesia facta), uno cristologico (Mater Domini), e gli altri di carattere trinitario. Tutti ruotano intorno alla “maternità divina”.
Anche intorno al mistero della Madonna, Francesco è attratto dalla sublimità del mistero di Dio, Uno e Trino, e in lui contempla tutta la pienezza della divinità realizzata nel Cristo storico e nel Cristo della fede. Il contesto cristologico, pur essendo meno appariscente, è profondamente presente, tanto da costituire il centro della vita di Francesco. Interessante è l’aspetto ecclesiale dei titoli mariani, specialmente attraverso la bella espressione “Maria, quae es Virgo ecclesia facta” (Maria è la Vergine fatta Chiesa), come a dire: Maria è venerata come la prima Chiesa consacrata da Dio, e in senso storico e in senso spirituale. Oggi, potrebbe corrispondere al titolo di “Madre della Chiesa”.
Istanze filosofiche
Di fronte al mistero di Dio, Francesco tiene ben distinta la conoscenza dalla dimostrazione della sua esistenza. L’idea di Dio nasce in lui da un’esperienza originaria, che si chiarisce e definisce in atteggiamento religioso. Lo conferma il suo linguaggio, la cui caratteristica fondamentale conserva ancora una mentalità simbolico-mitica e mistico-poetica. In diversi luoghi dei suoi Scritti, si parla di una conoscenza di Dio, in cui si possono distinguere tre aspetti diversi e complementari: conoscenza di Dio in sé, conoscenza di Dio nell’uomo e conoscenza di Dio nel mondo. Brevemente.
Conoscenza di Dio in sé
Il leit-motiv della conoscenza di Dio in Francesco è la fede nella “creazione”, che, da un lato, manifesta la sua indiscussa certezza nella potenza creatrice divina, e, dall’altro, rivela il limite ontologico della natura umana. Pensiero espresso chiaramente nella Regola non bollata (Rnb): “I frati annuncino agli increduli la parola di Dio, perché credano in Dio onnipotente Padre Figlio e Spirito Santo come creatore di tutte le cose” (Rnb 16, 7); “Temete e onorate, lodate e benedite, ringraziate e adorate il Signore Iddio onnipotente, nella trinità e unità, Padre Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose” (Rnb 21, 2); “Onnipotente, santissimo, altissimo e sommo Iddio, Padre santo e giusto, Signore e Re dell’universo, per te stesso ti rendiamo grazie, perché, per la tua santa volontà e mediante l’unico Figlio tuo nello Spirito Santo, hai creato tutte le cose spirituali e materiali, e noi, fatti a immagine e somiglianza tua…” (Rnb 23, 1ss).
Quale il fondamento filosofico di questa conoscenza?
La risposta di Francesco impressiona per semplicità e profondità, ma anche per difficoltà ermeneutica: “Considera, uomo, in quale condizione ti ha innalzato il Signore Iddio: ti creò formandoti a immagine del suo diletto Figlio per il corpo, e a sua immagine per l’anima” (Ammonizione, 5, 1). Come l’immagine tende per sua natura a ritornare alla propria origine, così anche l’essere umano diventa uomo, quando, trascendendo sé stesso, tende a identificarsi con la realtà di cui è immagine.
Conoscenza di Dio nell’uomo
Nell’aspetto della conoscenza di Dio nell’uomo, Francesco rivela anche la sua visione antropologica: “Tanto vale l’uomo quanto vale davanti a Dio, e non di più” (Ammonizione, 19, 3); “Lo Spirito del Signore abita nel cuore dei suoi fedeli” (Ammonizione, 1, 12); “Costruiamo sempre nei nostri cuori una stabile dimora al Signore Iddio onnipotente” (Rnb 22, 27); “Coloro che vivono nella conversione continua e si nutrono con fede dell’Eucaristia, sono benedetti e beati, perché lo Spirito del Signore riposerà su di essi e nei loro cuori costruirà la sua stabile dimora” (Epistola ai Fedeli, I, 3-6); “Lo Spirito del Signore riposerà su di essi e nei loro cuori costruirà la sua stabile dimora” (Epistola ai Fedeli, II, 48). L’idea principale emergente da questi testi è la certezza che Dio abita nel cuore dell’uomo, come dono, del quale l’uomo non può aver alcun motivo per gloriarsi, come lui stesso ricorda: “Anche se fossi così intelligente e sapiente, da possedere ogni scienza ed essere in grado d’interpretare ogni lingua e di penetrare nei misteri celesti, non potresti vantarti di queste qualità” (Ammonizione, 5, 5). Riconoscere questo rapporto creaturale significa essere di Dio, appartenere a Dio, ascoltare Dio e ricambiare tale amore.
Conoscenza di Dio nelle cose
Il riconoscimento di Di in sé stesso orienta l’attenzione di Francesco, quasi naturalmente, verso la sapienza divina presente nella realtà dell’universo, come si evince dal Cantico delle creature, che sviluppo è in tre tempi: apertura intuitiva al trascendente teologico, intuizione del trascendente immanente nel mondo, e ritorno laudativo e contemplativo al trascendente teologico. Ogni tempo scandisce un preciso attributo divino: l’Onnipotenza di Dio che ha chiamato all’esistenza ogni creatura; la Sapienza di Dio che conserva nell’ordine le cose create; e l’Amore di benevolenza con cui Dio assiste l’essere creato. Come i tre attributi esprimono la medesima realtà, così anche i tre tempi del Cantico vanno considerati nella loro unità, come l’invocazione iniziale esprime “Altissimu onnipotente bon Signore”: con il termine “Altissimu” viene esprime l’assoluta trascendenza; con l’“onnipotente”, la potenza creatrice; e con il “bon Signore”, l’amore di benevolenza.
In sintonia con la mentalità simbolica del XII secolo, Francesco afferma poeticamente che all’uomo è impedito ontologicamente di parlare in modo positivo e affermativo di Dio: “et nullu homo ene dignu te mentovare”; e ringrazia lo stesso Dio per la consapevolezza che gli ha dato della sua immanenza anche nell’universo: “laudato sie, mi signore, cum tucte le tue creature”. Di fronte all’umana impossibilità di penetrare la trascendenza di Dio, Francesco si concentra sul vestigium Dei, espresso bellamente dal verso: “de te, altissimo, porta significatione”, che richiama la tradizione fondata su Isaia: “se non crederai, non potrai comprendere” (Is 7, 9); cui fa Alano di Lilla (1120-1203): “La lira poetica nella corteccia superficiale della lettera risuona falsamente, ma interiormente manifesta agli uditori il segreto di un significato più elevato, affinché gettata via la scorza della falsità esteriore, il lettore trovi internamente il nucleo più dolce della riposta verità” (De planctu naturae, cit. in Henri De Lubac, Esegesi medievale, ed. Paoline, Roma 1972, II, p. 1340; M.D. Chenu, La teologia nel medio evo, Jaca Book, Milano 1972, p. 175); “ogni creatura dell’universo è per noi quasi un libro, un quadro e uno specchio [di Dio]” (Rytmus, cit. in M. D. Chenu, Op. cit., pp. 184-185); e Ugo di San Vittore che considera il mondo come un “libro scritto dalla mano di Dio” (Didascalicon, cit. in M. D. Chenu, Op. cit., p. 185).
Lo sviluppo dell’immagine della natura-libro porta a considerare non solo l’invisibile sapienza di Dio, anche la diversità dei lettori: chi crede e chi non crede. La chiave di lettura, perciò, è la fede che riesce a leggere il valore ontologico delle cose e a fare il salto di qualità verso la sapienza di Dio; chi non crede, l’“insipiens”, si ferma soltanto all’aspetto esteriore delle cose. La lettura della natura di Francesco è da “sapiens”, cioè non limitata all’essere che appare, ma trascende la dimensione percettiva per penetrare all’interno dell’essere fino a cogliere l’aspetto ontologico delle cose sottraendole ai limiti del linguaggio puramente esperienziale e scientifico.
IL CULTO
Nella famosa opera Del primato morale e civile degli italiani (1843), V. Gioberti, per celebrare la grandezza di Francesco d’Assisi lo chiama “il più amabile, il più poetico e il più italiano de’ nostri santi”! Solo successivamente, il giornalista Enrico Filiziani, nell’articolo “Per san Francesco d’Assisi”, pubblicato sul giornale La Vera Roma, il 18 gennaio 1903, completò la frase giobertiana in: “il più santo fra gli Italiani, il più Italiano fra i santi”.
Lo storico e scrittore, Enrico Pepe, definiva Francesco “Patrimonio dell’umanità”. Da Pio XII è stato riconosciuto come il “più italiano dei santi e più santo degli italiani” e il 18 giugno 1939, e lo proclamava Patrono principale d’Italia. E Giovanni Paolo II lo eleggeva a “Patrono dell’ecologia” con la Lettera Apostolica Inter sanctos del 29 novembre 1979.
Francesco è uno dei santi più conosciuto nel mondo sia occidentale che orientale, sia dai cattolici che dai non credenti; è anche il più amato dal popolo, specialmente per il suo spirito di umiltà e povertà. Nei luoghi dove trascorse la sua vita sono nati dei santuari. Assisi, dopo Roma, è il luogo più gettonato dal turismo spirituale mondiale.
La festa liturgica è il 4 ottobre.
Autore: P. Giovanni Lauriola ofm
Nascita e genitori
Francesco nacque ad Assisi, in Umbria, nei primi del 1182 (ma secondo altri la nascita potrebbe però datarsi all'estate o all'autunno 1181) da Pietro di Bernardone, agiato mercante di panni, e da Giovanna detta Pica, nobile di origine forse provenzale.
In omaggio alla nascita di Gesù, madonna Pica volle partorire il bambino in una stalla improvvisata al pianterreno della casa paterna, in seguito detta “Stalletta” o “Oratorio di San Francesco piccolino”, ubicata presso la piazza principale della città umbra.
La madre, in assenza del marito Pietro, impegnato in un viaggio di affari in Provenza, lo battezzò con il nome di Giovanni, in onore del Battista. Tuttavia, al suo ritorno, il padre volle aggiungergli il nome di Francesco, che prevarrà poi sul primo.
Questo aggettivo corrisponde all’attuale “francese”. La motivazione potrebbe essere sia un omaggio alla Francia, meta dei suoi frequenti viaggi, sia dovuto al fatto che la madre fosse francese.
Una giovinezza spensierata
Francesco crebbe tra gli agi della sua famiglia, che come tutti i ricchi assisiati godeva dei tanti privilegi imperiali, concessi loro dal governatore della città, il duca di Spoleto Corrado di Lützen.
Aveva appreso le nozioni essenziali di scrittura e di latino presso la scuola parrocchiale di San Giorgio e le sue cognizioni letterarie erano limitate. Ad ogni modo, conosceva il provenzale, lingua materna, ed era abile nel mercanteggiare le stoffe dietro gli insegnamenti del padre, che vedeva in lui un valido collaboratore e l'erede dell'attività di famiglia.
Era estroso ed elegante: primeggiava fra i giovani, amava le allegre brigate e spendeva con una certa prodigalità il denaro paterno, tanto da essere acclamato “rex iuvenum” (re dei giovani), titolo che lo poneva alla direzione delle feste.
Combattente nella guerra tra Assisi e Perugia
Con la morte dell'imperatore di Germania Enrico IV (1165-1197) e l'elezione a papa del cardinal Lotario di Segni, che prese il nome di Innocenzo III (1198-1216), gli scenari politici cambiarono. Il nuovo Papa, sostenitore del potere universale della Chiesa, prese sotto la sua sovranità il ducato di Spoleto, compresa Assisi, togliendolo al duca Corrado di Lützen.
Ciò portò ad una rivolta del popolo contro i nobili della città, asserviti all'imperatore e sfruttatori dei loro concittadini: furono cacciati dalla rocca di Assisi e si rifugiarono a Perugia, poi, con l'aiuto dei perugini, mossero guerra ad Assisi (1202-1203).
Francesco, infiammato di spirito d’avventura, si buttò nella lotta fra le due città così vicine e così nemiche. Dopo la disfatta subita dagli assisiati a Ponte San Giovanni, fu fatto prigioniero dai perugini a fine 1203 e restò in carcere per un anno.
Inizio della conversione
Dopo che i suoi familiari ebbero pagato un consistente riscatto, Francesco ritornò in famiglia, con la salute ormai compromessa. La madre lo curò amorevolmente durante la lunga malattia.
Una volta guarito, tuttavia, il giovane non era più quello di prima: la sofferenza aveva scavato nel suo animo un'indelebile solco. Non sentiva più nessuna attrattiva per la vita spensierata e i suoi antichi amici non potevano più stimolarlo.
Pensò allora di arruolarsi nella cavalleria del conte Gualtiero di Brienne, che in Puglia combatteva per il papa. Quando però fu giunto a Spoleto, cadde in preda ad uno strano malessere. La notte ebbe un sogno in cui una voce misteriosa che lo invitava a “servire il padrone invece che il servo” e a ritornare ad Assisi.
Colpito dalla rivelazione, tornò alla sua città, accolto con preoccupazione dal padre e con una certa disapprovazione di buona parte dei concittadini.
Lasciò definitivamente le allegre brigate per dedicarsi ad una vita d'intensa meditazione e pietà, avvertendo nel suo cuore il desiderio di servire il Signore, ma non sapendo come. Andò anche in pellegrinaggio a San Pietro in Roma, con la speranza di trovare chiarezza.
La voce del Crocifisso
Ritornato deluso ad Assisi, continuò nelle opere di carità verso i poveri ed i lebbrosi, ma fu solo nell'autunno 1205 che Dio gli parlò. Era assorto in preghiera nella chiesetta campestre di San Damiano, mentre fissava un crocifisso bizantino. Ad un tratto, udì per tre volte questo invito: «Francesco va' e ripara la mia chiesa, che come vedi, cade tutta in rovina».
Pieno di stupore, Francesco interpretò il comando in riferimento alla cadente chiesetta di San Damiano, pertanto si mise a ripararla con il lavoro delle sue mani; utilizzò anche il denaro paterno.
La restituzione dei beni
A questo punto il padre, considerandolo ormai irrecuperabile, anzi pericoloso per sé e per gli altri, lo denunziò al tribunale del vescovo Guido II come dilapidatore dei beni di famiglia. Francesco si spogliò dei vestiti, restituendoli al padre, mentre il vescovo lo copriva con il proprio mantello, anche a significare la sua protezione.
Il giovane fu affidato ai benedettini, con la speranza che potesse trovare nel loro monastero la soddisfazione alle sue esigenze spirituali. I rapporti con i monaci furono buoni, ma riconobbe non era quella la sua strada. Ben presto riprese la sua vita di “araldo di Gesù re”: indossò i panni del penitente e prese a girare per le strade di Assisi e dei paesi vicini, pregando, servendo i più poveri, consolando i lebbrosi e ricostruendo, oltre San Damiano, le chiesette diroccate di San Pietro alla Spira e di Santa Maria degli Angeli.
L'inizio della sua missione
Nell'aprile del 1208, durante la celebrazione della Messa a Santa Maria degli Angeli, Francesco ascoltò dal celebrante la lettura del Vangelo di Matteo sulla missione degli Apostoli. In breve tempo, riconobbe che quelle parole di Gesù costituivano la risposta alle sue preghiere e alle sue domande. L’invito del Crocifisso a San Damiano non si riferiva quindi alla ricostruzione del piccolo tempio, ma al rinnovamento della Chiesa nei suoi membri.
Depose allora i panni del penitente: indossò un abito di tela ruvida, si cinse i fianchi con una rude corda e si coprì il capo con il cappuccio in uso presso i contadini del tempo; camminava a piedi scalzi.
Iniziò così la sua nuova vita. Rendendosi interprete di sentimenti diffusi nel suo tempo, prese a predicare la pace, l'uguaglianza fra gli uomini, il distacco dalle ricchezze e la dignità della povertà, l'amore per tutte le creature di Dio e al disopra di ogni cosa e la venuta del regno di Dio.
I primi compagni
Ben presto, attirati dalla sua predicazione, si affiancarono a Francesco quelli che sarebbero diventati suoi inseparabili compagni: Bernardo di Quintavalle, un ricco mercante; Pietro Cattani, dottore in legge; Egidio, contadino. A loro si aggiunsero poco dopo anche Leone, Rufino, Elia, Ginepro e altri, fino al numero di dodici, proprio come gli Apostoli.
Il loro impegno era vivere alla lettera il Vangelo, senza preoccupazioni teologiche e senza ambizioni riformatrici o contestazioni morali e in obbedienza alle autorità religiose: indicavano così un nuovo stile a chi voleva vivere in carità e povertà all'interno della Chiesa. Il vescovo di Assisi li seguiva con interesse e permise loro di predicare.
La prima approvazione papale
Ai primi del 1209 il gruppo si riunì in una capanna nella località di Rivotorto, nella pianura sottostante la città di Assisi, presso la chiesa di Santa Maria degli Angeli, detta “Porziuncola”. Durante un intero anno Francesco trasmise ai compagni i suoi insegnamenti, alternando preghiera, assistenza ai lebbrosi e questua per sostenersi e per riparare le chiese danneggiate.
Poiché ormai essi sconfinavano fuori dalla competenza della diocesi, e ciò poteva procurare problemi, il vescovo Guido consigliò Francesco e il suo gruppo di recarsi a Roma dal papa Innocenzo III. Il loro sodalizio fu approvato oralmente dal Papa, il quale rimase molto colpito da Francesco, dopo un incontro con lui e i suoi compagni.
Chiara e le Povere Dame di San Damiano
Tutta Assisi parlava delle “bizzarrie” di frate Francesco, che viveva in povertà con i compagni laggiù nella pianura e che spesso saliva in città a predicare il Vangelo. Nella primavera del 1209 aveva predicato perfino nella cattedrale di San Rufino.
Tra coloro che lo ascoltavano c’era Chiara degli Offreducci, figlia di una nobile famiglia. Colpita dalle sue parole, prese ad innamorarsi dei suoi ideali di povertà evangelica. Nella notte seguente la Domenica delle Palme del 1211, abbandonò di nascosto la casa paterna e giunse fino alla Porziuncola: Francesco, davanti all'altare della Vergine, le tagliò la bionda e lunga capigliatura, poi l'accompagnò al monastero delle benedettine a Bastia. Solo dopo che Chiara ebbe mostrato ai parenti il segno della sua consacrazione, essi si convinsero a lasciarla stare.
Successivamente Chiara e le compagne che l'avevano raggiunta si spostarono nel piccolo convento annesso alla chiesetta di San Damiano. Nel 1215, a 22 anni, Chiara fu nominata badessa delle “Povere Dame di San Damiano” (poi dette Clarisse). Francesco dettò loro una prima Regola di vita, sostituita più tardi da quella composta dalla stessa Chiara.
I Protomartiri francescani
Francesco desiderava non solo ricondurre il mondo cristiano agli originari principi evangelici, ma anche raggiungere i non credenti, specie i saraceni. Se in quell'epoca i rapporti fra il mondo cristiano e quello islamico erano sostanzialmente di lotta, Francesco volle capovolgere questa mentalità: nei saraceni vedeva anzitutto dei fratelli a cui annunciare il Vangelo, non con le armi, ma offrendolo con amore: se fosse il caso, dovendo subire anche il martirio.
Mandò per questo i suoi frati anzitutto in Spagna, dove vennero condannati a morte e poi graziati dal Sultano. Un secondo invio fu in Marocco, dove il rischio del martirio si concretizzò: i frati Berardo, Pietro, Accursio, Adiuto e Ottone, mentre predicavano, furono arrestati. Vennero imprigionati, flagellati e infine decapitati il 16 gennaio 1220.
Il ritorno in Portogallo dei corpi dei protomartiri, suscitò la vocazione francescana in un canonico regolare di Sant’Agostino, Ferdinando: divenne quindi frate Antonio, detto di Padova, anche lui destinato agli onori degli altari.
I viaggi di Francesco in Oriente
Francesco non si scoraggiò: nel 1219-1220 volle tentare personalmente l'impresa missionaria diretto in Marocco, ma una tempesta spinse la nave sulla costa dalmata. Il secondo tentativo lo fece arrivare in Spagna, ma si ammalò e dovette tornare indietro.
Infine, un terzo tentativo, lo fece approdare in Palestina. Si presentò al sultano egiziano Al-Malik al Kamil, che lo ricevette con onore, ascoltandolo con interesse, pur non convertendosi.
Il “capitolo delle stuoie” e la “Regola bollata”
Verso la metà del 1220, Francesco dovette ritornare in Italia per rimettere ordine fra i suoi frati, cresciuti ormai in numero considerevole. Appariva necessario risolvere alcuni problemi di organizzazione, di formazione, di studio, di adattamento alle necessità dell'apostolato in un mondo sempre in evoluzione.
Il “Poverello d’Assisi”, come divenne noto, non aveva infatti inteso fondare dei conventi, ma solo delle “fraternità”, piccoli gruppi di fratelli che vivessero in mezzo al mondo, mostrando come la felicità non risiedesse nel possedere i beni materiali, ma nel vivere in perfetta armonia secondo i comandamenti di Dio.
Nell'affollato “capitolo delle stuoie”, tenutosi ad Assisi nel 1221, Francesco autorizzò frate Antonio, venuto da Lisbona, d'insegnare la sacra teologia ai frati, specie a quelli addetti alla predicazione e alle confessioni.
La nuova Regola, dettata da Francesco a frate Leone, fu accolta con soddisfazione dal cardinale protettore dell'Ordine, Ugolino de' Conti (futuro papa Gregorio IX) e da tutti i frati. Venne approvata il 29 novembre 1223 da papa Onorio III con la bolla “Solet Annuere”: è infatti conosciuta come “Regola bollata”.
In essa si ribadivano la povertà, il lavoro manuale, la predicazione, la missione tra gli infedeli e l'equilibrio tra azione e contemplazione. Si permetteva ai frati di avere delle Case di formazione per i novizi e si stemperò il concetto di divieto della proprietà privata. Di fatto, i seguaci di Francesco erano venuti a costituire un Ordine mendicante, quello dei Frati Minori.
Il presepe di Greccio
La notte del 24 dicembre 1223, Francesco si sentì invadere il cuore di tenerezza e di slancio: volle rivivere nella selva di Greccio, vicino Rieti, l'umile nascita di Gesù Bambino. Nacque così la tradizione del Presepio nel mondo cristiano, che fu ripresa dall'arte e dalla devozione popolare lungo i secoli successivi.
Le stimmate
Nell'estate del 1224 Francesco si ritirò sul monte della Verna nel Casentino, insieme ad alcuni dei suoi primi compagni, per prepararsi con un digiuno di quaranta giorni alla festa di san Michele arcangelo.
La mattina del 14 settembre, festa della Esaltazione della Santa Croce, mentre pregava su un fianco del monte, vide scendere dal cielo un serafino con sei ali di fiamma e di luce, che gli si avvicinò in volo rimanendo sospeso nell'aria.
Fra le ali del serafino, Francesco vide lampeggiare la figura di un uomo con mani e piedi distesi e inchiodati ad una croce. Quando la visione scomparve, lasciò nel cuore del frate un ammirabile ardore e nella carne i segni della crocifissione: per la prima volta nella storia della santità cattolica si era verificato il prodigio delle stimmate.
Il declino fisico
Disceso dalla Verna, visibilmente dolorante e trasformato, volle ritornare ad Assisi. Era anche prostrato da varie malattie, allo stomaco, alla milza e al fegato, con frequenti emottisi. Inoltre la vista lo stava lasciando, a causa di un tracoma contratto durante il suo viaggio in Oriente.
Dopo le ultime prediche all'inizio del 1225, Francesco si rifugiò a San Damiano, nel piccolo convento annesso alla chiesetta da lui restaurata tanti anni prima, dove vivevano Chiara e le sue sorelle.
Il Cantico delle Creature e il Testamento
In quel luogo compose il “Cantico di frate Sole” o “Cantico delle Creature”, dal quale si comprende quanto Francesco fosse penetrato nella più intima realtà della natura, contemplando in ogni creatura la presenza di Dio.
In seguito, ospite per un certo tempo nel palazzo vescovile, dettò anche il suo famoso «Testamento», l'ultimo messaggio ai suoi figli, affinché rimanessero fedeli a “madonna Povertà”. In esso affermò: «Nessuno mi insegnava quel che io dovevo fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo il Santo Vangelo».
La morte
Per l'interessamento del cardinale Ugolino e di frate Elia, Francesco accettò di sottoporsi alle cure dei medici della corte papale a Rieti, poi ancora a Fabriano, Siena e Cortona. Nell'estate del 1226 non solo non era migliorato, ma si fece sempre più evidente il sorgere di un'altra grave malattia: l'idropisia.
Dopo un'altra sosta a Bagnara, sulle montagne vicino a Nocera Umbra, perché potesse avere un po' di refrigerio, i frati visto l'aggravarsi delle sue condizioni, decisero di trasportarlo ad Assisi e su sua richiesta all'amata Porziuncola. Francesco morì in quel luogo la sera del 3 ottobre 1226, adagiato sulla nuda terra.
Le allodole, amanti della luce e timorose del buio, nonostante che fosse già sera, vennero a roteare sul tetto dell'infermeria. Appariva quasi un ultimo saluto a colui che un giorno, fra Camara e Bevagna, aveva invitato gli uccelli a cantare lodando il Signore, e che in un’altra occasione, in un campo verso Montefalco, aveva tenuto loro una predica.
La glorificazione
La mattina del 4 ottobre, il suo corpo di Francesco fu traslato con una solenne processione dalla Porziuncola alla chiesa parrocchiale di San Giorgio ad Assisi, dove era stato battezzato e dove aveva cominciato, nel 1208, la sua predicazione. Lungo il percorso il corteo si fermò a San Damiano, dove la cassa fu aperta, affinché santa Chiara e le sue compagne potessero vedere un’ultima volta il suo viso.
Il 16 luglio 1228, papa Gregorio IX, a meno di due anni dalla morte, lo proclamò santo, fissandone la memoria liturgica al 4 ottobre. I suoi resti mortali rimasero nella chiesa di San Giorgio rimase tumulato fino al 1230, quando venne portato nella Basilica a lui dedicata, precisamente nella Basilica Inferiore, fatta costruire da frate Elia.
I «Fioretti di San Francesco»
Gli episodi della sua vita e dei suoi primi seguaci, furono raccolti e narrati nei «Fioretti di San Francesco», opera di un anonimo trecentesco, che contribuì nel tempo alla larga diffusione del suo culto, unitamente alla prima e seconda «Vita», scritte dal suo discepolo Tommaso da Celano (1190-1260), su richiesta di papa Gregorio IX.
Alcuni episodi sono entrati nell'iconografia del santo e riprodotti dall'arte, come la predica agli uccelli, il roseto in cui si rotolò per sfuggire alla tentazione, il lupo che ammansì a Gubbio, l’impressione delle Stimmate.
I patronati
San Francesco è patrono dell'Umbria e di molte città, fra le quali San Francisco negli USA che da lui prese il nome. Innumerevoli sono le chiese, le parrocchie, i conventi, i luoghi pubblici che portano il suo nome. Tanti altri santi e beati, venuti dopo di lui, ebbero al battesimo o adottarono nella vita religiosa il suo nome.
Papa Pio XII, con il Breve pontificio «La sollecita cura» del 18 giugno 1939, proclamò Patroni Primari d’Italia lui e santa Caterina da Siena. Anche i Lupetti e le Coccinelle dell’AGESCI (Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani) lo considerano loro patrono.
I primi contrasti tra i Frati Minori
L'Ordine dei Frati Minori si propagò rapidamente: vivente ancora il fondatore, annoverava già 13 Province. Il suo massimo responsabile prese il titolo di Ministro Generale. Le Costituzioni furono redatte da fra Bonaventura da Bagnoregio, anche lui canonizzato.
Mentre ancora l'organizzazione si stava consolidando, scoppiarono i primi contrasti. I membri dell'Ordine si divisero in due fazioni: la prima intendeva adottare forme meno severe di vita comunitaria e prescindere dall'obbligo assoluto della povertà, al fine di rendere meno difficile lo sviluppo dell'Ordine stesso. La seconda, al contrario, si proponeva di uniformarsi alla lettera e allo spirito delle norme lasciate dal fondatore.
Osservanti e Conventuali e la nascita dei Cappuccini
I numerosi tentativi per placare i dissensi non ebbero effetto, anzi questi si acuirono di più quando Gregorio IX, con la bolla «Quo elongati» (1230), concesse ai frati di ricevere beni e di amministrarli per le loro esigenze.
Nel campo opposto, le correnti degli “Spirituali” e dei “Fraticelli”, portavano avanti un programma di rinnovamento religioso misto a una rinascita politico-sociale, che sarebbe dovuto sfociare nell'avvento del regno dello Spirito; tuttavia, si attirarono scomuniche e persecuzioni dalle autorità ecclesiastiche e feudali. La divisione tra Frati Minori Osservanti e Conventuali fu sancita ufficialmente nel 1517 da papa Leone X.
Nel 1525 papa Clemente VII approvò il nuovo ramo dei frati Cappuccini: guidati dal frate Matteo da Bascio della Marca d'Ancona, Osservante, erano dediti ad una più austera disciplina, alla povertà assoluta e alla vita eremitica.
La riforma dell’Ordine
Altre famiglie francescane riformate sorsero nei secoli (Alcantarini, Riformati, Amadeiti), in seno o a fianco degli Osservanti, ma tutte obbedivano al Ministro Generale dell'Osservanza. Ai membri delle varie famiglie dell’Osservanza papa Leone XIII, nel 1897, ingiunse di prendere il nome comune di Frati Minori.
L'Ordine francescano comprende quindi tre rami: il Primo Ordine, ossia i frati (sacerdoti e non), il Secondo Ordine, rappresentato dalle monache Clarisse, e il Terz'Ordine, fondato dallo stesso san Francesco nel 1221 per raccogliere i numerosi seguaci già sposati o comunque laici.
Oltre alle pratiche religiose e ascetiche, i Frati Minori sono tuttora dediti alla predicazione, all’apostolato e all'opera missionaria.
Cantico delle Creature
Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione. | Altissimo, onnipotente, buon Signore,
tue sono le lodi, la gloria, l'onore e ogni benedizione.
Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare. | Solo a Te, Altissimo, si addicono,
e nessun uomo è degno di menzionarti.
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual’è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione. | Sii lodato, o mio Signore, con tutte le tue creature,
specialmente messer fratello sole,
che è giorno e attraverso il quale ci illumini.
Ed esso è bello, raggiante e con grande splendore:
esso simboleggia Te, Altissimo.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle. | Sii lodato, o mio Signore, per sorella lune e le stelle;
le hai create in cielo, chiare, preziose e belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dài sustentamento. | Sii lodato, o mio Signore, per fratello vento
e per l'aria serena e nuvolosa e per ogni tempo,
grazie al quale dai il nutrimento alle tue creature.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta. | Sii lodato, o mio Signore, per sorella acqua,
la quale è molto utile, umile, preziosa e pura.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte. | Sii lodato, o mio Signore, per fratello fuoco,
grazie al quale illumini la notte:
ed esso è bello e gioioso, vigoroso
Laudato si', mi' Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba. | Lodato sii mio Signore, per nostra sorella madre terra,
la quale ci dà nutrimento e ci mantiene:
produce diversi frutti, con fiori variopinti ed erba.
Laudato si', mi' Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore,
et sostengo infirmitate et tribulatione.
Beati quelli che 'l sosterrano in pace,
ca da te, Altissimo, sirano incoronati. | Lodato sii mio Signore, per quelli che perdonano in nome del tuo amore,
e sopportano malattie e sofferenze.
Beati quelli che le sopporteranno serenamente,
perché dall'Altissimo saranno premiati.
Laudato si' mi' Signore per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò scappare:
guai a quelli che morrano ne le peccata mortali. | Lodato sii mio Signore per la nostra sorella morte corporale,
dalla quale nessun essere umano può scappare,
guai a quelli che moriranno mentre sono in peccato mortale.
Beati quelli che trovarà ne le tue santissime voluntati,
ka la morte secunda no 'l farrà male. | Beati quelli che troveranno la morte mentre stanno rispettando le tue volontà.
In questo caso la morte spirituale non procurerà loro alcun male.
Laudate et benedicete mi' Signore' et ringratiate
et serviateli cum grande humilitate. | Lodate e benedite il mio Signore, ringraziatelo
e servitelo con grande umiltà.
tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione. | Altissimo, onnipotente, buon Signore,
tue sono le lodi, la gloria, l'onore e ogni benedizione.
Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare. | Solo a Te, Altissimo, si addicono,
e nessun uomo è degno di menzionarti.
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual’è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione. | Sii lodato, o mio Signore, con tutte le tue creature,
specialmente messer fratello sole,
che è giorno e attraverso il quale ci illumini.
Ed esso è bello, raggiante e con grande splendore:
esso simboleggia Te, Altissimo.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle. | Sii lodato, o mio Signore, per sorella lune e le stelle;
le hai create in cielo, chiare, preziose e belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dài sustentamento. | Sii lodato, o mio Signore, per fratello vento
e per l'aria serena e nuvolosa e per ogni tempo,
grazie al quale dai il nutrimento alle tue creature.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta. | Sii lodato, o mio Signore, per sorella acqua,
la quale è molto utile, umile, preziosa e pura.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte. | Sii lodato, o mio Signore, per fratello fuoco,
grazie al quale illumini la notte:
ed esso è bello e gioioso, vigoroso
Laudato si', mi' Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba. | Lodato sii mio Signore, per nostra sorella madre terra,
la quale ci dà nutrimento e ci mantiene:
produce diversi frutti, con fiori variopinti ed erba.
Laudato si', mi' Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore,
et sostengo infirmitate et tribulatione.
Beati quelli che 'l sosterrano in pace,
ca da te, Altissimo, sirano incoronati. | Lodato sii mio Signore, per quelli che perdonano in nome del tuo amore,
e sopportano malattie e sofferenze.
Beati quelli che le sopporteranno serenamente,
perché dall'Altissimo saranno premiati.
Laudato si' mi' Signore per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò scappare:
guai a quelli che morrano ne le peccata mortali. | Lodato sii mio Signore per la nostra sorella morte corporale,
dalla quale nessun essere umano può scappare,
guai a quelli che moriranno mentre sono in peccato mortale.
Beati quelli che trovarà ne le tue santissime voluntati,
ka la morte secunda no 'l farrà male. | Beati quelli che troveranno la morte mentre stanno rispettando le tue volontà.
In questo caso la morte spirituale non procurerà loro alcun male.
Laudate et benedicete mi' Signore' et ringratiate
et serviateli cum grande humilitate. | Lodate e benedite il mio Signore, ringraziatelo
e servitelo con grande umiltà.
Autore: Antonio Borrelli