mercoledì 3 novembre 2021: per la preghiera personale e familiare "Lectio divina sulla Liturgia della Parola del giorno"

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  • mercoledì | 3 novembre 2021

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Lectio mercoledì 3 novembre 2021

Mercoledì della Trentunesima Settimana del Tempo Ordinario (Anno B)
San Martino de Porres
 

Lettera ai Romani 13, 8 - 10
Luca 14, 25 - 33  
 
 
1) Preghiera 
Dio onnipotente e misericordioso, tu solo puoi dare ai tuoi fedeli il dono di servirti in modo lodevole e degno; fa’ che camminiamo senza ostacoli verso i beni da te promessi, anche con l’aiuto di San Martino de Porres.
 
Martino fu il primo mulatto a essere riconosciuto dalla Chiesa per la sua eroica virtù cristiana. Nato a Lima in Perù il 9 dicembre 1575, era figlio naturale di don Juan de Porres, un hidalgo spagnolo, e di Anna Velàzquez, una liberta di colore di Panama. Juan fu molto deluso per il fatto che suo figlio avesse ereditato i lineamenti e la carnagione della madre, e quando Martino alla fine fu battezzato (il 9 novembre 1579), fu iscritto nel registro come «figlio di padre sconosciuto». 
Rifiutando di riconoscere pubblicamente Martino e sua sorella minore come suoi figli, Juan li costrinse ad appartenere alla categoria di "figli illegittimi", un enorme svantaggio nella società gerarchica di Lima di quei tempi. Comunque, pur affidandoli quasi completamente alle cure della madre, non abbandonò del tutto le sue responsabilità, dato che portò i figli con sé in Ecuador, dove ricevettero una certa istruzione. Inoltre, quando fu nominato governatore di Panama, fece assumere Martino, che aveva a quel tempo dodici anni, come apprendista presso il dottor Marcelo de Ribera a Lima. 
Dal dottor Ribera, Martino ricevette buone basi di medicina e molte altre nozioni mediche: come fermare le emorragie, curare le ferite e le fratture, prescrivere medicinali; la combinazione di queste conoscenze teoriche e pratiche con quelle ricevute dalla madre, famosa per la sua conoscenza delle erbe mediche, tornò utile. Per molte volte nel corso degli anni si occupò delle malattie che la medicina convenzionale non riusciva a curare. 
All'età di sedici anni, Martino de Porres, già membro del Terz'ordine di S. Domenico, fu accolto dai domenicani al convento del S. Rosario di Lima come donado (membro del Terz'ordine, un laico che riceveva cibo e alloggio in convento come compenso per il lavoro svolto, particolarmente servile). Si narra che il padre di Martino, ancora governatore di Panama, l'abbia considerato un affronto alla propria dignità; cercò allora di far accettare il figlio come membro dall'Ordine dei predicatori. 
La vicenda, infatti, era più complicata di quanto sembri, dato che a quei tempi esisteva una legge che impediva agli «indiani, ai neri e ai loro discendenti» di entrare a far parte di un ordine religioso. Il priore del convento del S. Rosario, Juan de Lorenzana, era pronto a ignorarla nel caso di Martino, accettandolo come fratello laico, ma Martino rifiutò; solo nel 1599, all'età di ventiquattro anni, pronunciò la professione come fratello laico. 
Le notizie sulla vita di Martino nell'Ordine domenicano sono tratte dalle testimonianze raccolte durante il processo di beatificazione; un membro della congregazione, Fernando de Aragonés, ne diede un'immagine complessiva: «Erano molti i lavori di cui si occupava il servo di Dio, frate Martino de Porres: era cerusico, chirurgo, guardarobiere e infermiere. Ognuno di questi lavori era abbastanza gravoso per un uomo solo, ma Martino vi si dedicava con grande generosità, prontezza e attenzione ai dettagli, senza sentirne il peso. Era sorprendente e mi fece capire che quello che nella sua anima lo legava a Dio era effetto della grazia divina». Altri descrissero esempi più specifici della sua carità e del suo potere straordinario di guarigione; Fernando dell'Aquila, per esempio, racconta che Gerónirno Batista, uno dei sacerdoti della congregazione, era affetto da gravi ulcere a una gamba, incurabili dalla medicina ufficiale, perciò l'unica soluzione era l'amputazione. Il chirurgo aveva appena iniziato l'intervento quando Martino entrò chiedendo che cosa stesse succedendo; quando apprese che il frate stava per perdere la gamba, disse al chirurgo di fermarsi e che l'avrebbe curato lui stesso: in pochi giorni il paziente guarì completamente. 
 
Martino non svolse la sua attività solo all'interno della congregazione, ma estese le sue attenzioni agli ammalati della città e si occupò della costruzione di un orfanotrofio e di un ricovero per trovatelli, con annesse molte altre fondazioni. Gli fu dato il compito di distribuire ai poveri, ogni giorno, il cibo del convento (che si dice moltiplicasse miracolosamente in caso di bisogno) e si prese personalmente cura degli schiavi deportati in Perù dall'Africa. La sua ambizione più grande era di essere mandato in qualche missione all'estero, per la gloria del martirio, ma dal momento che non era possibile, decise di infliggersi rigorose penitenze (si parlò molto durante il processo di beatificazione non solo delle penitenze, ma anche delle straordinarie doti soprannaturali, inclusa la capacità di passare attraverso le porte chiuse). Il suo amore per le creature di Dio si estendeva agli animali (divenne noto come il S. Francesco delle Americhe): giustificava addirittura le devastazioni compiute dai topi affermando che i piccoli esseri non erano adeguatamente nutriti; giunse inoltre a creare a casa della sorella un ricovero per cani e gatti. 
Secondo il suo pupillo, Juan Vasquez Parra, Martino fu molto pratico nelle opere di carità: con i soldi e i beni che raccoglieva scrupolosamente e metodicamente, provvide alla dote di sua nipote in tre giorni e allo stesso tempo raccolse altrettanto denaro, e anche di più, per i poveri. Insegnò a seminare la camomilla nelle orme lasciate dagli animali sul terreno ben concimato, mise un servo di colore in lavanderia, si occupò di chiunque avesse bisogno, fossero coperte o candele, camicie o dolci, miracoli o preghiere.
La sensibilità di Martino è rivelata in due episodi; nel primo si narra che un avvocato, don Balthasar Carrasco, desiderava essere suo figlio adottivo e chiamarlo padre, al che Martino obiettò: «Perché vuoi un mulatto per padre? Non starebbe bene». «Perché no?», replicò don Balthasar, «direbbero piuttosto che hai un figlio spagnolo». In un'altra occasione, quando il suo priorato aveva difficoltà a saldare un debito, Martino offrì se stesso in cambio: «Sono solo un povero mulatto, sono proprietà dell'ordine. Vendetemi». Martino fu amico di S. Rosa di Lima (23 ago.) e anche del B. Giovanni Macías (18 set.), fratello laico dei domenicani di Santa Maria Maddalena in quella città. Alla sua morte avvenuta il 3 novembre 1639, prelati e nobili, oltre a gente d'ogni estrazione sociale, parteciparono alla processione funebre, acclamandolo come loro santo. Fu beatificato nel 1837, dopo molti ritardi, e canonizzato il 6 maggio 1962. È il patrono della giustizia sociale e dei rapporti interrazziali, data la sua carità di portata universale.
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2) Lettura: Lettera ai Romani 13, 8 - 10  
Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. 
Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». 
La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità.
 
3) Commento su Lettera ai Romani  13, 8 - 10  
Non siate debitori di nulla se non dell'amore vicendevole, perché chi ama l'altro ha adempiuto la Legge. (Rm 13, 8) - Come vivere questa Parola?
Adempiere la Legge era per gli uomini di fede contemporanei di Paolo il punto fermo e intoccabile. Ma con la Legge e le sue prescrizioni molti si sentivano quasi sempre in debito perché avevano l'impressione di "non arrivare mai", di essere sempre inadeguati. In quest'ottica la Legge appariva più una condanna che una "strada facilitata" per arrivare a Dio. 
La Legge mostrava il bene da compiere e il male da evitare, ma nel contempo rivelava anche tutti i limiti della volontà umana. E soprattutto non dava la forza, non guariva il cuore per renderlo capace di seguire le vie del Signore. Era un tranello sottile che toglieva a molti la pace.
Ed è ancora un tranello perché, anche se con modalità diverse, lo stesso meccanismo si ripete.
In particolare nei cristiani di buona volontà che con le migliori intenzioni si impegnano nella via della preghiera, dell'impegno ecclesiale, del donare. Si è a volte abitati da sensi di colpa per non aver fatto abbastanza, in famiglia, in parrocchia, per i poveri, per la propria vita spirituale...
Ma se il nostro criterio di valutazione è sempre il "quanto facciamo" s. Paolo ci ricorda che dobbiamo guardare in un'altra direzione. 
Siamo sì debitori ma dell'amore vicendevole e l'amore non accusa senza pietà, non pervade di sensi di colpa, non toglie la pace. Esso è innanzitutto pazienza e perdono verso l'altro ma anche verso se stessi. Non guarda il quanto ho fatto ma il come, non sgrida i miei limiti ma ammira quanto riesco a compiere nonostante e anche attraverso essi.
L'amore è la pienezza della Legge perché è la pienezza che riesce ad esprimersi anche nelle nostre fragilità.
La nostra Legge sei tu Dio, la nostra Legge è la tua Parola. La nostra Legge è l'amore che hai riversato nel nostro cuore e che ci chiami a riversare su altri. La nostra Legge è Gesù Cristo.
Ecco la voce di una donna "incarnata" Madeleine Delbrel: Quando il regno dei cieli vuole trapassare il mondo, quando l'amore di Dio vuole cercarsi qualcuno che è perduto, quando questo qualcuno è una moltitudine, importa molto più chi si è che non ciò che si è; importa molto di più come si fa' che non ciò che si fa.
 
 "Fratelli, non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge... L'amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l'amore." (Rm 13, 8-16) - Come vivere questa Parola?
Il teologo Narsai di Edessa, commentando questa Parola, scrive: "Tu cerchi di essere giusto e buono: fai ai tuoi compagni quello che desideri sia fatto a te. Tu vuoi ricevere il salario delle tue fatiche nel giorno della ricompensa: paga al tuo compagno il debito dell'amore".
S. Paolo insiste affermando che il compimento della Legge è l'amore. Si tratta di un debito che non può mai essere assolto del tutto, ma che pure occorre non stancarsi di pagare. L'amore vicendevole è pure il cuore della "regola d'oro", messaggio comune delle diverse religioni, ma concretizzata nella vita di Cristo, nella sua donazione completa ed assoluta a noi attraverso la sua Passione e Risurrezione.
Ecco la voce di una filosofa E. Stein : "L'amore reciproco è nello stesso tempo amore di sé, è un sì detto alla propria essenza e alla propria persona." 
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4) Lettura: Vangelo secondo Luca 14, 25 - 33  
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. 
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. 
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
 
5) Riflessione sul Vangelo secondo Luca 14, 25 - 33  
Così inizia il passo evangelico odierno: "Siccome molta gente andava con lui, Gesù si voltò e disse: "Se qualcuno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo"". E Luca, l'evangelista della mitezza che esprime con queste parole l'esigenza di Gesù. Dobbiamo "odiare", ed è un comando di Gesù... Sono parole che ci sconcertano. Gesù infatti vuoi togliere ogni illusione alla molta gente che gli va dietro. E facilmente comprensibile che quando uno dice: Non c'è altra legge che l'amore, l'amore riassume tutti i comandamenti, suscita entusiasmo, soddisfazione e anche molte illusioni, perché tutti ci riteniamo capaci di amare: se basta amare, siamo a posto! Gesù ci indica una via che non presenta nessuna difficoltà.
Ma "Gesù si voltò e disse: "Se uno viene a me... Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo"". E una esigenza fortissima, e Gesù la fa seguire da due esempi di persone che devono ben riflettere prima di impegnarsi. Se uno vuol costruire qualcosa, deve prima fare i conti e vedere se il capitale che possiede basta per arrivare a finire la costruzione; se si vuoi fare guerra, bisogna avere truppe ed armamenti sufficienti per combattere fino alla vittoria.
E qual è il capitale necessario per costruire la torre, qual è l'equipaggiamento sufficiente per vincere la guerra? Gesù dice: la condizione è questa: rinunciare a tutto quello che si ha. "Chiunque di voi non rinunzia a tutti i sudi averi, non può essere mio discepolo".
Eccoci dunque presi in una specie di contraddizione fra l'amore e il distacco. Se ci pensiamo bene, Gesù non fa altro che indicarci le condizioni del vero amore. Non dobbiamo illuderci: da soli non saremo mai capaci di amare, perché l'amore è disciplina, l'amore esige un profondo distacco, un distacco completo. Spesso, quando noi crediamo di amare, amiamo il nostro interesse, non amiamo veramente né gli altri né Dio. Cerchiamo la nostra soddisfazione, la nostra gioia, invece di cercare la felicità degli altri nell'adesione alla volontà divina.
 
San Luca è l'evangelista della misericordia, e tuttavia è proprio lui che dice: "Se qualcuno viene a me senza odiare, non può essere mio discepolo". Perché? Perché Luca è anche l'evangelista che insiste di più sull'impegno del discepolo nei confronti del Maestro.
San Matteo ha espresso diversamente questa parola di Gesù. Egli dice: "Se qualcuno viene a me e ama suo padre o sua madre più di me, non è degno di me". Da un lato si capisce che è la stessa cosa che vuoi dire san Luca, però la formulazione lucana ha il vantaggio di presentare la questione molto nettamente.
Non si tratta di rinunciare ad ogni amore, è chiaro; si tratta di rinunciare all'amore possessivo. Gesù infatti non domanda solo di odiare il padre, la madre, i figli, ma anche di odiare la propria vita. Ora, questa aggiunta ci fa capire in che direzione vada la sua esigenza: egli impone il distacco da ogni possesso.
"Chi non rinunzia a tutti i Suoi averi, non può essere mio discepolo".
C'è un modo di amare che in realtà è una ricerca di comfort nella vita: il comfort affettivo, l'appoggio, la soddisfazione del cuore. E a questo modo di amare che Gesù chiede di rinunciare.
Egli stesso ha rinunciato, egli stesso, si può dire, "ha odiato", nel significato evangelico, sua madre, i suoi fratelli. Ci colpisce vedere che nel Vangelo, tutte le volte che si parla di sua madre o dei suoi fratelli, è sempre per sfociare ad una parola che sembra dura, di rifiuto. "Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e chiedono di te...". "Mia madre e i miei fratelli sono quelli che fanno la volontà di Dio". "Felice la donna che ti ha portato!". "Molto più felice chi ascolta la parola di Dio e la mette in pratica".
Gesù è andato davvero molto lontano in questo atteggiamento. Guardando le cose umanamente si può dire che ha "disonorato" sua madre. Si disonora la madre, quando non le si dimostra amore; si disonora la madre, quando si accetta di morire come un criminale... Gesù è veramente giunto al totale distacco dall'amore possessivo, insegnandoci così la strada del vero amore, dell'amore generoso, l'amore capace di tutti i sacrifici, l'amore che dona la vita e che accetta l'umiliazione quando è il mezzo per compiere il piano di Dio. Questo è l'amore vero. Non è più un'illusione di amore, è l'amore al quale possiamo spalancare il cuore e che riempie di gioia, perché è amore che viene da Dio. 
 
«Chi non rinuncia a tutti suoi averi non può essere mio discepolo» (Lc 14,33) - Come vivere questa Parola?
Qualcuno a questo punto, grida. Ci siamo! Sempre la chiamata è a diventare un rinunciatario. Come una larva, un abbietto relitto: un po' scemo e un po' folle, vocato all'accattonaggio.
Assolutamente no.
Facciamo conto di andare per una strada (piuttosto ripida a tratti) dove qualcuno, con buone o cattive maniere, ci carica di grossi pesi.
Roba - magari - preziosa: pepite d'oro, un sacco di diamanti, un altro sacco di lapislazzuli. Niente vetture, tanto meno elicotteri. 
La strada è quella, noi dobbiamo percorrerla tutta, non nostra madre né i nostri amici. La meta è stupenda. Vale la pena di camminare, ma occorre buttar via i pesi. Pena, a un certo punto, di cadere a terra o fermarsi sul ciglio della strada.
Ecco, proprio così è nella vita intesa come un'accozzaglia di risposte alle proprie pulsioni o passioni.
Al contrario se decidiamo di camminare con Gesù, come suo discepolo, siamo certi di arrivare alla splendida meta di una gioiosa pienezza che durerà sempre.
Allora se vogliamo camminare lieto e libero su questa strada, gettiamo via (con l'aiuto di Dio) tanti pesi inutili che la cultura consumistica continua oggi a proporti. Il distacco da ciò che è di troppo diventa davvero terapeutico.
Signore, aiutaci a correre agile sulla via della vita, fuori da inautenticità e finzione. Aiutaci a correre con te, Gesù: libera dal peso di tutto quello che non serve ad amare, nel lieto dono di noi stessi.
Ecco la voce del Papa, Papa Francesco: Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio. Bisogna custodire la gente, aver cura di ogni persona, con amore che si preoccupa specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore.
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6) Per un confronto personale
- Preghiamo perché nei nostri cuori penetri la benevolenza, vinca la fraternità, fiorisca la carità?
- Preghiamo perché negli ospedali, nelle carceri e nei ricoveri, chi soffre possa oggi incontrare un animo cristiano?
- Preghiamo perché i ragazzi e i giovani, sostenuti dalla nostra preghiera e dagli esempi, sappiano andare incontro alla vita con fede e onestà?
- Preghiamo per chi non ha fede, ideali e avvenire?
 
 
7) Preghiera finale: Salmo 111
Felice l’uomo pietoso, che dona ai poveri.
 
Beato l’uomo che teme il Signore
e nei suoi precetti trova grande gioia.
Potente sulla terra sarà la sua stirpe,
la discendenza degli uomini retti sarà benedetta. 
 
Spunta nelle tenebre, luce per gli uomini retti:
misericordioso, pietoso e giusto.
Felice l’uomo pietoso che dà in prestito,
amministra i suoi beni con giustizia. 
 
Egli dona largamente ai poveri,
la sua giustizia rimane per sempre,
la sua fronte s’innalza nella gloria.