Ritiro Quaresima

Home Su Sommario Cerca Contatti Privacy Area riservata

 

GRUPPI FAMIGLIA
RITIRO DI QUARESIMA
domenica 12 marzo 2006

LA COMUNITà PARROCCHIALE DEL SACRO CUORE
MEDITA SUL RUOLO DELLA PAROLA DI DIO NELLA VITA DEL CREDENTE

PROGRAMMA

 

ore 08.45    Caffè
ore 09.00    Lodi Mattutine (Auditorium)
ore 09.30    Santa Messa (Chiesa)
ore 10.45    Lectio: Spunti di Riflessione (Auditorium)
ore 11.15    Meditatio: Meditazione personale (Locali Parrocchiali)
ore 12.00    Adorazione Eucaristica (Chiesa)
ore 13.00    Ora Sesta - Benedizione Eucaristica (Chiesa)
ore 13.15    Pranzo (Salone Comunitario)
ore 14.00    Santo Rosario
ore 14.30    Collatio: Verifica comunitaria (Auditorium)
ore 16.00    Oratio: Adorazione Eucaristica con Vespri (Chiesa)
ore 17.00    Conclusione
 

II Domenica di Quaresima
Genesi 22,1-2.9.10-13. 15-18

 

In quei giorni Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». Abramo si mise in viaggio. Essi arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio: Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. Poi l’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Saranno benedette per la discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».
 

Romani 8,31b-34
 

Fratelli, che diremo? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?
 

Marco 9,2-10
 

Dopo sei giorni, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li portò sopra un monte alto, in un luogo appartato, loro soli. Si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e discorrevano con Gesù.
Prendendo allora la parola, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!». Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento. Poi si formò una nube che li avvolse nell'ombra e uscì un voce dalla nube: «Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!». E subito guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell'uomo fosse risuscitato dai morti. Ed essi tennero per sé la cosa, domandandosi però che cosa volesse dire risuscitare dai morti.
 

DIO PADRE CI INVITA AD ASCOLTARE CRISTO, MAESTRO DELLA CHIESA E DELL’UMANITà
 

II brano evangelico ci parla della Trasfigurazione di Gesù.
Un giorno Gesù prese con sé tre dei suoi discepoli e salì con essi su un alto monte (secondo la tradizione, il Tabor). A un certo punto, il volto di Gesù cominciò a brillare di una luce sfolgorante; apparvero Mosè ed Elia che parlavano con lui.
Per un momento, la realtà divina del Figlio di Dio, nascosta sotto la sua umanità, fu come liberata e Gesù apparve, anche all'esterno, quello che era in realtà: la luce del mondo.
C'era una tale atmosfera di pace e di felicità che Pietro non poté trattenersi dall'esclamare: «Signore, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende...».
Ma in quel momento sì formò una nube che li avvolse e dalla nube uscì una voce che diceva: «Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!».
Con queste parole, Dio Padre dava Gesù Cristo all'umanità come suo unico e definitivo Maestro.
Quell'imperativo «Ascoltatelo!» è carico di tutta l'autorità di Dio, ma anche di tutto l'amore di Dio per l'uomo.
Ascoltare Gesù, infatti, non è solo dovere e obbedienza, ma è anche grazia, privilegio, dono.
Egli è la verità: seguendolo, non potremo ingannarci; è l'amore: non cerca che la nostra felicità.

Ma ora, veniamo al pratico.
Quella parola «Ascoltatelo!» non è rivolta evidentemente solo ai tre discepoli che erano sul Tabor, ma ai discepoli di Cristo di tutti i tempi.
È necessario perciò che ci poniamo la domanda:
«Dove parla Gesù oggi, per poterlo noi ascoltare?».

Gesù ci parla anzitutto attraverso la nostra coscienza.
Ogni volta che la coscienza ci rimprovera per qualcosa di male che abbiamo fatto, o ci incoraggia a fare qualcosa di buono, è Gesù che ci parla mediante il suo Spirito.
La voce della coscienza è una specie di «ripetitore», installato dentro di noi, della voce stessa di Dio.
Ma da sola essa non basta.
È facile farle dire quello che piace a noi ascoltare.
Essa può essere deformata, o messa addirittura a tacere, dal nostro egoismo.

Ha bisogno perciò di essere illuminata e sorretta dal Vangelo e dall'insegnamento della Chiesa.

Il Vangelo è il luogo per eccellenza in cui Gesù ci parla oggi.
Non si contano le persone che ne hanno fatto l'esperienza nella loro vita.
La gente ama distrarsi, non pensare; per questo i programmi di varietà, di giochi e quiz hanno tanto ascolto.
Quando però la famiglia si trova a fronteggiare una crisi, un dispiacere grosso, allora ci si accorge che solo le parole del Vangelo sono all'altezza del nostro problema e hanno qualcosa da dirci. Tutte le altre parole suonano vuote e ci lasciano soli, alle prese con i nostri problemi.
Grazie al suo Vangelo, Gesù parla ed è ascoltato, a volte, anche al di fuori della cerchia dei suoi discepoli.
L'ideale della «non-violenza», per esempio, fu ispirato a Gandhi, oltre che dalla sua cultura indù, dalla lettura delle Beatitudini evangeliche, come sappiamo dalla sua corrispondenza con lo scrittore russo Tolstoj.
I fondatori stessi del marxismo, specie Engels, riconoscevano nel Vangelo la fonte ispiratrice di alcuni dei principi più validi della loro dottrina sociale.
Gesù parla «molte volte e in diversi modi» (Ebrei 1,1) e a volte la sua voce giunge a noi cristiani, come di rimando, da quelli di fuori della Chiesa.
Ma è chiaro che questa è l'eccezione.

Il luogo ordinario dove Gesù ci parla oggi è proprio la Chiesa, attraverso la sua tradizione e il magistero dei successori degli apostoli.
Ad essi Cristo ha detto: «Chi ascolta voi, ascolta me!».
Sappiamo per esperienza che le parole del Vangelo possono essere interpretate spesso in modi diversi, possono venir piegate a dire quello che gli uomini di un certo ambiente vogliono far loro dire.
Chi ci assicura una interpretazione autentica, se non la Chiesa, istituita da Cristo proprio a tale scopo?
Per questo è importante che cerchiamo di conoscere la dottrina della Chiesa, e conoscerla di prima mano, come essa stessa la intende e la propone; non nell'interpretazione, spesso distorta e riduttiva, dei mass-media.

Ma adesso devo cambiare registro.
Quasi altrettanto importante che sapere dove parla Gesù oggi, è sapere dove non parla.
Egli non parla di certo attraverso i maghi, gli indovini, i negromanti, i dicitori di oroscopi, i sedicenti messaggi extraterrestri; non parla nelle sedute spiritiche, nell'occultismo.
Nella Scrittura leggiamo questo ammonimento al riguardo:
«Non si trovi in mezzo a te chi esercita la divinazione, o il sortilegio, o l'augurio, o la magia; né chi faccia incantesimi, né chi consulti gli spiriti, o gli indovini, né chi interroghi i morti, perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore» (Deuteronomio 18,10-12).
Questi erano i modi tipici di rapportarsi al divino dei pagani che traevano auspici consultando gli astri, o le viscere di animali, o il volo degli uccelli.
C'erano tra loro due classi apposite di sacerdoti che facevano solo questo; si chiamavano gli Àuguri (da cui deriva il nostro augurare e augurio) e gli Auspici (da cui il nostro auspicare e auspicio).
Il rapporto con la divinità non era basato sull'obbedienza, la fiducia e l'amore, ma sulla furbizia. Bisognava carpire alla divinità i suoi segreti e i suoi poteri.
Con quella parola di Dio: «Ascoltatelo!», tutto questo è finito.
C'è un solo mediatore tra Dio e gli uomini; non siamo costretti ad andare più «a tentoni», per conoscere il volere divino, a consultare questo o quello.
In Cristo abbiamo ogni risposta.
Oggi purtroppo quei riti pagani sono tornati di moda.
Come sempre, quando diminuisce la vera fede, aumenta la superstizione.
Prendiamo la cosa più innocua tra tutte, l'oroscopo.
Non c'è, si può dire, giornale o stazione radio che non propini giornalmente ai suoi lettori e ascoltatori l'oroscopo.
Per le persone mature, dotate di un minimo di capacità critica o di ironia, esso non è che una innocua presa in giro reciproca, una specie di gioco e di passatempo.
Ma intanto guardiamo gli effetti a lungo andare.
Che mentalità si forma, specie nei ragazzi e negli adolescenti?
Quella secondo cui il successo nella vita non dipende dallo sforzo, da applicazione nello studio e costanza nel lavoro, ma da fattori esterni, imponderabili; dal riuscire a volgere a proprio vantaggio certi poteri, propri o altrui.
Peggio ancora, tutto ciò induce a pensare che nel bene e nel male la responsabilità non è nostra, ma delle stelle.
Torna in mente la figura di Don Ferrante.
Convinto che la peste non fosse dovuta al contagio, ma «alla fatale congiunzione di Saturno con Giove», egli - dice il Manzoni - non prese alcuna precauzione contro di essa e così morì «prendendosela con le stelle» (I Promessi Sposi, cap. 37).
È davvero sconcertante vedere come organi di stampa dal glorioso passato o mezzi di comunicazione pubblici che dovrebbero svolgere una funzione educativa, si prestino a un'opera così chiaramente diseducativa e alla quale essi sono i primi a non credere.
Devo accennare a un altro ambito in cui Gesù non parla e dove invece lo si fa parlare tutto il tempo.
Quello delle rivelazioni private, messaggi celesti, apparizioni e voci di varia natura.
Non dico che Cristo o la Vergine non possano parlare anche attraverso questi mezzi.
Lo hanno fatto in passato e lo possono fare, evidentemente, anche oggi.
Solo che prima di dare per scontato che si tratti di Gesù o della Madonna che parla e non della fantasia malata di qualcuno o, peggio, di furbi che speculano sulla buona fede della gente, occorre avere delle garanzie.
Bisogna, in questo campo, attendere il giudizio della Chiesa, non precederlo.
Non ci perdiamo nulla ad attendere, perché nel frattempo abbiamo già tutto quello che ci occorre per conoscere la volontà di Dio e metterla in pratica, se lo vogliamo.

Dante diceva bene ai cristiani del suo tempo:
«Siate, cristiani, a muovervi più gravi:
non siate come penna ad ogni vento,
e non crediate ch'ogni acqua vi lavi.
Avete il novo e 'l vecchio Testamento,
e 'l pastor della Chiesa che vi guida:
questo vi basti a vostro salvamento» (Paradiso V, 73-78).

San Giovanni della Croce diceva che da quando, sul Tabor, ha detto di Gesù:
«Ascoltatelo!», Dio è diventato, in certo senso, muto. Ha detto tutto, non ha cose nuove da rivelare.
Chi gli chiede nuove rivelazioni, o risposte, lo offende, come se non si fosse ancora spiegato chiaramente.
Dio continua a dire a tutti la stessa parola: «Ascoltate lui! Leggete il Vangelo: vi troverete più, non meno, di quello che cercate».

Il Vangelo di oggi ci ha messo davanti, in tutta la sua maestà, il Cristo come Maestro della Chiesa e dell'umanità.
Scendiamo anche noi dal nostro piccolo Tabor, portando nel cuore l'eco forte di quell'invito del Padre: «Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!».
 

SPUNTI PER LA COMPRENSIONE DEL TESTO
 

Oggi dalla liturgia ci viene proposto il tema della trasfigurazione di Gesù.
Il messaggio di questo brano non è immediatamente chiaro e facile da cogliere perché è trasmesso con un linguaggio e con immagini simboliche che richiedono una spiegazione.

La scena è ambientata in un luogo appartato, su un monte alto, dove Gesù ha condotto tre dei suoi discepoli (v. 2), gli stessi che saranno testimoni della sua agonia nel Getsemani (Mc 14,33).
Marco sottolinea il fatto che erano loro soli.
Gesù si comporta come i rabbini che, quando volevano rivelare un segreto o trasmettere un insegnamento particolarmente importante, erano soliti ritirarsi con i discepoli in un luogo isolato, lontani da orecchi indiscreti, per evitare di essere uditi da coloro che non erano in grado di capire o avrebbero potuto fraintendere.
Anche sul Sinai la parola di Dio non era stata rivolta direttamente a tutto il popolo.
Mosè era salito verso Dio, una prima volta da solo (Es 19,2ss.), poi aveva preso con sé tre persone ragguardevoli: Aronne, Nadab e Abìu (Es 24,1).
Il luogo delle manifestazioni del Signore non era accessibile a tutti: per avvicinarsi erano necessarie disposizioni particolari e una grande santità.
II fatto che Gesù abbia riservato la sua rivelazione ad alcuni discepoli e che alla fine abbia raccomandato di non divulgarla (vv. 9-10) indica che li ha resi partecipi di un'esperienza molto significativa, ma ancora troppo elevata per essere recepita da tutti.

La rivelazione è avvenuta su un monte alto (v. 2) che la tradizione cristiana ha identificato con il Tabor, la montagna coperta di pini, querce e terebinti, che sorge, isolata, al centro dell'estesa pianura di Esdrelon.
Fin dai tempi più remoti, sulla sua cima c'era un altare dove venivano offerti sacrifici alle divinità pagane. Oggi il luogo invita al raccoglimento, alla riflessione, alla preghiera e i pellegrini che lo visitano si sentono quasi naturalmente portati a elevare lo sguardo al cielo e il pensiero a Dio.
Per quanto possa essere suggestiva questa esperienza, va ricordato che il testo del vangelo non parla del Tabor, ma di un monte elevato e questa espressione ha chiari riferimenti biblici.
Nella Bibbia sono collocati sul monte le manifestazioni del Signore e i grandi incontri dell'uomo con Dio.
Mosè (Es 24,15ss.) ed Elia (1Re 19,8), gli stessi personaggi che compaiono durante la trasfigurazione, hanno ricevuto le loro rivelazioni sul monte.
Più che un luogo materiale, il monte indica il momento in cui l'intimità con Dio raggiunge il culmine.
Si tratta di quell'esperienza sublime che i mistici chiamano unione dell'anima con Dio, quella in cui la persona, dissolvendosi quasi nel suo Signore, si sente identificare con i suoi pensieri, i suoi sentimenti, le sue parole e le sue azioni.
Gesù lascia la pianura dove gli uomini seguono principi che spesso sono in contrasto con quelli di Dio e conduce in alto alcuni discepoli; li vuole allontanare dai ragionamenti e dalle convinzioni degli uomini per introdurli nei pensieri più reconditi del Padre, nei suoi imperscrutabili disegni sul messia.
Luca è ancora più esplicito quando riferisce il tema del dialogo di Gesù con Mosè ed Elia.
Afferma che questi, apparsi nella loro gloria, parlavano con lui del dono della vita che Gesù stava per fare (Lc 9,31).
Questa è la rivelazione sconcertante che alcuni discepoli, non tutti, un giorno hanno ricevuto dal cielo.

Le vesti bianche (v. 3) manifestano esteriormente l'identità dì Gesù.
Il colore bianco era il simbolo del mondo di Dio, era il segno della festa e della gioia.
Si diceva che, nel regno di Dio, gli eletti avrebbero indossato vestì candide che «mandavano scintille come raggi di sole».
Nell'Apocalisse l'immagine viene ripresa: in cielo gli eletti appaiono al veggente «avvolti in vesti bianche» (Ap 7,13).

Mosè ed Elia (v. 4) sono due celebri personaggi della storia d'Israele.
Il primo è il mediatore di cui Dio sì è servito per liberare il suo popolo e per donargli la Torah, la Legge. È introdotto nella scena della trasfigurazione per testimoniare che Gesù è il profeta da lui annunciato quando, prima di morire, ha promesso agli israeliti: «Il Signore susciterà per voi, in mezzo a voi, fra i vostri fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto» (Dt 18,15). L'invito ad ascoltarlo, che si trova alla fine del racconto (v. 7), ne è una conferma.
Elia, a sua volta, è il primo dei profeti, colui che era stato rapito in cielo (2Re 2,11-12) e che si pensava sarebbe tornato prima della venuta del messia. Nella scena della trasfigurazione, entra anch'egli come testimone: dichiara, a nome di tutti i profeti, che Gesù è l'atteso messia.

Anche le tende (v. 5) che Pietro vuole costruire hanno un significato simbolico.
Al termine di ogni anno, alla conclusione della stagione dei raccolti, si celebrava in Israele la festa delle capanne, che durava un'intera settimana. Si costruivano capanne per ricordare gli anni trascorsi nel deserto, per richiamare alla mente le opere compiute dal Signore in passato. Questa festa era però un invito a guardare al futuro. Il profeta Zaccaria aveva annunciato che, alla venuta del messia, tutti i popoli della terra si sarebbero ritrovati in Gerusalemme per festeggiare insieme la festa delle capanne (Zc 14,16-19). Riferendosi a questo oracolo, i rabbini descrivevano il tempo del messia come una perenne «festa delle capanne».
Chiedendo di costruire tre tende, Pietro si richiama a questo significato simbolico delle capanne.
È convinto che sia giunto il tempo del regno di Dio, l'epoca del riposo e della festa perenne promessa dai profeti; non ha capito il vero significato della scena cui sta assistendo. Continua a coltivare l’illusione che sia possibile entrare nel regno di Dio senza passare attraverso il dono della vita.
Marco annota: «Egli non sapeva cosa dire, perché erano stati presi dallo spavento» (v. 6).

La paura non indica il timore di fronte a un pericolo; è difficile, infatti, immaginare i discepoli contemporaneamente in estasi per la gioia (v. 5) e sconvolti dal terrore (v. 6).
Quando la Bibbia parla di paura di fronte a una manifestazione del Signore si riferisce alla meraviglia, allo stupore che coglie chiunque entri in contatto con il mondo di Dio.

La nube e l'ombra sono immagini molto frequenti nell'Antico Testamento e servono a indicare la presenza di Dio.
Il Signore si manifesta a Mosè «in una densa nube» (Es 19,9).
Una nube accompagna gli israeliti nel deserto (Es 40,34-39) e copre la tenda dove Mosè incontra il Signore (Es 33,9-11). È il segno della presenza di Dio.
Al termine della scena della trasfigurazione, dalla nube esce una voce: è l'interpretazione che Dio dà a tutta la scena (v. 7).
Sintesi del messaggio
Dopo aver spiegato i vari simboli, cerchiamo di fare una sintesi del messaggio che la straordinaria esperienza vissuta dai tre discepoli ci vuole comunicare.
Il racconto della trasfigurazione occupa esattamente il centro del vangelo di Marco.
Fin dall'inizio, i discepoli si son posti la domanda sull'identità di Gesù (Mc 1,27; 4,41; 6,2-3) e, a un certo punto, hanno anche cominciato a intuire che egli era il messia.
Tuttavia avevano ancora le idee confuse.
Condividevano l'opinione più diffusa fra il popolo che il messia sarebbe stato un re capace di instaurare, in modo prodigioso e immediato, il regno di Dio sulla terra.
Questa convinzione traspare dalle parole di Pietro che vuole costruire le tre capanne: ritiene che sia giunto il regno di Dio e che, per esserne partecipi, non sia necessario passare attraverso la morte.
In un momento particolarmente significativo della loro vita, tre discepoli privilegiati sono stati introdotti da Gesù nei pensieri di Dio; hanno goduto di un'illuminazione che ha fatto loro comprendere la vera identità del Maestro e la meta del suo cammino: egli non sarebbe stato il re glorioso che si attendevano, ma un messia osteggiato, perseguitato e ucciso.
Tuttavia, il suo destino ultimo non sarebbe stato il sepolcro, ma la pienezza della vita.
Quella della trasfigurazione fu un'esperienza spirituale straordinaria in cui Gesù cercò di convincerli che solo chi dona la propria vita per amore la realizza pienamente.
Non è possibile entrare per scorciatoie nel regno di Dio, come Pietro avrebbe voluto fare.
È necessario che ogni discepolo assuma coraggiosamente la disposizione del Maestro e accetti di donare la vita.
È bastata l'esperienza del monte per far assimilare questa verità ai tre discepoli?
L'osservazione conclusiva dell'evangelista: «Essi tennero per sé la cosa, domandandosi però che cosa volesse dire risuscitare dai morti» lascia intendere che rimasero solo frastornati, non convinti, dalla rivelazione ricevuta.
È evidente che non riuscirono a comprendere che, in Gesù che andava a donare la vita, Dio stava rivelando tutta la sua gloria, tutto il suo amore per l'uomo.
Solo la luce della Pasqua e le esperienze con il Risorto spalancarono loro gli occhi.
 

SPUNTI PER LA MEDITAZIONE PERSONALE
 

L'esperienza della Parola
La vita del credente è segnata dall'ascolto della Parola, anche se si tratta di un'esperienza non priva di difficoltà.

  • Non è né facile, né scontato passare dalla Scrittura, dal testo (che in fin dei conti è una realtà morta) alla Parola che si rivolge proprio a noi, oggi. Se il testo esige l'attenzione dell'uomo di cultura, le conoscenze indispensabili per un'interpretazione corretta, la Parola richiede l'ascolto, e l'ascolto non può avvenire senza il silenzio.

  • Non è neppure immediata l'accoglienza della Parola nella sua interezza e nella sua varietà. È quasi spontaneo operare una selezione: accettare ciò che risulta consolante, respingere quanto appare scomodo. Si afferma così un ascolto a senso unico. Ci si costruisce un volto di Cristo (e di Dio) che nasce da accostamenti decisi da noi. Non c'è posto, così, per il Cristo delle parole dure, esigenti, per colui che ci rivela fino in fondo il nostro peccato, che ci invita a chiamare per nome i nostri mali.

  • L'equivoco diventa terribile proprio quando arriva il tempo della prova. Allora lutto sembra sprofondare nel buio più spesso». È quanto accade ad Abramo (I lettura). Il racconto non lascia alcun dubbio: è Dio stresso che lo mette alla prova e sembra chiedergli di rinunciare alla promessa divina, al suo futuro, a quel figlio unico che era l'inizio del compimento. Cosa conta in quel momento per il patriarca? Egli è messo drasticamente davanti ad una scelta: l'amore per il proprio figlio o l'obbedienza a Dio.


Dalla Parola a Colui che parla
Quando arriva la prova si vede quanto è grande l'amore per una persona, quanto solida la fiducia in lui.

  • Così Abramo ha mostrato fino in fondo di amare Dio più del suo figlio e di affidarsi completamente a lui, anche quando quel disegno che Dio gli aveva annunciato sembrava definitivamente compromesso.

  • Così Gesù ha accettato la via dolorosa della passione e della croce, sicuro che il Padre non lo avrebbe abbandonato nelle mani della morte e che il progetto di Dio si sarebbe realizzato attraverso un fallimento apparente.

  • Così il cristiano è chiamato a seguire Gesù anche se conoscerà; momenti di lacerazione, di dolore, di solitudine, di sofferenza. Si comprende allora una realtà troppe volte messa tra parentesi: la parola è luce e sostegno per chi ama Colui che la pronuncia ed è disposto ad affidargli la propria vita. Altrimenti risulta impossibile fare il salto, abbandonarsi ad una volontà che comporta passaggi oscuri e non solo radiosi.
     

Anche a Dio piace ricevere regali
È sempre difficile e delicata la scelta di un regalo, non solo perché presuppone la conoscenza dei desideri, delle attese e, a volte, anche dei gusti bizzarri della persona a cui lo si offre, ma, soprattutto, perché, almeno a livello inconscio, si percepisce che, con il dono, è una parte di noi stessi che viene consegnata. I più graditi non sono i regali costosi, ma quelli che rivelano il maggior coinvolgimento di chi li offre.
Per il compleanno della moglie Clara, virtuosa pianista, Robert Schumann compose il celebre Sogno e lo accompagnò con una dedica: «II brano non è adeguato alle tue capacità, ma esprime tutto il mio amore». Era il cuore che, attraverso la musica, Robert consegnava alla sposa.
Alla persona amata siamo disposti a consegnare ciò che ci è più caro. Abramo amava il Signore al punto di pensare di offrirgli il suo unigenito, il figlio che amava più della stessa vita.
Natale è la festa del dono. Ci scambiamo i regali perché abbiamo capito che "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16) e ci invita a corrispondere al suo amore divenendo, a nostra volta, un dono per i fratelli. «Da questo abbiamo conosciuto l'amore: egli ha dato la sui vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1Gv 3,16).
 

Realizzato da Sabato Bufano - Informa s.a.s. - Tel. 0828620029
© 2006 Parrocchia Sacro Cuore di Gesù - Eboli (SA)