Ritiro Avvento

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GRUPPI FAMIGLIA

RITIRO D’AVVENTO

domenica 4 dicembre 2005

 

LA COMUNITà PARROCCHIALE DEL SACRO CUORE

SI INTERROGA SULLA CORRESPONSABILITà PASTORALE

ALLA LUCE DELL’ARTICOLO DI MONS. LAMBIASI

(ASSISTENTE NAZIONALE DI AZIONE CATTOLICA)

 

PROGRAMMA

 

ore 08.45    Accoglienza

ore 09.00    Lodi Mattutine (Auditorium)

ore 09.30    Santa Messa (Chiesa)

ore 10.30    Caffè (Salone comunitario)

ore 10.45    Lectio: Spunti di Riflessione (Auditorium)

ore 11.30    Meditatio: Meditazione personale (Locali Parrocchiali)

ore 12.15    Adorazione Eucaristica (Chiesa)

ore 13.00    Ora Sesta - Benedizione Eucaristica (Chiesa)

ore 13.15    Pranzo (Salone Comunitario)

ore 14.00    Santo Rosario (Auditorium)

ore 14.30    Collatio: Verifica comunitaria (Auditorium)

ore 16.00    Oratio: Adorazione Eucaristica (Chiesa)

ore 16.15    Vespri Solenni con Benedizione Eucaristica (Chiesa)

ore 17.00    Conclusione

 

PARROCCHIA E ANNUNCIO DEL VANGELO

di mons. FRANCESCO LAMBIASI

Declinare la vita di una parrocchia "normale" in termini di annuncio del Vangelo è ideale perennemente valido per una comunità cristiana, ma che oggi si è fatta urgenza non più rinviabile.

Una seria e concreta "conversione" della parrocchia, da aggregazione di praticanti a comunità di credenti, richiede, più che aggiustamenti tattici e prima ancora che soluzioni operative, una riflessione serena e disincantata sul fatto che il dinamismo missionario nella realtà media delle nostre parrocchie risulta spesso bloccato da modi riduttivi e deformati di intendere la missione.

 

Le riduzioni più ricorrenti e le deformazioni più rischiose si possono individuare - con linguaggio forse impietoso ma che si vorrebbe semplicemente non retorico o diplomatico - in una serie di "ismi":

  • narcisismo: è il peccato di comunità senza ricerca e senza inventiva, noiose e ripetitive, in cui l'annuncio scade a indottrinamento, il dialogo è di fatto monologo, la celebrazione autocontemplazione, l'andare-verso della missione si riduce all'autoreferenzialità di un girare-intorno;

  • proselitismo: è l'atteggiamento di comunità in cui l'evangelizzazione viene confusa con la propaganda e la testimonianza con la pubblicità; in cui l'altro è visto come preda da conquistare e non come fratello con cui camminare verso il regno di Dio;

  • paternalismo, da parte di parroci ed operatori pastorali che intendono la missione come un potere da delegare e non come una responsabilità da condividere;

  • fondamentalismo di quanti pensano che basti ripetere verbalmente la formula del kerygma ("Cristo è morto ed è risorto") senza adeguato sforzo di ritraduzione del messaggio e di una sua intelligente, fedele, creativa inculturazione.

 

Una luce su questo tema viene anche dal dibattito post-conciliare sulla parrocchia, che in modo forse un po' schematico si potrebbe riassumere nei termini: insostituibilità-insufficienza dell'istituzione-parrocchia in ordine alla evangelizzazione.

Da una parte infatti la parrocchia è stata riconosciuta come "luogo - anche fisico - a cui la comunità fa costante riferimento", come si legge negli Orientamenti pastorali per il decennio in corso, e subito dopo aggiungono i Vescovi:

 

"Ci sembra molto fecondo recuperare la centralità della parrocchia e rileggere la sua funzione storica concreta a partire dall'eucaristia, fonte e manifestazione del raduno dei figli di Dio e vero antidoto alla loro dispersione nel pellegrinaggio verso il Regno" (CVMC 47).

 

Paradossalmente però in questi anni, proprio mentre si faceva più ampio e significativo il riconoscimento della centralità della parrocchia e della sua concreta irrinunciabilità, si assisteva ad una sorta di sospetto o almeno di riserva critica nei confronti della fattiva capacità della parrocchia a sostenere il peso di impegni tanto esigenti. La cosa non sembra si possa legittimamente spiegare con un "arretramento" della parrocchia, che anzi in questi anni è innegabilmente cresciuta.

È vero infatti che è diminuito il numero dei praticanti, come pure si è senz'altro ristretta l'area di coloro che professano esplicitamente la fede cattolica: nel continente europeo il cristianesimo oggi è senz'altro minoritario.

È anche vero però che "allo stato di minoranza del cristianesimo in Europa corrisponde un suo miglioramento qualitativo: i cristiani europei di oggi hanno una fede più personale, più informata e più convinta; sentono maggiormente il bisogno - di fronte ai non credenti - di rendere ragione della propria fede e di testimoniarla con maggiore franchezza e senza complessi d'inferiorità; avvertono maggiormente la necessità di tradurre la fede in opere di carità cristiana e sono più disposti a impegnare tempo ed energie a favore dei poveri e degli emarginati della società attuale; hanno più viva coscienza di essere Chiesa e quindi di doversi impegnare nelle attività propriamente ecclesiali" ("Civiltà Cattolica", 20 nov. 1999, qu. 3586, p. 321).

Probabilmente quindi il divario tra l'ideale "professato" dalla parrocchia e la sua vita reale si è fatto più largo non tanto perché la parrocchia sia diventata meno coerente rispetto all'ideale di un tempo o più debole di altre istituzioni, quanto perché la meta si è fatta più alta.

Infatti un conto è se l'ideale della parrocchia è l'organizzazione religiosa degli abitanti battezzati di un territorio,

un altro conto se la meta ideale è l'evangelizzazione dei praticanti e dei non-credenti;

una cosa è se la parrocchia si concepisce come "una circoscrizione territoriale" sotto la guida di un parroco o se si configura come "stazione di servizi" o "dispensario di sacramenti",

un'altra cosa è se la parrocchia si pensa come "comunità di fedeli" (LG 26), "famiglia di Dio" (LG 28), "casa della comunione" ecc. (cf CfL 26).

Dunque la parrocchia in questi anni sembra cresciuta, ma è senz'altro cresciuto e molto di più il suo ideale.

 

Passi per una pastorale di "primo annuncio"

L'evangelizzazione oggi resta non uno tra i tanti, ma il compito primo e assolutamente ineludibile della Chiesa. Questo compito oggi è diventato a tutti gli effetti "il" problema della Chiesa.

 

Da qui scaturisce una prima opzione, ormai indifferibile, che riguarda il primato dell'annuncio. Trent'anni di impegno nel rinnovamento della catechesi hanno ampiamente dimostrato che l'impianto della iniziazione cristiana in Italia è da rivedere.

La direzione della "conversione pastorale" è chiara e obbligata: c'è bisogno di chiamare alla fede e perciò di annunciare il Vangelo.

La catechesi infatti non può portare alla conversione, ma solo alla maturazione e allo sviluppo della fede; solo l'evangelizzazione può generare la conversione e la fede.

Occorre dunque avviare una pastorale di "primo annuncio", che riproponga il cuore del messaggio cristiano: la persona del Signore Gesù.

È la fides qua che va rifondata, prima ancora che la fides quae.

Si richiede inoltre un impegno intenso e mirato perché ogni comunità cristiana "generi" missionari e apostoli che sappiano dire il Vangelo con le parole ordinarie della vita quotidiana, ma che siano anche preparati ad annunciarlo con forza e franchezza, con una solida coscienza della sua verità, senza mai contrapporre dialogo e annuncio (Cf NMI 55ss).

 

Legata alla precedente e anch'essa urgente è l'opzione-catecumenato.

Se è vero che bisogna ripartire dai nostri cristiani più prossimi, quali sono coloro che frequentano la messa festiva; se si deve constatare con gioia che va crescendo il numero di quanti desiderano tornare alla fede (i "rincomincianti"); se negli stessi fanciulli che vengono al catechismo ormai "non si può presupporre quasi nulla riguardo alla loro educazione alla fede nelle famiglie di provenienza" (CVMC 57), allora "la comunità cristiana dev'essere sempre pronta a offrire itinerari di iniziazione e di catecumenato vero e proprio" (ivi, 59).

 

Concretamente bisognerà assicurare alle nostre proposte formative

essenzialità nel contenuto,

radicalità nella proposta

e gradualità nel cammino;

ma occorrerà anche ricostruire il percorso parola-liturgia-vita,

evitando attentamente

che la catechesi venga intesa come indottrinamento intellettualistico;

che la liturgia non scada mai a rito stanco e noioso né a spettacolo più o meno gradevole e commovente, ma sia sempre vera "azione" partecipata, coinvolgente, fruttuosa;

che la carità non si riduca a gesto episodico o a intervento superficiale,

e preoccupandosi che la comunità cristiana non appaia una distributrice di sussidi e alla fin fine una "pietosa infermiera della storia".

Presupposto irrinunciabile e fecondo per la "conversione pastorale" sarà la passione per la contemplazione del volto del Signore in tutta la Chiesa, e in particolare nei pastori, nei consacrati e nelle consacrate, come nei laici maturi.

Non basta infatti dire al mondo che cambia quello che abbiamo imparato del Signore; occorre annunciare quello che - come veri discepoli "obbedienti alla parola del Signore e formati al suo divino insegnamento" - abbiamo appreso dal Signore.

 

A livello operativo di passi da fare per operare la "conversione pastorale" tanto attesa, si possono indicare i seguenti:

 

1. Passare da una catechesi riservata ai ragazzi ad una evangelizzazione per tutti.

Mentre i documenti ufficiali parlano chiaro, a livello di prassi continua a registrarsi un grave squilibrio nell'investimento delle risorse: massiccio nella pastorale dei minori, scarsissimo in quella degli adulti: 270mila dei 300mila cristiani sono impiegati per i fanciulli e i ragazzi, e il resto per i giovani e gli adulti. "Sarebbe come - diceva recentemente Enzo Biemmi - se i medici italiani fossero per il 90% pediatri, e per il rimanente 10% si occupassero della salute dei giovani, degli adulti e degli anziani". Di fatto anche le esperienze nuove in atto sembrano ancora in una fase in cui il "perno" sono ancora i bambini, attorno ai quali ruotano e si rimotivano gli adulti, ma continuare oggi in una catechesi "puerocentrica" significa continuare ad impostare la pastorale in vista di un contesto sociale, culturale ed ecclesiale che non esiste più. Di conseguenza è urgente passare da una catechesi per fasce d'età a una catechesi intergenerazionale: la suddivisione della catechesi per generazioni poteva essere una soluzione pertinente per una società cristiana, ma è "in-pertinente" in una società in cui il cristianesimo è socialmente minoritario.

 

2. Passare da una catechesi finalizzata ai sacramenti a una evangelizzazione che introduca globalmente nella vita cristiana.

È ormai evidente che l'enfasi posta sui sacramenti porta a fare di essi il "capolinea" dell'itinerario, piuttosto che la porta di ingresso e la "tappa di avvio" che introduce nel mistero cristiano. Altrimenti si rischia di rovesciare il detto di Tertulliano secondo cui "cristiani non si nasce, si diventa". Oggi il pericolo è piuttosto quello di "nascere cristiani e non diventarlo mai".

 

3. Passare da una catechesi delegata ad un gruppo di catechisti ad una iniziazione cristiana presa a carico dall'intera comunità ecclesiale.

Occorre quindi correggere l'immagine che la comunità dà di se stessa, cercando di superare decisamente il modello del "babysitteraggio catechistico" e puntando su una comunità adulta che, generando alla fede, rigenera se stessa. Ad un livello ancora più profondo occorre cambiare il modello di formazione dei catechisti optando per comunità cristiane che siano vere "scuole di comunione" e veri "laboratori della fede". Il cammino che ci attende è lungo e impegnativo.

Giovanni Paolo II ci spronava con la testimonianza di un amore vissuto "sino alla fine" e con la sua parola chiara e forte:

 

"Andiamo avanti con speranza! Un nuovo millennio si apre davanti alla Chiesa come oceano vasto in cui avventurarsi, contando sull'aiuto di Cristo. Il Figlio di Dio, che si è incarnato duemila anni or sono per amore dell'uomo, compie oggi la sua opera: dobbiamo avere occhi penetranti per vederla, e soprattutto un cuore grande per diventarne noi stessi strumenti" (NMI 58).

 

 


 

Evangelizzare si deve, ma si può?

"Cristo - affermava l'apostolo - non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il Vangelo" (1Cor 1,17). Il rischio oggi è quello di parlare tanto di evangelizzazione, ma di continuare di fatto a ... sacramentalizzare; anche nelle nuove forme di organizzazione pastorale, il pericolo numero uno è di fare il parroco nomade o girovago dell'unità pastorale, andando di parrocchia in parrocchia o di chiesa in chiesa a "dire messe" a ripetizione, ricadendo di nuovo nel ritualismo.

Le unità pastorali offrono invece la grande opportunità perché il presbitero si ripensi innanzitutto non come l'uomo del sacro, ma dell'evangelizzazione.

Le premesse della Conferenza Episcopale Italiana al Rito di Iniziazione Cristiana degli Adulti affermano in modo netto:

 

"Nella Chiesa locale la parrocchia è il luogo ordinario e privilegiato di evangelizzazione della comunità cristiana; qui più che altrove l'evangelizzazione può diventare insegnamento, educazione ed esperienza di vita. È nella parrocchia in particolare che l'esperienza di tipo catecumenale, soprattutto in vista della celebrazione dei sacramenti dell'iniziazione cristiana, trova la sua attuazione ordinaria".

 

La parrocchia non può delegare l'evangelizzazione a qualche gruppo specializzato. Il popolo di Dio è il soggetto dell'evangelizzazione e la parrocchia non può delegare a nessuno questa missione, altrimenti si snatura e degenera in azienda o accademia.

Certamente essa non può monopolizzare il grembo materno della Chiesa, perché lo Spirito di Dio fa nascere figli di Dio anche dalle pietre, ma non lo può nemmeno delegare; insomma non può affittare" (!) il suo utero materno.

 

Evangelizzare non solo si deve, ma si può.

Ad alcune precise e concrete condizioni:

 

a. Il primato dell'ascolto.

Ricordiamo Rm 10,14: non si può credere in Cristo senza averne sentito parlare, ma come si può senza uno che l'annunci?

E però - proseguiamo noi - è possibile che uno lo annunci se a sua volta non ha prima di tutto ascoltato?

Il primato dunque tocca non alla missione, ma all'ascolto.

Altrimenti non generiamo dei testimoni, ma sforniamo avvocati, e il Signore non ha bisogno di avvocati, ha bisogno di testimoni.

Altrimenti non esprimiamo dei missionari, ma produciamo dei propagandisti...

Solo chi è evangelizzato, può evangelizzare; solo chi si è lasciato rievangelizzare, può a sua volta rievangelizzare.

Ma qui occorre richiamare la differenza fondamentale, che già il Documento-base sul rinnovamento della catechesi aveva posto, tra catechesi ed evangelizzazione o primo annuncio - dove "primo" va preso non in senso cronologico, ma teologico.

L’evangelizzazione è destinata a far nascere o a far rinascere la fede, la catechesi a svilupparla e a farla crescere.

Ora in questi anni noi in Italia abbiamo di fatto risposto al bisogno di evangelizzazione con la catechesi, e per questo abbiamo formato fior di catechisti. L’Italia ha 300.000 catechisti: è un patrimonio enorme, ma oggi la domanda non è la catechesi: è l'evangelizzazione o la rievangelizzazione o la nuova evangelizzazione.

Dare catechesi a chi domanda o ha bisogno di evangelizzazione, dice un "parroco di montagna", don Tonino Lasconi, è come mettere un cappottino addosso a dei bambini nudi. Perché neanche nei bambini che vengono al catechismo si può dare per scontata la fede (cf CVMC 57).

A questo punto la domanda si fa drammatica: si può dare per scontata la fede negli operatori pastorali? Si può dare per scontata nei preti?

L'anno scorso la diocesi di Padova ha sviluppato un programma di formazione permanente per i preti tutto incentrato sulla fede del prete.

Ma due anni fa la Chiesa universale si è trovata nella necessità - cosa che non era mai successa in duemila anni di storia - di dire che Gesù è l'unico Salvatore (cf Dominus Jesus).

Questa verità non era mai stata messa in discussione neanche dagli eretici: ma è viva nei preti?

Concretamente il primato dell'ascolto si traduce nella leccio divina, necessaria perché l'ascolto della Parola diventi un incontro vitale (NMI 39; CVMC 67).

 

b. La formazione dei laici.

Nella comunità cristiana solo il prete è il pastore, ma lui è solo il pastore: non è il tutto della comunità.

Oggi è indispensabile formare un laicato dalla "fede adulta e pensata" che insieme ai pastori si faccia carico, in modo corresponsabile, della nuova evangelizzazione, che - occorre ribadirlo - non viene portata avanti solo con l'annuncio esplicito, ma innanzitutto con la testimonianza (cf EN 21).

È la vita quotidiana dei cristiani laici che sembra non dire più niente agli "altri".

Qualche anno fa L. Accattoli ci ha regalato quel bel libretto: Io non mi vergogno del Vangelo - Dieci provocazioni per la vita quotidiana del cristiano comune (EDB 1999), nella premessa scriveva:

 

«Mi propongo di mostrare l'attualità del distacco e della libertà evangelica nella nostra epoca: la loro possibilità concreta, la loro praticabilità quotidiana. Non in teoria, ma nella casa, nella giornata, nel lavoro, nelle vacanze di ciascuno di noi. In altre parole vorrei dare un'idea della possibile applicazione radicale dei consigli evangelici nella condizione secolare della nostra epoca, per la quale non vi sarà profezia se non tornerà a farsi profetica la vita del cristiano comune. Perché la società secolare diffida delle Chiese e non intende più il loro linguaggio. Può essere scossa invece dal gesto e dalla parola di chi vive pienamente la condizione secolare, se mostra di fare di tutto per la gloria di Dio, "sia che mangiate, sia che beviate" (Rm 10,31)».

 

c. Fare strada ai poveri.

Prendo a prestito un pensiero di Paola Bignardi, che agli assistenti di Azione Cattolica ha detto:

 

«Aprire ai poveri allora significa anche: adotta un povero, adotta una persona in ricerca, adotta un bambino difficile, adotta una coppia in difficoltà, adotta un gruppetto di studenti o di ragazzi "difficili"».

 

E il Papa qualche tempo fa diceva alla Caritas:

 

«Occorre dar corpo ad un'azione caritativa globalizzata, che sostenga lo sviluppo dei "piccoli" della terra. Vicini ad ogni situazione di povertà, a partire dalle ricorrenti emergenze nazionali e internazionali, voi potete fare in modo che i poveri si sentano, in ogni comunità, come a casa loro... educando non solo i singoli fedeli, ma l'intera comunità a diventare nel suo insieme soggetto di carità, pronta a farsi prossimo di chi è nel bisogno».

 

L'importante è vivere il carisma della povertà evangelica tenendo conto dei tempi: oggi non basta vivere "per" i poveri (spiritualità benedettina) o "come" poveri (spiritualità francescana); occorre anche vivere "con" i poveri...

 

d. Investire in formazione.

La Chiesa in Italia è una delle Chiese che più ha investito in formazione.

Oggi il vero problema non è che "siamo di meno". È vero: siamo meno preti, ma di fatto l'Italia che rappresenta nella scacchiera della cattolicità mondiale l'1,5% ha il 12,5% di operatori pastorali qualificati, comprendendo preti, frati, suore e laici formati.

Dunque, complessivamente, va registrato un di più di "personale", non un deficit.

Il discorso allora è la qualità della formazione: perché sia incisiva ed efficace, occorre non una informazione, ma una "trasformazione".

Per questo è inadeguato il modello-scuola, occorre inventare il modello-laboratorio, secondo la dizione del Papa che ha parlato della parrocchia come "laboratorio della fede".

Concretamente bisogna operare due passaggi:

  • passare da una catechesi riservata ai ragazzi a una evangelizzazione per tutti, privilegiando l'evangelizzazione e la catechesi degli adulti, che però non sia aggiunta a quella dei ragazzi né parallela ma sia intergenerazionale e coinvolga le famiglie;

  • passare da una catechesi per fasce di età a una catechesi intergenerazionale.

Anche l'Azione Cattolica, chiamata dai vescovi ad assicurare una "esemplarità formativa" (CVMC 61) ha molto cammino da fare; i tempi sono cambiati, ma cambia l'ACI? Noi finora abbiamo impostato la formazione per fasce di età, cercando di proporre "itinerari differenziati", ma la "differenza" non è solo quella dell'età. Oggi un trentacinquenne non ha bisogno del gruppo "adulti-giovani" o giovani-adulti", perché nel momento in cui vuole "risvegliare" la sua fede, non gli fa problema stare con un sessantenne purché però si senta intercettato nella sua domanda di fede, e quindi di primo annuncio. Ma per questo ministero di primo annuncio - cito sempre Enzo Biemmi - ci vogliono evangelizzatori prima che catechisti, compagni di viaggio più che insegnanti, tessitori più che "baby-sitter".

 

Santa Maria del terzo millennio

In pastorale non si può mai smettere di sognare... Proviamo allora a sognare una parrocchia "bella e possibile". La chiameremo Santa Maria del terzo millennio...

 

- è una parrocchia che, quando il Papa ha chiuso la porta santa del giubileo, ha continuato a tenere aperta la "Porta santa" del concilio.

Se andiamo a vedere quali siano le comunità monastiche effettivamente "riformate", osserviamo che sono quelle che sono passate per questa porta.

Lo stesso vale per la parrocchia: perché una è viva, un'altra invece vivacchia?

Quello che fa la differenza è se si è passati per la porta santa del Vaticano II.

 

- La parrocchia di S. Maria del terzo millennio è una comunità eucaristica: basta vedere la gente che celebra la messa la domenica, o meglio come esce dalla messa...

La "nostra" bella parrocchia non è aperta solo a quelli che la scelgono, ma è anche la casa di chi non sa di averla.

Ed è una casa a più entrate: ci va il cristiano impegnato, ma anche quello disimpegnato e quando ci va si sente accolto.

Ci va il non cristiano a chiedere soldi e ne esce convinto che lì c'è gente disposta a dargli una mano per cavarsela da solo, ma c'è gente pronta anche a consegnargli un messaggio, il Vangelo, che "se lui vuole e così piace al Signore" può cambiargli la vita.

 

- è una parrocchia con il suo Consiglio pastorale, che non è un parlamentino che scambia la democrazia con le sue caricature, dove si è uniti a priori sull'essenziale e si converge anche nell'opinabile.

 

- è una parrocchia in... concorso - una volta si facevano i concorsi per le parrocchie perché erano più preti che parrocchie, adesso sono più parrocchie che preti: è cioè una comunità che "con-corre", corre insieme con altre (unità pastorale!) purché Cristo venga annunciato.

 

- è una parrocchia con il suo laicato associato, perché è un diritto dei fedeli quello di associarsi.

L'Azione Cattolica sono i laici che dicono al parroco: "Tu sogni una parrocchia viva, missionaria"? Noi - se permetti - ti diamo una mano. E quando il vescovo ti trasferirà, noi non ti verremo appresso, perché noi siamo dedicati a questa comunità".

 

- S. Maria del terzo millennio è una parrocchia con un piano pastorale, dove le cose non si fanno a caso: è un piano pastorale di lungo respiro, non misurato sull'età del parroco, perché è importante che chi arriva dopo di lui si metta a servizio del piano pastorale della comunità, non della sua idea.

 

- è una parrocchia dove il parroco (ma non da solo!) programma la visita pastorale - sì, proprio come la deve fare il vescovo nel territorio della diocesi - a tutta la parrocchia, a tutti gli abitanti battezzati; e almeno a Pasqua si preoccupa di raggiungere - direttamente e indirettamente, opportune et importune - tutte le case e gli ambienti perché a tutti sia annunciato il messaggio pasquale.

 

- è una parrocchia che mette in atto quella pastorale della santità di cui ha parlato il Papa nella Novo millennio (nn. 30s.).

 

Concludo con una citazione che vorrebbe rispondere al grande bisogno di speranza che circola in casa nostra:

 

"Nel momento in cui scende la notte, è necessario - secondo la parabola delle vergini - entrare in un tempo di veglia, ma veglia non significa fuga, significa attesa paziente e attiva dello sposo che viene. Entriamo dunque in questo atteggiamento di veglia. Non tutto è bene nell'Europa occidentale, ma lo sposo viene. Imitiamo le vergini sagge, prendiamo le lampade e dell'olio. L'olio, il contenuto, lo forniranno Dio e il suo Cristo, ma i vasi e le lampade, i contenitori, rappresentano l'apporto degli uomini del nostro tempo, le loro domande e risposte, la loro lingua e cultura. Ci mettono tutto a nostra disposizione, come delle lampade, perché le riempiamo del messaggio di gioia di Cristo. Rendiamo grazie a Cristo, ma anche agli uomini del nostro tempo, questo tempo insieme 'magnifico e drammatico" secondo le parole del testamento di Paolo VI. Davvero tutto questo è così negativo?"

(card. Danneels).

 

[Vi invito a riflettere - alla luce di quanto ci ha detto mons. Lambiasi - durante il deserto (meditazione personale) sulla seguente domanda:

Sono cosciente che essere credente in Cristo Gesù consiste nell’essere un laico dedicato in modo stabile ed organico alla missione della Chiesa nella sua globalità?

Vi invito, inoltre, a rispondere - nell’intimità dell’Adorazione eucaristica - alla seguente domanda:

Sono disposto coscientemente a scegliere di diventare un credente secondo il cuore di Cristo e le indicazioni della Chiesa?]

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