Beati i perseguitati

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Meditazione n. 8

  

«BEATI I PERSEGUITATI PER CAUSA DELLA GIUSTIZIA,

PERCHÉ DI ESSI È IL REGNO DEI CIELI»

 

  

1. Due motivi di persecuzione: la giustizia e il nome di Cristo

La beatitudine dei perseguitati è una delle poche (quattro in tutto) attestate sia da Matteo che da Luca ed è l'unica ad essere seguita da un breve commento dello stesso Gesù.

Uno sguardo sinottico al testo rispettivo di Matteo e di Luca (vedi allegato) aiuterà a capire meglio le riflessioni che seguiranno.

L'elemento che meglio distingue e caratterizza le due versioni è il motivo per cui si è perseguitati:

«a causa del Figlio dell'uomo» per Luca,

«per la giustizia» secondo Matteo.

Nel primo caso, si tratta di un motivo cristologico: beati sono proclamati i discepoli che soffrono per la loro fede in Cristo; lo sfondo è storico: si ha di mira la situazione concreta della Chiesa, che è oggetto di discriminazione e di ostilità da parte del mondo circostante, all'inizio soprattutto giudaico.

Nel secondo caso, il motivo è morale e lo sfondo universale; destinatario della beatitudine non è un gruppo ben preciso («Beati voi...»), ma sono tutti quelli che sono perseguitati per la giustizia.

Resta anche in Matteo la motivazione cristologica («per causa mia»), ma essa assume una portata più ampia.

La giustizia di cui si parla è certamente quella del Vangelo, la giustizia del Regno («Cercate il regno di Dio e la sua giustizia...»), che si esprime in «opere di giustizia» (Matteo 25), ma proprio per questo è una categoria più universale e inclusiva che non la persona storica di Cristo.

 

Possiamo scorgere una certa evoluzione nel modo con cui questa beatitudine è stata interpretata nel corso dei secoli.

Nell'antichità e, in parte, per tutto il medioevo prevaleva il motivo cristologico di Luca; martiri erano considerati soltanto coloro che erano stati perseguitati per la fede in Cristo.

Nell'epoca moderna, soprattutto ai nostri giorni, ha assunto una importanza nuova il motivo morale e universale «per la giustizia». Martiri sono considerati (anche dalla Chiesa ufficiale) non soltanto quelli che vengono messi a morte formalmente per la fede in Cristo, ma anche quelli che danno la vita per amore del prossimo, come san Massimiliano Maria Kolbe; quelli che muoiono per difendere i diritti degli oppressi, come Oscar Romero; quelli che muoiono per difendere la propria purezza, come santa Maria Goretti. La fede in Cristo è il presupposto indispensabile per ogni autentico martirio cristiano, ma non sempre e necessariamente il motivo immediato di esso.

 

 

2. Due forme di persecuzione: l'uccisione e l'emarginazione

La persecuzione dei discepoli di Cristo può assumere due forme diverse che oggi è importante saper riconoscere.

Esse sono descritte in modo paradigmatico e profetico nel capitolo 13 dell'Apocalisse con l'immagine delle due bestie:

la bestia che sale dal mare (Ap 13,1-10)

e la bestia che sale dalla terra (Ap 13,11-18).

 

La bestia che sale dal mare è identificata con il potere politico che si pone al posto di Dio stesso e «fa guerra contro i santi e li vince», condannando alcuni alla prigione, altri alla spada.

La «seconda bestia», quella che sale dalla terra, perseguita anch'essa i santi, ma in modo diverso: in genere, non mette a morte, ma emargina, ostracizza. Il suo compito è di «costringere gli abitanti della terra ad adorare la prima bestia» (Ap 13,11 ss). È un potere di persuasione occulta, una specie di ministero di propaganda del Drago. Spinge ad adorare la prima bestia e ad esserne succubi, inaugurando a tal fine la terribile pratica del marchio sulla mano e sulla fronte, senza il quale non è possibile «comprare o vendere», cioè far parte della società (triste precedente della stella di David imposta agli ebrei dai nazisti). La seconda bestia non usa di preferenza le armi, ma la cultura e l'opinione pubblica.

 

La descrizione dell'Apocalisse ha un'evidente dimensione storica.

La prima bestia viene quasi unanimemente identificata con l'impero romano e i suoi rappresentanti; in particolare con Domiziano, che ha ufficializzato il culto divino dell'imperatore, e Nerone, autore della prima persecuzione ufficiale contro i cristiani.

La seconda bestia sta per l'apparato religioso e culturale che, specie in Asia Minore, si fa promotore dell'ideologia imperiale.

 

Ma la descrizione ha anche una evidente dimensione profetica: traccia il quadro di quella che sarà la condizione dei discepoli dell'Agnello in ogni epoca della storia. È errato cercare per le descrizioni dell'Apocalisse, in particolare per quella delle due bestie, riscontri puntuali in eventi e realtà della storia come spesso si è fatto, traendone conclusioni aberranti. Sarebbe però ugualmente stolto non servirsi di questa denuncia profetica per illuminare le situazioni posteriori della Chiesa e del mondo.

La cosa è particolarmente evidente ai nostri giorni. Caduti i regimi totalitari atei e le dittature militari che incarnavano la prima bestia e hanno fatto tanti martiri nel secolo appena concluso, è la seconda bestia, al presente, al tenere il campo.

Papa Benedetto XVI sembra applicare il paradigma delle due bestie alla situazione attuale quando, nel già ricordato Messaggio per la giornata mondiale della pace del 2007, scrive:

«Vi sono regimi che impongono a tutti un'unica religione, mentre regimi indifferenti alimentano non una persecuzione violenta, ma un sistematico dileggio culturale nei confronti delle credenze religiose» (n. 3).

Non sono certo terminate del tutto le persecuzioni cruente; quasi ogni giorno giungono notizie di cristiani messi a morte o costretti all'esilio da frange estremiste, nei paesi islamici.

Cosa singolare, è stato proprio un giornalista di fede islamica, Magdi Allen, a lanciare recentemente in Italia il movimento «Salviamo i cristiani», per scuotere l'opinione pubblica, stranamente inerte di fronte a questo problema.

Nel nostro mondo occidentale secolarizzato non è, tuttavia, questa la forma abituale che riveste la persecuzione, ma la seconda, quella che si serve dell'opinione, non della spada.

L'esegeta Heinrich Schlier ha fatto un'analisi penetrante di questo fatto, commentando il versetto della Scrittura che parla del «principe delle potenze dell'aria» (Ef 2,2). Egli attira l'attenzione sul ruolo che svolge, a questo proposito, l'opinione pubblica. Lo «spirito del mondo», come lo chiama Paolo (1Cor 2,12), o lo spirito dei tempi, diventa un'atmosfera spirituale attraverso la quale le potenze demoniache agiscono, come da dietro le quinte.

«Si determina uno spirito di grande intensità storica, a cui il singolo difficilmente può sottrarsi. Ci si attiene allo spirito generale, lo si reputa ovvio. Agire o pensare o dire qualcosa contro di esso è considerato cosa insensata o addirittura un'ingiustizia o un delitto. Allora non si osa più porsi di fronte alle cose e alle situazioni e soprattutto alla vita in modo diverso da come esso le presenta. Il dominatore nascosto di questo mondo - nascosto proprio nell'aria spirituale, nell'atmosfera delle varie epoche - fa apparire il mondo e l'esistenza nella sua propria prospettiva».

La qualifica di potenze «dell'aria» è particolarmente pertinente, dal momento che questa ideologia ha oggi il suo veicolo privilegiato nei mezzi di comunicazione di massa che trasmettono i loro messaggi attraverso l'etere: radio, televisione, internet...

Qual è la differenza tra le due forme di persecuzione?

L'ateismo di stato lotta apertamente contro la fede,

il secolarismo tende a farla apparire irrilevante, o addirittura un residuo di stadi superati dalla coscienza umana.

«La fede religiosa - si legge in uno di questi saggi - è inestirpabile, perché siamo creature ancora in evoluzione. Non si estinguerà mai, o almeno non si estinguerà finché non vinceremo la paura della morte, del buio, dell'ignoto e degli altri».

Si prevede che la religione sopravvivrà anche al presente attacco, come è sopravvissuta ad infiniti altri che l'hanno preceduto, e ci si preoccupa di dare una spiegazione di questo fatto imbarazzante, facendo di essa un prodotto provvisorio, legato alla presente condizione dell'uomo, «essere in evoluzione». In questo modo, l'intellettuale ateo assume tacitamente il ruolo di chi ha infranto solitariamente tale legge, anticipando la fine dell'evoluzione e, al pari del Zaratustra nietzschiano, torna sulla terra per illuminare sulla realtà delle cose i poveri mortali.

 

 

3. Che cosa fa il vero martire: l'amore, l'umiltà e la grazia

Non ogni perseguitato rientra nella categoria di coloro che Gesù proclama beati.

La condizione fondamentale è che non ci sia alcuna commistione di ruoli tra perseguitato e persecutore.

Un terribile caso di scambio di ruoli tra perseguitati e persecutori è stato, per esempio, l'atteggiamento dei cristiani verso gli ebrei nel corso dei secoli.

Anche gli ebrei sono stati odiati dagli uomini, messi al bando, insultati e respinti «a causa del Figlio dell'uomo», ma in un senso ben diverso da quello inteso e approvato da Cristo.

Quando la distinzione dei due ruoli viene meno o è offuscata, si hanno i casi aberranti dei martiri suicidi od omicidi: il perseguitato, o uno che si crede tale, si trasforma in persecutore, il martire in carnefice.

Non sta a noi cristiani giudicare la concezione del martirio in atto presso altre religioni, ma dobbiamo dire con chiarezza chi è il vero perseguitato secondo il vangelo.

Gesù ha raccomandato ai suoi discepoli di essere «come agnelli in mezzo a lupi».

Ha detto loro: «Quando vi perseguiteranno in una città fuggite in un'altra» (Mt 10,23).

I Padri hanno fondato su questa parola il rifiuto di ogni atteggiamento di resistenza violenta, difendendo, all'occasione, anche la fuga davanti alla persecuzione.

Una forma di confusione tra i ruoli è anche il martirio-provocazione, in cui è il martire a suscitare la persecuzione con il suo atteggiamento di sfida.

Oggi non troveremmo più accettabile, per esempio, l'agire dei primi martiri francescani che, sbarcati in Marocco, si mettono a predicare la fede in piazza, chiedendo pubblicamente ai saraceni della città, capi e popolo, di abbandonare le loro credenze e convertirsi al cristianesimo.

 

Già san Francesco si rese conto di ciò perché, pur elogiando tali martiri come «veri frati minori» per il loro coraggio e la loro buona fede, egli prospettò un modo diverso di andare verso «i saraceni e gli altri infedeli», oltre a quello di proclamare apertamente la fede cristiana ed esortarli alla conversione quando le circostanze lo permettessero.

Questo secondo modo, spiega nella primitiva regola, consiste «nel non fare liti o dispute, ma nell'essere soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio, pur confessando di essere cristiani».

 

Sollecitato dalla polemica con i Donatisti che giustificavano il martirio-suicidio, sant'Agostino ha riflettuto a lungo sulla vera natura del martirio cristiano giungendo alla conclusione che «non la pena, ma la causa fa il martire».

Da sola, questa massima potrebbe portare, anch'essa, a interpretazioni errate. Tanti sono morti per una causa sbagliata, perfino iniqua, credendola buona. Ecco perché Agostino sente il bisogno di precisare e completare questa definizione. Non basta neppure morire per Cristo, per la fede, se lo si fa senza amore, per polemica contro qualcuno. Richiamandosi al detto di Paolo: «Se anche dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova» (1Cor 13,3), Agostino pone come criterio di riconoscimento del vero martire l'amore, e in particolare, nel caso dei Donatisti scismatici, l'amore per l'unità della Chiesa. È l'amore e il perdono con cui sono morti Cristo, Stefano e tanti altri dopo di loro il segno di riconoscimento del vero martire cristiano.

La massima: «La causa fa il martire» è integrata dall'altra: «La carità fa il martire».

È commovente ritrovare tanti secoli dopo, in quella stessa Africa settentrionale in cui aveva operato Agostino, una delle più luminose testimonianze di questo martirio accompagnato da amore.

Parlo dei sette monaci trappisti trucidati nel maggio del 1996 a Tibhirine, in Algeria, da un gruppo di fondamentalisti islamici.

Pochi giorni prima, quando la tragica fine era una possibilità sempre più incombente, il priore Dom Christian de Chergé aveva scritto un testamento spirituale che resterà come una delle espressioni più sublimi della spiritualità cristiana del martirio:

«Venuto quel momento, vorrei avere quell'attimo di lucidità che mi permettesse di chiedere il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, perdonando con tutto il cuore, nello stesso momento, a chi mi avesse colpito».

Egli non vuole che della eventuale morte, sua e dei confratelli, venga incolpato tutto l'Islam o il popolo algerino; non vuole neppure che la colpa ricada sull'esecutore materiale di essa, «soprattutto se egli dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l'Islam».

E conclude, rivolgendosi direttamente a colui che forse un giorno si troverà davanti con un pugnale:

«E anche a te, amico dell'ultimo istante, che non saprai quello che starai facendo, sì, anche a te io voglio dire questo GRAZIE, e questo AD-DIO, nel cui volto ti contemplo. E che ci sia dato di incontrarci di nuovo, ladroni colmati di gioia, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, Padre di tutti e due. Amen».

Le circostanze porteranno Agostino a mettere in luce una seconda qualità essenziale del martirio cristiano, l'umiltà: si tratta del confronto che egli svolge, nel De civitate Dei, con la cultura pagana che esaltava i propri martiri e suicidi per onore: Lucrezia, Catone, Muzio Scevola, Attilio Regolo.

Secondo Agostino, essi hanno dato prova di orgoglio, non di vera grandezza d'animo. Questa avrebbe dovuto spingerli a sopportare con fortezza d'animo la sventura e anche l'umiliazione, piuttosto che sottrarsi ad esse togliendosi la vita.

L'umiltà dei martiri si manifesta anche nella loro paura e ripugnanza di fronte alla morte: «Sono martiri, ma prima ancora uomini». Siamo lontanissimi dallo spirito del saggio stoico, sicuro che, se anche il mondo intero gli crollasse addosso, egli rimarrebbe impavido tra le rovine.

Il martire cristiano non affronterà mai la prova fidando sulle proprie forze, ma unicamente sulla grazia di Dio.

Nella polemica contro i Pelagiani, la celebre affermazione di Agostino: «La causa fa il martire» si arricchirà di un'altra verità: «La grazia fa il martire».

Alla luce di questi approfondimenti appaiono ingenui e anacronistici certi accostamenti tra gli atteggiamenti del martire e quelli dell'eroe pagano di tanta letteratura martirologica.

Se fosse storica (ma non lo è) la frase: «Questa parte è cotta, volta e mangia», rivolta dal diacono Lorenzo al carnefice dalla graticola ardente, lo accosterebbe più a Muzio Scevola che non a Gesù Cristo.

In questo senso appare profondamente agostiniano e cristiano il modo in cui la preparazione al martirio è presentata da Bernanos nei Dialoghi delle carmelitane e prima di lui da Gertrud von le Fort nel racconto L'ultima al patibolo.

La giovane suor Bianca dell'Agonia di Gesù è presa da terrore davanti alla prospettiva del martirio e fugge separandosi dalle consorelle; all'ultimo momento, però, trova la forza di presentarsi da sola e salire sulla ghigliottina cantando l'ultima strofa del Veni creator.

Come Gesù che agonizza davanti all'imminente passione ed esclama: «Lo spirito è pronto, ma la carne è debole», ma poi dice agli altri risolutamente: «Alzatevi, andiamo» (Mt 26,41.46).

Anche il dramma Assassinio nella cattedrale di Thomas S. Eliot costituisce una splendida riflessione sul martirio cristiano. Per lui l'ultima tentazione che il martire deve affrontare è quella dell'orgoglio. Le insinuazioni del Tentatore a Tommaso Becket sono: «Che cosa può paragonarsi alla gloria dei santi? Quale gloria terrena, di re o imperatore? Cercate la via del martirio, fatevi il più basso in terra, per essere alto nel cielo...». Ma le ultime parole dell'arcivescovo al suo popolo, prima che giungano i sicari del re, sono: «II martirio cristiano non è l'effetto della volontà di un uomo di diventare santo... Un martire, un santo è fatto sempre dal disegno di Dio, per il suo amore per gli uomini... Il martire non desidera più nulla per se stesso, neppure la gloria del martirio».

Il martirio è grazia.

 

4. Perseguitati ingiustamente o giustamente?

Nel suo estesissimo commento alle beatitudini, l'esegeta J. Dupont dà grande rilievo a un inciso che si legge nella versione di Matteo: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia».

Secondo lui l'inciso «mentendo» riflette la preoccupazione dell'evangelista di distinguere la persecuzione ingiusta dalla persecuzione giusta.

Forse spinto dalla sua esperienza ecclesiale, l'evangelista prospetta la possibilità che i cristiani non siano accusati a torto, ma a ragione, non mentendo, ma dicendo il vero.

Non è, del resto, una voce isolata nella Chiesa apostolica.

San Pietro distingueva già tra il soffrire perché cristiano e il soffrire perché «omicida, ladro o malfattore» (lPt 4,15-16), e anche san Paolo esorta spesso i credenti a non dare motivo ai pagani di biasimarli con il loro comportamento.

I primi predicatori cristiani prospettano anch'essi la possibilità che la persecuzione possa essere determinata dalla condotta incoerente dei cristiani, e non da semplice odio del nome.

«Quando i pagani - scriveva un autore anonimo del II secolo - sentono dalla nostra bocca le parole di Dio, ne ammirano la bellezza e la grandezza; ma poi, quando osservano che le nostre opere non corrispondono alle parole che diciamo, cominciano a bestemmiare il nome di Dio».

Mai come in questo caso le beatitudini ci appaiono come l'autoritratto di Gesù, colui nel quale esse si sono pienamente ed esemplarmente compiute.

C'è uno solo, ha scritto il filosofo Kierkegaard, che è stato perseguitato davvero e solo ingiustamente: Gesù Cristo.

Noi tutti quando siamo perseguitati e soffriamo, dobbiamo unirci al buon ladrone sulla croce e dire: «Noi soffriamo giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male» (Lc 23,41).

Se non abbiamo commesso la particolare colpa che ci viene imputata, non siamo mai però del tutto esenti da colpa.

Solo Dio, se soffre, soffre in assoluto da innocente.

Fa forse eccezione la sofferenza dei bambini innocenti, e proprio per questo facciamo tanto fatica ad accettarla.

Essa fa massa con quella dell'Agnello senza macchia ed è l'unico pensiero che può salvare il credente dalla disperazione.

Tutto ciò deve aiutare i credenti a non cadere in inutili complessi di persecuzione di fronte alla crescente ostilità del mondo secolarizzato verso di essi.

Tale ostilità non è mai senza qualche motivo.

Anche oggi, come al tempo dell'anonimo autore della Seconda Lettera di Clemente, molti uomini ammirano la bellezza di Cristo e la verità del vangelo, ma sono scandalizzati dal l'incoerenza di coloro che si professano cristiani.

L'atteggiamento ideale del cristiano nei confronti delle opposizioni del mondo è tracciato da san Paolo quando scrive: «Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo» (1Cor 4,12-13); un programma che l'autore della Lettera a Diogneto vedeva realizzato nei cristiani del suo tempo che, come egli scrive, «amano tutti, e vengono da tutti perseguitati, sono ingiuriati e benedicono».

La beatitudine dei perseguitati per la giustizia non va vissuta, del resto, solo nelle grandi occasioni o nello scontro tra la Chiesa e il mondo, ma anche nelle occasioni quotidiane, nei contrasti e opposizioni che la vita riserva a tutti.

Spesso la «giustizia», cioè il dovere e la coscienza, costringono a dire e fare cose che possono suscitare opposizione intorno a noi, anche nella cerchia più ristretta della propria casa, avverte Gesù: «Si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera» (Lc 12,53).

Anche all'interno della Chiesa.

 

 

5. Prima di scendere dal monte

Giunti alla fine delle nostre riflessioni sulle beatitudini, vorrei soffermarmi ancora un momento e abbracciarle tutte con uno sguardo d'insieme. Tempo fa, il comune di Brescia ha organizzato un ciclo di conferenze pubbliche sulle beatitudini, chiamando a commentarle personaggi della cultura, della finanza e della politica.

A me fu assegnata la beatitudine dei puri di cuore, allo scrittore Erri De Luca la beatitudine dei poveri di spirito.

Egli diede, delle beatitudini, un giudizio che trovo efficacissimo:

«I valori sono rovesciati. La serie successiva delle letizie nuove è messa a contrappunto delle misere gerarchie terrestri. Lieti sono i mansueti, gli affamati, gli assetati di giustizia, i misericordiosi. La novità è uno scardinamento. Queste letizie scottano come un tizzone da afferrare con le mani... Mai sono state così sconvolte le classifiche ufficiali, i ranghi, a opera non di un'insurrezione, ma sotto la spinta di una letizia sconosciuta ai potenti... La sua novità non ha trovato ancora posto in terra».

Ci sarebbe forse qualcosa da precisare circa l'ultima affermazione.

Gesù diceva: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!» (Lc 17,21).

Questo vale in modo particolare per le beatitudini.

Esse si realizzano già, almeno in parte, in questo mondo, ma non nel modo con cui «il mondo» si aspetterebbe. Non si contano i cuori umani che, già in questa vita, hanno sperimentato la felicità promessa da Cristo ai poveri, ai miti, ai puri di cuore.

Fin d'ora - fa notare san Tommaso d'Aquino - gli afflitti sono consolati dallo Spirito Santo che è chiamato Paraclito, cioè consolatore; gli affamati sono saziati con il pane della vita, i misericordiosi ricevono misericordia, quelli che si purificano dal male vedono in qualche modo Dio e quelli che dominano i moti dell'ira sono chiamati figli di Dio.

Ma questo non dà ragione di tutto; è un compimento riservato a pochi, che lascia insoddisfatti quelli che si affliggono per la povertà, la fame e le ingiustizie subite da intere masse umane.

In questo senso si comprende l'esclamazione dell'amico De Luca: «La novità delle beatitudini non ha ancora trovato posto in terra».

Verrebbe da esclamare, a proposito delle beatitudini, ciò che la Giovanna d'Arco di Péguy dice commentando il Padre nostro: «Padre nostro, come è lontano il tuo regno dall'arrivare. Come è lontana la tua volontà dall'essere fatta!». Come sono lontani, o Dio, gli affamati dall'essere saziati, gli afflitti dall'essere consolati, i miti dal possedere la terra!

La soluzione sta altrove.

Per capire le beatitudini, bisogna partire dall'apodosi, cioè dalla promessa legata a ognuna di esse.

Questa è quasi sempre al futuro, rimanda a un'altra esistenza: Beati gli afflitti «perché saranno consolati», i miti «perché erediteranno la terra», gli affamati «perché saranno saziati», i misericordiosi «perché troveranno misericordia», i puri di cuore «perché vedranno Dio», gli operatori di pace «perché saranno chiamati figli di Dio» e, infine, i perseguitati per la giustizia «perché di essi è il regno dei cieli».

L'ostacolo maggiore alla comprensione delle beatitudini, come della fede in genere, dipende dalla caduta dell'orizzonte dell'eternità.

Sulla parola «eternità» è caduto dapprima il sospetto marxista secondo cui essa aliena dall'impegno storico per trasformare il mondo e migliorare la vita presente, è un'evasione dalla realtà.

Il materialismo e il consumismo dilagante hanno fatto il resto, facendo apparire perfino strano e quasi sconveniente che si parli ancora di eternità tra persone "moderne", al passo coi tempi.

Eppure sotto questa coltre di oblio c'è in tutti una segreta nostalgia di eternità.

L'uomo, dicono i filosofi, è «un essere finito, capace di infinito», e, proprio per questo, perché capace di infinito, desideroso di esso, bisognoso di esso.

Alcuni non credenti ritengono presuntuoso aspettarsi una vita eterna; dicono: bisogna accontentarsi di questa vita e lasciare serenamente il mondo ai figli e a coloro che verranno dopo di noi. Io non metto in dubbio la loro sincerità, ma faccio difficoltà a credere che questo pensiero li renda davvero contenti e soddisfatti.

Il filosofo Miguel de Unamuno (che pure era un pensatore "laico") rispondeva in questi termini a un amico che gli rimproverava, quasi fosse orgoglio e presunzione, la sua ricerca di eternità:

«Non dico che meritiamo un aldilà, né che la logica ce lo dimostri, dico che ne abbiamo bisogno, lo meritiamo o no, e basta. Dico che ciò che passa non mi soddisfa, che ho sete d'eternità, e che senza questa tutto mi è indifferente. Senza di essa non c'è più gioia di vivere... è troppo facile affermare: "Bisogna vivere, bisogna accontentarsi di questa vita". E quelli che non se ne accontentano?».

Non è chi desidera l'eternità, aggiungeva lo stesso pensatore, che mostra di non amare la vita, ma chi non la desidera, visto che si rassegna così facilmente al pensiero che essa debba finire.

Sant'Agostino aveva espresso lo stesso pensiero quando scriveva: «A che serve vivere bene, se non ci è dato di vivere sempre?».

Se si nega l'eterno nell'uomo, allora si deve esclamare subito, come fece il Macbeth di Shakespeare dopo aver ucciso il re: «Non vi è più nulla di serio nella vita mortale, tutto è gioco: la gloria e l'onore sono morti; il vino della vita è versato».

Ogni anno si tiene a Rimini un incontro nazionale del movimento del Rinnovamento nello Spirito al quale sono invitato spesso a parlare.

Un anno mi sentii ispirato a parlare dell'eternità e lo feci, credo, con grande convinzione ed entusiasmo. Volevo risuscitare questa parola morta e ogni tanto invitavo la folla (c'erano oltre 50.000 persone) a ripetere con me il grido: «Eternità, eternità!». Sembrava di essere sulla caravella di Cristoforo Colombo quando - dopo che ogni speranza stava per essere abbandonata - si udì un mattino la sentinella gridare: «Terra, terra!».

Fu tale l'entusiasmo che in seguito a ciò qualcuno fece stampare degli sticker, gli adesivi che si mettono sui vetri delle auto. Su uno c'era una «I», che in inglese significa «io», con un cuore rosso che sta per «amo» seguito dalla parola eternity, «eternità»; su un altro c'era il verso del poeta credente: «Tutto tranne l'eterno al mondo è vano».

È vero che «la verità delle beatitudini non ha trovato ancora posto in terra», almeno non come noi vorremmo, ma Gesù non le ha pronunciate invano se esse ci aiutano a tener desto, nel tempo, l'anelito all'eternità.

 

  

 

PER UN ESAME DI COSCIENZA BASATO SULLE BEATITUDINI

 

«Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli».

Sono pronto a soffrire qualcosa in silenzio per il vangelo?

Come reagisco davanti a qualche torto o sgarbo che ricevo?

Partecipo intimamente alle sofferenze dei tanti fratelli che soffrono davvero per la fede, o per la giustizia sociale e la libertà?

 

 

 

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