Meditazione n. 6
«BEATI I
PURI DI CUORE,
PERCHÉ
VEDRANNO DIO»
1. Dalla
purità rituale alla purità di cuore
Chiunque legge
o sente proclamare oggi: «Beati i
puri di cuore
perché vedranno Dio», pensa istintivamente
alla virtù della purezza, quasi che la beatitudine
sia l'equivalente positivo e
interiorizzato del sesto comandamento:
«Non commettere atti impuri».
Questa
interpretazione, avanzata sporadicamente nel corso
della storia della spiritualità
cristiana, è divenuta predominante a partire dal secolo XIX.
In realtà, la purezza del cuore non indica, nel pensiero di Cristo, una virtù
particolare, ma una qualità che deve accompagnare tutte le virtù, perché esse
siano davvero virtù e
non invece "splendidi vizi".
Il suo
contrario più diretto
non è l'impurità, ma l'ipocrisia.
Un po' di
esegesi e
di storia ci aiuteranno a capire meglio.
Dal contesto
del discorso della montagna, si desume
chiaramente cosa intende Gesù per «purezza
di cuore».
Secondo il
Vangelo, quello che decide
della purezza o
impurità di un'azione - sia essa
l'elemosina,
il digiuno o la preghiera - è l'intenzione:
cioè se è fatta
per essere visti dagli uomini, o per
piacere a Dio:
«Quando dunque
fai l'elemosina, non suonare la
tromba davanti
a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati
dagli uomini. In verità
vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Quando
invece tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra
ciò che fa la
tua destra, perché la tua elemosina resti segreta;
e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,2-6).
L'ipocrisia è
il peccato denunciato con più forza da
Dio lungo tutta la Bibbia e il motivo di ciò è chiaro.
Con essa l'uomo declassa Dio, lo mette al
secondo posto, collocando al primo
posto le creature, il pubblico.
«L'uomo guarda l'apparenza, il Signore
guarda il cuore» (1Sam 16,7): coltivare l'apparenza più che il
cuore, significa dare più importanza all'uomo
che a Dio.
L'ipocrisia è
dunque essenzialmente mancanza
di fede; ma è
anche mancanza di carità verso il prossimo,
nel senso che tende a ridurre le persone ad ammiratori.
Non riconosce loro una dignità
propria, ma li vede
solo in funzione della propria immagine.
Il giudizio di
Cristo sull'ipocrisia è senza appello:
«Hanno già
ricevuto la
loro ricompensa!».
Una
ricompensa, oltretutto, illusoria
anche sul piano umano, perché la gloria, si sa, fugge
chi la insegue e insegue chi la fugge.
Aiutano a
capire il senso della beatitudine dei puri
di cuore anche
le invettive che Gesù pronuncia nei
confronti di
scribi e farisei.
Esse sono
tutte incentrate
sull'opposizione tra il "di dentro" e il "di fuori", l'interiore e l'esteriore
dell'uomo:
«Guai a voi,
scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate
a sepolcri
imbiancati: essi all'esterno sono belli a vedersi,
ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume.
Così anche voi apparite giusti all'esterno davanti
agli uomini, ma
dentro siete pieni d'ipocrisia e d'iniquità»
(Mt 23,27-28).
La rivoluzione
realizzata in questo campo da Gesù
è di una
portata incalcolabile.
Oggi si tende
a non esagerare il
contrasto tra Gesù e i farisei, facendo notare le convergenze che ci sono tra
loro nel modo di rapportarsi
alla legge mosaica.
È certo, però,
che prima
di Cristo, eccetto qualche accenno nei profeti e nei
salmi
(Sal 24,3: «Chi salirà il monte del Signore? Chi
ha mani innocenti e cuore puro»), la
purità era intesa prevalentemente in senso
rituale e cultuale; consisteva nel tenersi lontani da cose, animali,
persone o luoghi ritenuti capaci di contagiare negativamente e di separare dalla
santità di Dio.
Rientra in questo ambito soprattutto
ciò che è legato alla nascita, alla morte, all'alimentazione, alla
sessualità.
In forme e con presupposti diversi, lo
stesso avveniva, del resto, in altre religioni,
fuori della Bibbia.
Gesù fa piazza
pulita di tutti questi tabù.
Anzitutto
con i gesti che compie: mangia con i peccatori, tocca i
lebbrosi,
frequenta i pagani: tutte cose ritenute altamente
inquinanti; poi con gli insegnamenti che impartisce.
La solennità
con cui introduce il suo discorso
sul puro e l'impuro fa capire come fosse consapevole
egli stesso della novità del suo insegnamento:
«Chiamata di
nuovo la folla, diceva loro: Ascoltatemi
tutti e
intendete bene: non
c'è
nulla fuori dell'uomo
che, entrando
in lui, possa contaminarlo; sono invece le
cose che escono
dall'uomo a contaminarlo... Dal di
dentro infatti,
cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni
cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultéri,
cupidigie,
malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia,
superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e
contaminano l'uomo»
(Mc
7.14-15.21-23).
«Dichiarava così puri tutti gli
alimenti», nota quasi
con stupore l'evangelista (Mc 7,19).
Contro il
tentativo di alcuni giudeo-cristiani di ripristinare la distinzione
tra puro e impuro nei cibi e in altri settori della
vita, la chiesa apostolica ribadirà con
forza: «Tutto è puro per chi è puro» (Tt 1,15; cfr. Rm 14,20).
La purezza,
intesa nel senso di continenza e castità, non è assente dalla beatitudine
evangelica (tra le cose
che inquinano il
cuore Gesù pone anche, abbiamo
sentito, «fornicazioni, adultéri e impudicizia»); vi occupa
però un posto limitato e, per così dire, "secondario".
È un ambito
accanto ad altri in cui viene messo
in rilievo il
posto decisivo che occupa il «cuore», come
quando dice che «chiunque guarda una donna per
desiderarla, ha già commesso adulterio con
lei nel suo
cuore» (Mt 5,28).
In realtà, i
termini «puro» e «purezza» (katharos,
katharotes)
non sono usati mai nel Nuovo Testamento per indicare quello che
con essi intendiamo noi oggi e
cioè l'assenza di peccati della carne.
Per questo vengono
usati altri termini: dominio di sé (enkrateia), temperanza
(sophrosyne), castità (hagneia).
Da quanto
detto, appare chiaro, come sempre, che il
puro di cuore
per eccellenza è Gesù stesso.
Di lui, i
suoi stessi avversari
sono costretti a dire: «Sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno;
infatti non guardi in
faccia agli uomini, ma secondo verità inse gni
la via di Dio» (Mc 12,14).
Gesù poteva
dire di sé: «Io non cerco la mia gloria» (Gv 8,50).
2. Uno
sguardo alla storia
Nell'esegesi dei Padri vediamo
delinearsi ben presto le tre direzioni fondamentali in cui la beatitudine
dei puri di cuore verrà recepita e
interpretata nella storia della
spiritualità cristiana: quella morale, quella
mistica e quella ascetica.
L'interpretazione morale pone
l'accento sulla rettitudine di intenzione,
l'interpretazione
mistica sulla visione di Dio,
quella ascetica
sulla lotta contro le
passioni della carne.
Le vediamo
esemplificate, rispettivamente, in Agostino, Gregorio
di Nissa e
Giovanni Crisostomo.
Attenendosi
fedelmente al contesto evangelico,
Agostino interpreta la beatitudine in chiave morale,
come rifiuto di «praticare la giustizia davanti agli uomini
per essere da loro ammirati» (Mt 6,1), quindi come semplicità e
schiettezza che si oppone all'ipocrisia.
«Ha il cuore
semplice, cioè puro - scrive - soltanto
chi supera le lodi umane e nel vivere è attento e
cerca di
essere gradito soltanto a colui che solo scruta
la coscienza».
Il fattore che
decide della purezza o meno del cuore
è qui l'intenzione.
«Tutte le nostre azioni sono oneste
e gradite alla presenza di Dio, se sono
compiute con il cuore schietto, ossia
con l'intenzione verso l'alto nella
finalità dell'amore... Quindi non si deve considerare tanto l'azione che si
compie, quanto l'intenzione con
cui si compie».
Questo modello
interpretativo che fa
leva
sull'intenzione rimarrà operante in tutta la tradizione
spirituale posteriore, specialmente ignaziana.
L'interpretazione mistica,
che ha in
Gregorio di
Nissa il suo iniziatore, interpreta la beatitudine in funzione
della contemplazione.
Bisogna
purificare il proprio
cuore da ogni legame con il mondo e con il male;
in questo modo il cuore dell'uomo
tornerà ad essere quella pura e limpida
immagine di Dio che era all'inizio e nella propria anima, come in uno
specchio, la creatura
potrà «vedere Dio».
«Se, con un
tenore di vita
diligente e attento, laverai le brutture che si sono
depositate sul
tuo cuore, risplenderà in te la divina
bellezza...
Contemplando te stesso, vedrai in te colui
che è il
desiderio del tuo cuore e sarai beato».
Qui il peso è
tutto sull'apodosi, sul frutto promesso alla beatitudine;
avere il cuore puro è il mezzo; il fine è «vedere
Dio».
Si nota, a
livello di linguaggio, un influsso
della
speculazione di Plotino, che diviene ancora più
scoperto in san
Basilio.
Anche questa
linea interpretativa avrà un seguito in tutta la storia successiva della
spiritualità cristiana che
passa per san
Bernardo, san Bonaventura e i mistici
renani.
In alcuni
ambienti monastici, si aggiunge però
un'idea nuova e interessante: quella della purezza
come
unificazione interiore che si ottiene volendo una
cosa sola,
quando questa «cosa» è Dio.
Scrive san
Bernardo: «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio.
Come se dicesse:
purifica il cuore, separati da tutto,
sii monaco cioè
solo, cerca una cosa sola dal Signore
e questa
persegui (cfr. Sal 27,4), liberati da tutto e vedrai
Dio (cfr. Sal 46,11)».
Abbastanza
isolata è invece, nei Padri e negli autori medievali, l’interpretazione
ascetica in funzione della
castità che
diverrà predominante, dicevo, dal secolo
XIX in poi.
Il Crisostomo ce
ne fornisce l'esempio
più chiaro:
«Beati i
puri di cuore perché vedranno Dio.
Chiama puri di
cuore quelli che possiedono la virtù in generale,
che non hanno
coscienza alcuna di peccato e vivono in castità. Nulla infatti c'è di più
necessario per vedere Dio
di questa
virtù».
Ponendosi in
questa stessa linea, il mistico Ruusbroec
distingue una castità dello spirito, una castità
del cuore e
una castità del corpo.
Riferisce la
beatitudine evangelica alla castità del cuore.
«Essa - scrive
- tiene raccolti e
rafforza i sensi esterni, mentre, all'interno,
frena e doma gli istinti brutali... chiude il cuore
alle cose terrene e ai fallaci allettamenti,
mentre lo apre
alle cose celesti e alla verità».
Con gradi
diversi di fedeltà, tutte queste interpretazioni
ortodosse rimangono dentro l'orizzonte nuovo
della
rivoluzione operata da Gesù che riconduce ogni discorso morale al cuore.
Paradossalmente, quelli che
hanno tradito
la beatitudine evangelica dei puri (katharoi)
di cuore sono proprio quelli che hanno preso il
nome da essa:
i catari, con tutti i movimenti affini che
li hanno
preceduti e seguiti nella storia del cristianesimo.
Essi ricadono
nella categoria di coloro che fanno
consistere la purità nell'essere separati, ritualmente e
socialmente, da persone e
cose giudicate in se stesse impure, in una purità più esteriore che interiore.
3. «L'uomo
ha due vite»
Abbiamo visto
che nel pensiero di Cristo la purezza
di cuore non si
oppone primariamente all'impurità,
ma all'ipocrisia, e quello dell'ipocrisia è il vizio umano
forse più diffuso e meno confessato.
L'uomo - ha
scritto Pascal - ha due vite: una è la vita vera, l'altra
quella
immaginaria che vive nell'opinione, sua o della
gente. Noi
lavoriamo senza posa ad abbellire e conservare
il nostro essere immaginario e trascuriamo
quello vero.
Se possediamo qualche virtù o merito, ci
diamo premura
di farlo sapere, in un modo o in un altro,
per arricchire di tale virtù o merito il nostro essere
immaginario,
disposti perfino a farne a meno noi, per
aggiungere
qualcosa a lui, fino a consentire, talvolta,
a essere
vigliacchi, pur di sembrare valorosi e a dare
anche la vita,
purché la gente ne parli.
La tendenza
messa in luce da Pascal è accresciuta
enormemente
dalla cultura attuale dominata dai mass
media, film,
televisione e mondo dello spettacolo in genere.
Cartesio ha
detto: «Penso, dunque sono»; ma
oggi si tende a sostituirlo con: «Appaio, dunque sono».
All'origine, il
termine ipocrisia era riservato all'arte
teatrale.
Significava
semplicemente recitare,
rappresentare
sulla scena.
Sant'Agostino lo
ricorda nel suo commento
alla beatitudine dei puri di cuori.
«Gli ipocriti -
scrive - sono operatori di finzioni sul
tipo dei presentatori dell'altrui
personalità nelle rappresentazioni
teatrali».
Ormai tutto è
fiction, finzione,
sui nostri teleschermi, anche i notiziari.
L'origine del
termine ci mette sulle tracce per scoprire
la natura dell'ipocrisia. Essa è fare della vita un
teatro in cui si recita per un pubblico; è
indossare una maschera, cessare di
essere persona e diventare personaggio.
Ho letto da
qualche parte questa caratterizzazione delle due cose:
«Il
personaggio non è altro che la corruzione della persona.
La persona è
un volto, il personaggio una maschera.
La persona è
nudità radicale, il personaggio è tutto abbigliamento.
La persona
ama l'autenticità e l'essenzialità, il personaggio vive
di finzione e
di artifici.
La persona
ubbidisce alle proprie
convinzioni, il personaggio ubbidisce a un copione.
La persona è
umile e leggera, il personaggio è pesante ed ingombrante».
Ma la finzione
teatrale è una ipocrisia innocente
perché
mantiene pur sempre la distinzione tra il palcoscenico
e la vita. Nessuno che assiste alla rappresentazione
dell'Agamennone (è l'esempio addotto da
Agostino) pensa che l'attore sia veramente Agamennone.
Il fatto nuovo
e inquietante di oggi è che si tende
ad annullare anche questo divario, trasformando la
vita stessa in uno spettacolo.
È quello che pretendono
i cosiddetti reality shows, che
dilagano ormai sulle reti
televisive di tutto il mondo.
Secondo il
filosofo
francese Jean Baudrillard è divenuto difficile ormai
distinguere gli avvenimenti reali (11 Settembre, guerra
del Golfo) dalla loro rappresentazione mediatica.
Realtà e
virtualità si confondono.
Il richiamo all'interiorità che
caratterizza la nostra beatitudine e tutto
il discorso della montagna è un invito a non lasciarci travolgere da questa
tendenza che tende a svuotare la persona, riducendola a immagine,
o, peggio, a simulacro. Kierkegaard ha messo
in luce l'alienazione che risulta dal vivere di pura esteriorità,
sempre e solo al cospetto
degli uomini, e mai soli al cospetto di Dio e del proprio io.
Un mandriano -
osserva
- può essere un «io» di fronte alle sue vacche,
se vivendo
sempre con loro non ha che quelle con cui
commisurarsi.
Un re può
essere un io di fronte ai sudditi
e si sentirà un «io» importante.
Il bambino si coglie come un «io» in rapporto ai genitori, un cittadino
di fronte allo Stato... Ma sarà sempre un «io» imperfetto, perché manca la
misura.
«Che realtà
infinita acquista invece il mio "io", quando prende coscienza di esistere
davanti a Dio, diventando un "io" umano la cui misura è Dio... Che accento infinito
cade sull’"io" nel momento in cui ottiene come
misura Dio!».
Sembra un
commento al detto di san Francesco
d'Assisi:
«Quello che
l'uomo è davanti a Dio, quello
è e nulla
più».
4. Una
forma di ipocrisia collettiva
Si mette
spesso in rilievo la portata sociale e culturale
di alcune beatitudini.
Non è raro leggere: «Beati
gli operatori di pace» negli striscioni che
accompagnano i cortei dei pacifisti,
e la beatitudine dei miti è
giustamente invocata in favore del principio della non
violenza.
Mai però si
parla della rilevanza sociale della
beatitudine dei puri di cuore che sembra riservata esclusivamente all'ambito
personale.
Io sono
convinto, invece, che questa beatitudine può esercitare oggi una funzione
critica tra le più necessarie nella nostra
società.
Ci sono
ipocrisie individuali e ipocrisie collettive.
Io vorrei mettere in luce una forma di
ipocrisia collettiva nella quale siamo immersi fino al collo.
Contrariamente
al significato ordinario della parola, si
tratta di una ipocrisia che non consiste nel coprire,
ma nello scoprire, non nel nascondere, ma nel
mostrare.
Parlo
dell'esibizionismo del corpo umano,
specie della donna, spacciato come arte, come piacere
estetico e come superamento dei tabù, mentre (a
differenza di quanto avviene nella vera arte,
per esempio in Botticelli) risponde solo a interessi commerciali
e di audience.
Questo fenomeno
è particolarmente accentuato in
Italia.
Tempo fa su un
prestigioso giornale inglese, il
Financial
Times,
uscì un servizio intitolato «Naked
ambition»,
«L'ambizione nuda». Era una denuncia del
costume
italiano di esibire corpi nudi di donne in tutte le salse e per tutti gli scopi.
Le adolescenti italiane, si
diceva, vogliono fare tutte le "veline". Dove è finito, in
Italia, ci si chiedeva, il movimento femminista che si proponeva di lottare
contro la tendenza maschilista
a ridurre le donne al loro corpo e al loro sesso?
Se a fare
questa denuncia fossero stati i vescovi italiani,
essa sarebbe probabilmente caduta nel vuoto,
ma essendo
stato un prestigioso giornale inglese, si è
assistito a un coro di commenti
autocritici e di consensi
nei maggiori organi di stampa.
L'articolo
dedicato
al problema dal Corriere della Sera terminava
con questa
riflessione: «Il mondo intero ci osserva e
ride, e i
nostri media ignorano il problema, e deve essere
un giornale straniero a ricordarcelo. L'Italia critica spesso il mondo arabo e
musulmano, ma quando si
tratta di
guardare al ruolo delle donne nei media, in
politica, dicono: "Ah no, è un'altra
cosa"».
Sono state
fatte diverse analisi del fenomeno.
Tutti sono
d'accordo nel mettere in luce che la responsabilità
principale è degli uomini che continuano, in tal
modo, a esercitare il proprio potere sulla
donna, facendolo
passare per ammirazione estetica.
Su un altro
grande quotidiano nazionale, La Repubblica, una donna
si lamentava del fatto che, anziché valutarla per le
sue due lauree e la preparazione
professionale di cui aveva dato prova, i
suoi colleghi la valutassero in base a ben altro... Tutto ciò è vero, ma bisogna pure riconoscere
una parte di responsabilità alle stesse donne. Quello che gli uomini
guardano in esse dipende anche da ciò che
esse mostrano di sé agli uomini (negli
ultimi anni, l'ombelico)!
Si realizza la
parola di
Dio a Eva: «Verso tuo marito [il maschio] sarà il tuo
istinto, ed egli ti dominerà» (Gn 3,16).
Siamo davanti
all'ennesima forma di dominio e sfruttamento (purtroppo
consensuale) della donna.
Adesso cerco di
spiegare perché ho definito tutto ciò
un fenomeno di ipocrisia collettiva.
Perché si
ostenta una innocenza e una noncuranza che è tutta
falsa.
Tutti sembrano
ripetere: «Che male c'è?», mentre
si sa bene che il male - la malizia - c'è e come.
Se
l'ipocrisia è nascondere le vere intenzioni dietro false apparenze, questa è
ipocrisia bell'e buona, sia da parte
degli uomini che delle donne.
Si tratta di
ipocrisia anche per un altro verso.
Perché
riduce le ragazze a "veline", a parvenza, a creature
senza un'anima, che valgono solo quello che valgono agli occhi altrui.
La mentalità
che, in questo modo, si
diffonde tra i giovani è micidiale.
Si insinua in loro l'idea che per far
fortuna nella vita non c'è bisogno di applicarsi allo studio, accettare i
sacrifici richiesti per una buona preparazione professionale, studiare le
lingue... Basta, se se ne ha la possibilità, sfruttare il proprio
fisico con un po' di spregiudicatezza.
La vita,
ahimè,
si incaricherà presto di presentare il conto: appena
il loro corpo e la loro giovinezza è sfiorita, molte
ragazze e molti ragazzi si ritrovano
soli e impreparati a fronteggiare la vita.
Drammi di
tutti i giorni.
Un modo concreto per contrastare
questo andazzo c'è: sabotare i prodotti o i
programmi televisivi che vivono di
questo commercio del corpo femminile.
Dare un segnale ai pubblicitari e ai conduttori di talk
shows
che se ne ha abbastanza di questo fenomeno
che ci sta rendendo ridicoli agli
occhi del mondo intero, oltre che,
s'intende, riprovevoli agli occhi di Dio.
Si incoraggia il sabotaggio di industrie che
vendono armi o cibi manipolati, perché non si dovrebbe fare
altrettanto per chi inquina le
fonti stesse della vita? Se non lo facciamo, siamo tutti responsabili.
5.
L'ipocrisia religiosa
La cosa
peggiore che si può fare, parlando di ipocrisia, è quella di servirsene solo per
giudicare gli altri, fosse pure la società, la cultura, il mondo.
è
proprio
a costoro che Gesù applica il titolo di ipocriti:
«Ipocrita, togli prima la trave dal tuo
occhio e poi ci vedrai bene per
togliere la pagliuzza dall'occhio del
tuo fratello!» (Mt 7,5).
Come credenti,
dobbiamo ricordare il detto di un
rabbino ebreo
del tempo di Cristo, secondo cui il 90%
dell'ipocrisia
del mondo si trovava allora a Gerusalemme.
L'ipocrisia
insidia soprattutto le persone pie e religiose, e il motivo di ciò è semplice:
dove più forte è la
stima dei valori dello spirito e della virtù (o dell'ortodossia!), lì è più
forte anche la tentazione di
ostentarli per non sembrarne privi.
A volte è lo
stesso
ufficio che ricopriamo che ci spinge a farlo.
Scrive
sant'Agostino:
«Certi impegni
del consorzio umano ci costringono a
farci amare e temere dagli uomini; quindi l'avversario
della nostra vera felicità incalza e
dissemina ovunque i lacci dei "bravo, bravo", per prenderci a nostra insaputa
mentre li raccogliamo con avidità, per staccare la nostra gioia dalla tua
verità e attaccarla alla menzogna degli
uomini, per farci gustare l'amore e il timore non ottenuti
in tuo nome, ma in tua vece».
L'ipocrisia più
perniciosa sarebbe nascondere... la
propria
ipocrisia.
In nessuno
schema di esame di coscienza
io ricordo di aver trovato la domanda: «Sono
stato
ipocrita? Mi sono preoccupato dello sguardo degli uomini su di me, più che di
quello di Dio?».
A un
certo
punto della vita, io ho dovuto introdurre per conto mio queste domande nel mio
esame di coscienza e
raramente ho
potuto passare indenne alla domanda
successiva...
Un giorno,
come brano evangelico della Messa c'era la parabola dei talenti.
Ascoltandolo,
ho
capito di colpo una cosa.
Tra il far
fruttare i talenti e il
non farli
fruttare c'è di mezzo una terza possibilità:
quella di farli
fruttare, sì, ma per se stessi, non per il
padrone, per la propria gloria o il
proprio tornaconto, e questo è un peccato di
ipocrisia forse più grave che
seppellirli.
Quel giorno, al
momento della comunione,
ho dovuto fare
come certi ladri sorpresi in flagrante
che, pieni di
vergogna, svuotano le tasche e gettano ai piedi del proprietario ciò che gli
hanno sottratto.
Gesù ci ha
lasciato un mezzo semplice e insuperabile
per rettificare più volte al giorno le nostre intenzioni;
sono le prime tre domande del Padre nostro:
«Sia
santificato il tuo nome.
Venga il tuo
regno.
Sia
fatta
la tua volontà».
Esse possono
essere recitate come
preghiere, ma anche come dichiarazione di intenzione:
tutto quello che faccio, voglio farlo perché sia santificato il tuo nome, perché
venga il tuo regno e
perché sia
fatta la tua volontà.
Sarebbe un contributo prezioso per la
società e per la comunità cristiana se la
beatitudine dei puri di cuori ci
aiutasse a mantenere desta in noi la nostalgia di un
mondo pulito, sincero, senza ipocrisia, né
collettiva né privata, né religiosa
né laica; un mondo in cui le azioni corrispondono alle parole, le parole
ai pensieri e i
pensieri dell'uomo a quelli di Dio.
Questo non avverrà pienamente che
nella Gerusalemme
celeste, la città tutta di cristallo, ma dobbiamo almeno tendere a ciò.
Una scrittrice
di favole ha scritto
un racconto intitolato Il paese di vetro.
Parla di un
personaggio che finisce, per magia, in un paese tutto
di vetro: case
di vetro, uccelli di vetro, alberi di vetro, persone che si muovono come
graziose statuine di vetro.
Eppure nulla è andato mai in frantumi, perché tutti
hanno imparato a muoversi in esso con delicatezza
per non farsi
del male. Le persone, incontrandosi, rispondono
alle domande prima che esse siano formulate,
perché anche i pensieri sono diventati aperti e trasparenti;
nessuno cerca più di mentire, sapendo che
tutti possono
leggere quello che si ha in mente.
Vengono i
brividi solo a pensare cosa succederebbe se questo avvenisse già ora, nei
rapporti umani; ma è
salutare
almeno proporcelo come ideale.
È il cammino
che porta alla beatitudine che abbiamo cercato di commentare: «Beati i puri di
cuore, perché vedranno
Dio».
PER UN ESAME
DI COSCIENZA BASATO SULLE BEATITUDINI
«Beati i
puri di cuore, perché vedranno Dio».
Io sono
puro di cuore?
Puro nelle
intenzioni. Dico: sì, sì,
no, no, come
Gesù?
C'è una purezza
del cuore, una
purezza delle labbra, una purezza degli occhi, una purezza
del corpo... Cerco di coltivare tutte queste purezze
così necessarie specialmente alle anime consacrate?
L'opposto più
diretto della purezza di cuore è
l'ipocrisia. Io,
a chi mi sforzo di piacere nelle mie
azioni: a Dio
o agli uomini?
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