Beati i puri

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Meditazione n. 6

«BEATI I PURI DI CUORE,

PERCHÉ VEDRANNO DIO»

  

1. Dalla purità rituale alla purità di cuore

Chiunque legge o sente proclamare oggi: «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio», pensa istintivamente alla virtù della purezza, quasi che la beatitudine sia l'equivalente positivo e interiorizzato del sesto comandamento: «Non commettere atti impuri».

Questa interpretazione, avanzata sporadicamente nel corso della storia della spiritualità cristiana, è divenuta predominante a partire dal secolo XIX.

In realtà, la purezza del cuore non indica, nel pensiero di Cristo, una virtù particolare, ma una qualità che deve accompagnare tutte le virtù, perché esse siano davvero virtù e non invece "splendidi vizi".

Il suo contrario più diretto non è l'impurità, ma l'ipocrisia.

 

Un po' di esegesi e di storia ci aiuteranno a capire meglio.

Dal contesto del discorso della montagna, si desume chiaramente cosa intende Gesù per «purezza di cuore».

Secondo il Vangelo, quello che decide della purezza o impurità di un'azione - sia essa l'elemosina, il digiuno o la preghiera - è l'intenzione: cioè se è fatta per essere visti dagli uomini, o per piacere a Dio:

«Quando dunque fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Quando invece tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,2-6).

L'ipocrisia è il peccato denunciato con più forza da Dio lungo tutta la Bibbia e il motivo di ciò è chiaro. Con essa l'uomo declassa Dio, lo mette al secondo posto, collocando al primo posto le creature, il pubblico.

«L'uomo guarda l'apparenza, il Signore guarda il cuore» (1Sam 16,7): coltivare l'apparenza più che il cuore, significa dare più importanza all'uomo che a Dio.

L'ipocrisia è dunque essenzialmente mancanza di fede; ma è anche mancanza di carità verso il prossimo, nel senso che tende a ridurre le persone ad ammiratori.

Non riconosce loro una dignità propria, ma li vede solo in funzione della propria immagine.

Il giudizio di Cristo sull'ipocrisia è senza appello: «Hanno già ricevuto la loro ricompensa!».

Una ricompensa, oltretutto, illusoria anche sul piano umano, perché la gloria, si sa, fugge chi la insegue e insegue chi la fugge.

 

Aiutano a capire il senso della beatitudine dei puri di cuore anche le invettive che Gesù pronuncia nei confronti di scribi e farisei.

Esse sono tutte incentrate sull'opposizione tra il "di dentro" e il "di fuori", l'interiore e l'esteriore dell'uomo:

«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all'esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d'ipocrisia e d'iniquità» (Mt 23,27-28).

La rivoluzione realizzata in questo campo da Gesù è di una portata incalcolabile.

Oggi si tende a non esagerare il contrasto tra Gesù e i farisei, facendo notare le convergenze che ci sono tra loro nel modo di rapportarsi alla legge mosaica.

È certo, però, che prima di Cristo, eccetto qualche accenno nei profeti e nei salmi (Sal 24,3: «Chi salirà il monte del Signore? Chi ha mani innocenti e cuore puro»), la purità era intesa prevalentemente in senso rituale e cultuale; consisteva nel tenersi lontani da cose, animali, persone o luoghi ritenuti capaci di contagiare negativamente e di separare dalla santità di Dio.

Rientra in questo ambito soprattutto ciò che è legato alla nascita, alla morte, all'alimentazione, alla sessualità.

In forme e con presupposti diversi, lo stesso avveniva, del resto, in altre religioni, fuori della Bibbia.

Gesù fa piazza pulita di tutti questi tabù.

Anzitutto con i gesti che compie: mangia con i peccatori, tocca i lebbrosi, frequenta i pagani: tutte cose ritenute altamente inquinanti; poi con gli insegnamenti che impartisce.

La solennità con cui introduce il suo discorso sul puro e l'impuro fa capire come fosse consapevole egli stesso della novità del suo insegnamento:

«Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c'è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall'uomo a contaminarlo... Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultéri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo» (Mc 7.14-15.21-23).

«Dichiarava così puri tutti gli alimenti», nota quasi con stupore l'evangelista (Mc 7,19).

Contro il tentativo di alcuni giudeo-cristiani di ripristinare la distinzione tra puro e impuro nei cibi e in altri settori della vita, la chiesa apostolica ribadirà con forza: «Tutto è puro per chi è puro» (Tt 1,15; cfr. Rm 14,20).

La purezza, intesa nel senso di continenza e castità, non è assente dalla beatitudine evangelica (tra le cose che inquinano il cuore Gesù pone anche, abbiamo sentito, «fornicazioni, adultéri e impudicizia»); vi occupa però un posto limitato e, per così dire, "secondario".

È un ambito accanto ad altri in cui viene messo in rilievo il posto decisivo che occupa il «cuore», come quando dice che «chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,28).

In realtà, i termini «puro» e «purezza» (katharos, katharotes) non sono usati mai nel Nuovo Testamento per indicare quello che con essi intendiamo noi oggi e cioè l'assenza di peccati della carne.

Per questo vengono usati altri termini: dominio di sé (enkrateia), temperanza (sophrosyne), castità (hagneia).

Da quanto detto, appare chiaro, come sempre, che il puro di cuore per eccellenza è Gesù stesso.

Di lui, i suoi stessi avversari sono costretti a dire: «Sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno; infatti non guardi in faccia agli uomini, ma secondo verità insegni la via di Dio» (Mc 12,14).

Gesù poteva dire di sé: «Io non cerco la mia gloria» (Gv 8,50).

 

 

2. Uno sguardo alla storia

Nell'esegesi dei Padri vediamo delinearsi ben presto le tre direzioni fondamentali in cui la beatitudine dei puri di cuore verrà recepita e interpretata nella storia della spiritualità cristiana: quella morale, quella mistica e quella ascetica.

L'interpretazione morale pone l'accento sulla rettitudine di intenzione,

l'interpretazione mistica sulla visione di Dio,

quella ascetica sulla lotta contro le passioni della carne.

 

Le vediamo esemplificate, rispettivamente, in Agostino, Gregorio di Nissa e Giovanni Crisostomo.

 

Attenendosi fedelmente al contesto evangelico, Agostino interpreta la beatitudine in chiave morale, come rifiuto di «praticare la giustizia davanti agli uomini per essere da loro ammirati» (Mt 6,1), quindi come semplicità e schiettezza che si oppone all'ipocrisia.

«Ha il cuore semplice, cioè puro - scrive - soltanto chi supera le lodi umane e nel vivere è attento e cerca di essere gradito soltanto a colui che solo scruta la coscienza».

Il fattore che decide della purezza o meno del cuore è qui l'intenzione.

«Tutte le nostre azioni sono oneste e gradite alla presenza di Dio, se sono compiute con il cuore schietto, ossia con l'intenzione verso l'alto nella finalità dell'amore... Quindi non si deve considerare tanto l'azione che si compie, quanto l'intenzione con cui si compie».

Questo modello interpretativo che fa leva sull'intenzione rimarrà operante in tutta la tradizione spirituale posteriore, specialmente ignaziana.

 

L'interpretazione mistica, che ha in Gregorio di Nissa il suo iniziatore, interpreta la beatitudine in funzione della contemplazione.

Bisogna purificare il proprio cuore da ogni legame con il mondo e con il male; in questo modo il cuore dell'uomo tornerà ad essere quella pura e limpida immagine di Dio che era all'inizio e nella propria anima, come in uno specchio, la creatura potrà «vedere Dio».

«Se, con un tenore di vita diligente e attento, laverai le brutture che si sono depositate sul tuo cuore, risplenderà in te la divina bellezza... Contemplando te stesso, vedrai in te colui che è il desiderio del tuo cuore e sarai beato».

Qui il peso è tutto sull'apodosi, sul frutto promesso alla beatitudine; avere il cuore puro è il mezzo; il fine è «vedere Dio».

Si nota, a livello di linguaggio, un influsso della speculazione di Plotino, che diviene ancora più scoperto in san Basilio.

Anche questa linea interpretativa avrà un seguito in tutta la storia successiva della spiritualità cristiana che passa per san Bernardo, san Bonaventura e i mistici renani.

In alcuni ambienti monastici, si aggiunge però un'idea nuova e interessante: quella della purezza come unificazione interiore che si ottiene volendo una cosa sola, quando questa «cosa» è Dio.

Scrive san Bernardo: «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio. Come se dicesse: purifica il cuore, separati da tutto, sii monaco cioè solo, cerca una cosa sola dal Signore e questa persegui (cfr. Sal 27,4), liberati da tutto e vedrai Dio (cfr. Sal 46,11)».

 

Abbastanza isolata è invece, nei Padri e negli autori medievali, l’interpretazione ascetica in funzione della castità che diverrà predominante, dicevo, dal secolo XIX in poi.

Il Crisostomo ce ne fornisce l'esempio più chiaro:

«Beati i puri di cuore perché vedranno Dio. Chiama puri di cuore quelli che possiedono la virtù in generale, che non hanno coscienza alcuna di peccato e vivono in castità. Nulla infatti c'è di più necessario per vedere Dio di questa virtù».

Ponendosi in questa stessa linea, il mistico Ruusbroec distingue una castità dello spirito, una castità del cuore e una castità del corpo.

Riferisce la beatitudine evangelica alla castità del cuore.

«Essa - scrive - tiene raccolti e rafforza i sensi esterni, mentre, all'interno, frena e doma gli istinti brutali... chiude il cuore alle cose terrene e ai fallaci allettamenti, mentre lo apre alle cose celesti e alla verità».

 

Con gradi diversi di fedeltà, tutte queste interpretazioni ortodosse rimangono dentro l'orizzonte nuovo della rivoluzione operata da Gesù che riconduce ogni discorso morale al cuore.

Paradossalmente, quelli che hanno tradito la beatitudine evangelica dei puri (katharoi) di cuore sono proprio quelli che hanno preso il nome da essa: i catari, con tutti i movimenti affini che li hanno preceduti e seguiti nella storia del cristianesimo.

Essi ricadono nella categoria di coloro che fanno consistere la purità nell'essere separati, ritualmente e socialmente, da persone e cose giudicate in se stesse impure, in una purità più esteriore che interiore.

 

 

 

3. «L'uomo ha due vite»

Abbiamo visto che nel pensiero di Cristo la purezza di cuore non si oppone primariamente all'impurità, ma all'ipocrisia, e quello dell'ipocrisia è il vizio umano forse più diffuso e meno confessato.

L'uomo - ha scritto Pascal - ha due vite: una è la vita vera, l'altra quella immaginaria che vive nell'opinione, sua o della gente. Noi lavoriamo senza posa ad abbellire e conservare il nostro essere immaginario e trascuriamo quello vero. Se possediamo qualche virtù o merito, ci diamo premura di farlo sapere, in un modo o in un altro, per arricchire di tale virtù o merito il nostro essere immaginario, disposti perfino a farne a meno noi, per aggiungere qualcosa a lui, fino a consentire, talvolta, a essere vigliacchi, pur di sembrare valorosi e a dare anche la vita, purché la gente ne parli.

La tendenza messa in luce da Pascal è accresciuta enormemente dalla cultura attuale dominata dai mass media, film, televisione e mondo dello spettacolo in genere.

Cartesio ha detto: «Penso, dunque sono»; ma oggi si tende a sostituirlo con: «Appaio, dunque sono».

All'origine, il termine ipocrisia era riservato all'arte teatrale.

Significava semplicemente recitare, rappresentare sulla scena.

Sant'Agostino lo ricorda nel suo commento alla beatitudine dei puri di cuori.

«Gli ipocriti - scrive - sono operatori di finzioni sul tipo dei presentatori dell'altrui personalità nelle rappresentazioni teatrali».

Ormai tutto è fiction, finzione, sui nostri teleschermi, anche i notiziari.

L'origine del termine ci mette sulle tracce per scoprire la natura dell'ipocrisia. Essa è fare della vita un teatro in cui si recita per un pubblico; è indossare una maschera, cessare di essere persona e diventare personaggio.

Ho letto da qualche parte questa caratterizzazione delle due cose:

«Il personaggio non è altro che la corruzione della persona.

La persona è un volto, il personaggio una maschera.

La persona è nudità radicale, il personaggio è tutto abbigliamento.

La persona ama l'autenticità e l'essenzialità, il personaggio vive di finzione e di artifici.

La persona ubbidisce alle proprie convinzioni, il personaggio ubbidisce a un copione.

La persona è umile e leggera, il personaggio è pesante ed ingombrante».

Ma la finzione teatrale è una ipocrisia innocente perché mantiene pur sempre la distinzione tra il palcoscenico e la vita. Nessuno che assiste alla rappresentazione dell'Agamennone (è l'esempio addotto da Agostino) pensa che l'attore sia veramente Agamennone.

Il fatto nuovo e inquietante di oggi è che si tende ad annullare anche questo divario, trasformando la vita stessa in uno spettacolo.

È quello che pretendono i cosiddetti reality shows, che dilagano ormai sulle reti televisive di tutto il mondo.

Secondo il filosofo francese Jean Baudrillard è divenuto difficile ormai distinguere gli avvenimenti reali (11 Settembre, guerra del Golfo) dalla loro rappresentazione mediatica.

Realtà e virtualità si confondono.

Il richiamo all'interiorità che caratterizza la nostra beatitudine e tutto il discorso della montagna è un invito a non lasciarci travolgere da questa tendenza che tende a svuotare la persona, riducendola a immagine, o, peggio, a simulacro. Kierkegaard ha messo in luce l'alienazione che risulta dal vivere di pura esteriorità, sempre e solo al cospetto degli uomini, e mai soli al cospetto di Dio e del proprio io.

Un mandriano - osserva - può essere un «io» di fronte alle sue vacche, se vivendo sempre con loro non ha che quelle con cui commisurarsi.

Un re può essere un io di fronte ai sudditi e si sentirà un «io» importante.

Il bambino si coglie come un «io» in rapporto ai genitori, un cittadino di fronte allo Stato... Ma sarà sempre un «io» imperfetto, perché manca la misura.

«Che realtà infinita acquista invece il mio "io", quando prende coscienza di esistere davanti a Dio, diventando un "io" umano la cui misura è Dio... Che accento infinito cade sull’"io" nel momento in cui ottiene come misura Dio!».

Sembra un commento al detto di san Francesco d'Assisi:

«Quello che l'uomo è davanti a Dio, quello è e nulla più».

 

 

4. Una forma di ipocrisia collettiva

Si mette spesso in rilievo la portata sociale e culturale di alcune beatitudini.

Non è raro leggere: «Beati gli operatori di pace» negli striscioni che accompagnano i cortei dei pacifisti, e la beatitudine dei miti è giustamente invocata in favore del principio della non violenza.

Mai però si parla della rilevanza sociale della beatitudine dei puri di cuore che sembra riservata esclusivamente all'ambito personale.

Io sono convinto, invece, che questa beatitudine può esercitare oggi una funzione critica tra le più necessarie nella nostra società.

Ci sono ipocrisie individuali e ipocrisie collettive.

Io vorrei mettere in luce una forma di ipocrisia collettiva nella quale siamo immersi fino al collo.

Contrariamente al significato ordinario della parola, si tratta di una ipocrisia che non consiste nel coprire, ma nello scoprire, non nel nascondere, ma nel mostrare.

Parlo dell'esibizionismo del corpo umano, specie della donna, spacciato come arte, come piacere estetico e come superamento dei tabù, mentre (a differenza di quanto avviene nella vera arte, per esempio in Botticelli) risponde solo a interessi commerciali e di audience.

Questo fenomeno è particolarmente accentuato in Italia.

Tempo fa su un prestigioso giornale inglese, il Financial Times, uscì un servizio intitolato «Naked ambition», «L'ambizione nuda». Era una denuncia del costume italiano di esibire corpi nudi di donne in tutte le salse e per tutti gli scopi. Le adolescenti italiane, si diceva, vogliono fare tutte le "veline". Dove è finito, in Italia, ci si chiedeva, il movimento femminista che si proponeva di lottare contro la tendenza maschilista a ridurre le donne al loro corpo e al loro sesso?

Se a fare questa denuncia fossero stati i vescovi italiani, essa sarebbe probabilmente caduta nel vuoto, ma essendo stato un prestigioso giornale inglese, si è assistito a un coro di commenti autocritici e di consensi nei maggiori organi di stampa.

L'articolo dedicato al problema dal Corriere della Sera terminava con questa riflessione: «Il mondo intero ci osserva e ride, e i nostri media ignorano il problema, e deve essere un giornale straniero a ricordarcelo. L'Italia critica spesso il mondo arabo e musulmano, ma quando si tratta di guardare al ruolo delle donne nei media, in politica, dicono: "Ah no, è un'altra cosa"».

Sono state fatte diverse analisi del fenomeno.

Tutti sono d'accordo nel mettere in luce che la responsabilità principale è degli uomini che continuano, in tal modo, a esercitare il proprio potere sulla donna, facendolo passare per ammirazione estetica.

Su un altro grande quotidiano nazionale, La Repubblica, una donna si lamentava del fatto che, anziché valutarla per le sue due lauree e la preparazione professionale di cui aveva dato prova, i suoi colleghi la valutassero in base a ben altro... Tutto ciò è vero, ma bisogna pure riconoscere una parte di responsabilità alle stesse donne. Quello che gli uomini guardano in esse dipende anche da ciò che esse mostrano di sé agli uomini (negli ultimi anni, l'ombelico)!

Si realizza la parola di Dio a Eva: «Verso tuo marito [il maschio] sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà» (Gn 3,16).

Siamo davanti all'ennesima forma di dominio e sfruttamento (purtroppo consensuale) della donna.

Adesso cerco di spiegare perché ho definito tutto ciò un fenomeno di ipocrisia collettiva.

Perché si ostenta una innocenza e una noncuranza che è tutta falsa.

Tutti sembrano ripetere: «Che male c'è?», mentre si sa bene che il male - la malizia - c'è e come.

Se l'ipocrisia è nascondere le vere intenzioni dietro false apparenze, questa è ipocrisia bell'e buona, sia da parte degli uomini che delle donne.

Si tratta di ipocrisia anche per un altro verso.

Perché riduce le ragazze a "veline", a parvenza, a creature senza un'anima, che valgono solo quello che valgono agli occhi altrui.

La mentalità che, in questo modo, si diffonde tra i giovani è micidiale.

Si insinua in loro l'idea che per far fortuna nella vita non c'è bisogno di applicarsi allo studio, accettare i sacrifici richiesti per una buona preparazione professionale, studiare le lingue... Basta, se se ne ha la possibilità, sfruttare il proprio fisico con un po' di spregiudicatezza.

La vita, ahimè, si incaricherà presto di presentare il conto: appena il loro corpo e la loro giovinezza è sfiorita, molte ragazze e molti ragazzi si ritrovano soli e impreparati a fronteggiare la vita.

Drammi di tutti i giorni.

Un modo concreto per contrastare questo andazzo c'è: sabotare i prodotti o i programmi televisivi che vivono di questo commercio del corpo femminile. Dare un segnale ai pubblicitari e ai conduttori di talk shows che se ne ha abbastanza di questo fenomeno che ci sta rendendo ridicoli agli occhi del mondo intero, oltre che, s'intende, riprovevoli agli occhi di Dio. Si incoraggia il sabotaggio di industrie che vendono armi o cibi manipolati, perché non si dovrebbe fare altrettanto per chi inquina le fonti stesse della vita? Se non lo facciamo, siamo tutti responsabili.

 

 

5. L'ipocrisia religiosa

La cosa peggiore che si può fare, parlando di ipocrisia, è quella di servirsene solo per giudicare gli altri, fosse pure la società, la cultura, il mondo.

è proprio a costoro che Gesù applica il titolo di ipocriti: «Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello!» (Mt 7,5).

Come credenti, dobbiamo ricordare il detto di un rabbino ebreo del tempo di Cristo, secondo cui il 90% dell'ipocrisia del mondo si trovava allora a Gerusalemme.

L'ipocrisia insidia soprattutto le persone pie e religiose, e il motivo di ciò è semplice: dove più forte è la stima dei valori dello spirito e della virtù (o dell'ortodossia!), lì è più forte anche la tentazione di ostentarli per non sembrarne privi.

A volte è lo stesso ufficio che ricopriamo che ci spinge a farlo.

Scrive sant'Agostino:

«Certi impegni del consorzio umano ci costringono a farci amare e temere dagli uomini; quindi l'avversario della nostra vera felicità incalza e dissemina ovunque i lacci dei "bravo, bravo", per prenderci a nostra insaputa mentre li raccogliamo con avidità, per staccare la nostra gioia dalla tua verità e attaccarla alla menzogna degli uomini, per farci gustare l'amore e il timore non ottenuti in tuo nome, ma in tua vece».

L'ipocrisia più perniciosa sarebbe nascondere... la propria ipocrisia.

In nessuno schema di esame di coscienza io ricordo di aver trovato la domanda: «Sono stato ipocrita? Mi sono preoccupato dello sguardo degli uomini su di me, più che di quello di Dio?».

A un certo punto della vita, io ho dovuto introdurre per conto mio queste domande nel mio esame di coscienza e raramente ho potuto passare indenne alla domanda successiva...

Un giorno, come brano evangelico della Messa c'era la parabola dei talenti.

Ascoltandolo, ho capito di colpo una cosa.

Tra il far fruttare i talenti e il non farli fruttare c'è di mezzo una terza possibilità: quella di farli fruttare, sì, ma per se stessi, non per il padrone, per la propria gloria o il proprio tornaconto, e questo è un peccato di ipocrisia forse più grave che seppellirli.

Quel giorno, al momento della comunione, ho dovuto fare come certi ladri sorpresi in flagrante che, pieni di vergogna, svuotano le tasche e gettano ai piedi del proprietario ciò che gli hanno sottratto.

Gesù ci ha lasciato un mezzo semplice e insuperabile per rettificare più volte al giorno le nostre intenzioni; sono le prime tre domande del Padre nostro:

«Sia santificato il tuo nome.

Venga il tuo regno.

Sia fatta la tua volontà».

Esse possono essere recitate come preghiere, ma anche come dichiarazione di intenzione: tutto quello che faccio, voglio farlo perché sia santificato il tuo nome, perché venga il tuo regno e perché sia fatta la tua volontà.

Sarebbe un contributo prezioso per la società e per la comunità cristiana se la beatitudine dei puri di cuori ci aiutasse a mantenere desta in noi la nostalgia di un mondo pulito, sincero, senza ipocrisia, né collettiva né privata, né religiosa né laica; un mondo in cui le azioni corrispondono alle parole, le parole ai pensieri e i pensieri dell'uomo a quelli di Dio.

Questo non avverrà pienamente che nella Gerusalemme celeste, la città tutta di cristallo, ma dobbiamo almeno tendere a ciò.

Una scrittrice di favole ha scritto un racconto intitolato Il paese di vetro.

Parla di un personaggio che finisce, per magia, in un paese tutto di vetro: case di vetro, uccelli di vetro, alberi di vetro, persone che si muovono come graziose statuine di vetro. Eppure nulla è andato mai in frantumi, perché tutti hanno imparato a muoversi in esso con delicatezza per non farsi del male. Le persone, incontrandosi, rispondono alle domande prima che esse siano formulate, perché anche i pensieri sono diventati aperti e trasparenti; nessuno cerca più di mentire, sapendo che tutti possono leggere quello che si ha in mente.

Vengono i brividi solo a pensare cosa succederebbe se questo avvenisse già ora, nei rapporti umani; ma è salutare almeno proporcelo come ideale.

È il cammino che porta alla beatitudine che abbiamo cercato di commentare: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio».

 

 

PER UN ESAME DI COSCIENZA BASATO SULLE BEATITUDINI

 

«Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio».

Io sono puro di cuore?

Puro nelle intenzioni. Dico: sì, sì, no, no, come Gesù?

C'è una purezza del cuore, una purezza delle labbra, una purezza degli occhi, una purezza del corpo... Cerco di coltivare tutte queste purezze così necessarie specialmente alle anime consacrate?

L'opposto più diretto della purezza di cuore è l'ipocrisia. Io, a chi mi sforzo di piacere nelle mie azioni: a Dio o agli uomini?

 

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