Meditazione
n. 5
«BEATI I
MISERICORDIOSI,
PERCHÉ
TROVERANNO MISERICORDIA»
1. La
misericordia di Cristo
La quinta
beatitudine, nell'ordine di Matteo, dice:«Beati i misericordiosi perché
troveranno misericordia».
Partendo, come
sempre, dall'affermazione che
le beatitudini sono l'autoritratto di Cristo, anche questa volta ci poniamo subito la domanda:
come ha vissuto
Gesù la misericordia?
che cosa ci
dice la sua vita
su questa
beatitudine?
Nella Bibbia,
la parola misericordia, hesed, si presenta
con due significati fondamentali:
il primo indica
l'atteggiamento della parte più forte (nell'alleanza,
Dio stesso) verso la parte più debole
e si esprime di solito
nel perdono delle infedeltà e delle colpe;
il secondo
indica l'atteggiamento verso il bisogno e la
sofferenza - non
necessariamente la colpa - dell'altro
e si esprime
nelle cosiddette opere di misericordia.
C'è, per così
dire, una misericordia del cuore e una
misericordia
delle mani.
Nella vita di
Gesù risplendono entrambe queste due forme.
Egli riflette
la misericordia di Dio verso i peccatori,
ma si impietosisce anche di tutte le sofferenze
e i bisogni
umani, interviene per dare da mangiare alle folle, guarire i malati, liberare
gli oppressi.
Di lui
l'evangelista dice: «Ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre
malattie» (Mt 8,17).
Nella nostra
beatitudine il senso prevalente è certamente il primo, quello del perdono e
della remissione
dei peccati.
Lo deduciamo
dalla corrispondenza tra la
beatitudine e
la sua ricompensa: «Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia», s'intende
presso Dio che
rimetterà i loro peccati.
La frase: «Siate
misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro»,
viene spiegata subito così: «Perdonate e vi sarà perdonato» (Lc 6,36-37).
È nota
l'accoglienza che Gesù riserva ai peccatori nel Vangelo e l'opposizione che essa
gli procurò da
parte dei difensori della legge che lo accusavano di
essere
«un mangione e beone, amico di pubblicani e peccatori» (Lc 7,34).
Uno dei detti
storicamente meglio
attestati di Gesù è: «Non sono venuto a chiamare i
giusti, ma i peccatori» (Mc 2,17). Sentendosi da lui accolti e non
giudicati, i peccatori lo ascoltavano volentieri.
Ma chi erano i
peccatori?
Chi veniva
indicato con
questo termine?
In linea con la
tendenza oggi diffusa
di scagionare
del tutto i farisei del Vangelo, attribuendo
l'immagine negativa a forzature posteriori degli
evangelisti,
qualcuno ha sostenuto che con questo termine
si intendono «i trasgressori deliberati e impenitenti della legge», in altre
parole i delinquenti comuni
e i fuorilegge del tempo. Se così fosse, gli avversari di Gesù avevano
effettivamente ragione di scandalizzarsi e
di ritenerlo
persona irresponsabile e socialmente
pericolosa.
Sarebbe come se
oggi un sacerdote
frequentasse
abitualmente mafiosi, camorristi e criminali
in genere, e accettasse i loro inviti a pranzo, con
il pretesto di
parlare loro di Dio.
In realtà, le cose non stanno così. I
farisei avevano una loro visione della legge e di ciò che era conforme
o contrario ad essa e consideravano reprobi
tutti quelli che
non si conformavano alla loro prassi.
Gesù non
nega che
esista il peccato e che esistano i peccatori,
non giustifica le frodi di Zaccheo o
l'adulterio della
donna.
Il fatto di
chiamarli «i malati» lo dimostra.
Quello che Gesù
condanna è di stabilire da sé qual è
la vera
giustizia e considerare tutti gli altri «ladri, ingiusti
e adulteri», negando loro perfino la possibilità
di cambiare.
È significativo
il modo in cui Luca introduce
la parabola del fariseo e del pubblicano: «Disse
ancora questa parabola per alcuni che
presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri» (Lc 18,9).
Gesù
era più
severo verso coloro che, sprezzanti, condannavano i peccatori, che verso i
peccatori stessi.
2. Un Dio che si compiace di avere
misericordia
Gesù
giustifica la sua condotta verso i peccatori dicendo
che così agisce il Padre celeste.
Ai suoi oppositori
egli ricorda la parola di Dio nei profeti: «Voglio
la
misericordia e non il sacrificio» (Mt 9,13).
La misericordia
verso l'infedeltà del popolo, la hesed, è il
tratto più
saliente del Dio dell'alleanza e riempie la
Bibbia da un capo all'altro.
Un salmo lo ripete come
una litania, spiegando con essa tutti gli
eventi della storia d'Israele:
«Perché eterna è la sua misericordia»
(Sal 136).
Essere
misericordiosi appare così, per la
creatura, un aspetto essenziale del suo essere «a immagine
e somiglianza di Dio».
«Siate
misericordiosi,
come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36) è
una parafrasi
del famoso: «Siate santi perché io, il Signore,
Dio vostro, sono santo» (Lv 19,2).
Ma la cosa più
sorprendente circa la misericordia di
Dio è che egli prova gioia nell'aver misericordia.
Gesù
conclude la parabola della pecorella smarrita dicendo: «Ci sarà più gioia in
cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non
hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7).
La donna che ha ritrovato la dramma
smarrita grida alle amiche: «Rallegratevi
con me».
Nella parabola
del figliol prodigo, poi, la gioia straripa e diventa festa, banchetto.
Non si tratta
di un tema isolato, ma profondamente radicato nella Bibbia.
In
Ezechiele Dio dice: «Io non godo della
morte dell'empio, ma [godo!] che l'empio desista
dalla sua
condotta e viva» (Ez 33,11).
Michea
dice
che Dio «si compiace di avere misericordia» (Mi
7,18),
cioè prova piacere nel farlo.
Ma perché, ci
si domanda, una pecora deve contare sulla bilancia quanto tutte le rimanenti
messe insieme,
e a contare di più deve essere proprio quella che è
scappata e ha creato più
problemi?
Una spiegazione
convincente l'ho trovata nel poeta Charles Péguy.
Smarrendosi,
quella pecorella, come pure il figlio minore,
ha fatto tremare il cuore di Dio, Dio ha temuto di perderla per sempre, di
essere costretto a condannarla
e privarsene in eterno. Questa paura ha fatto
sbocciare la speranza in Dio e la
speranza, una volta
realizzatasi, ha provocato la gioia e la festa.
«Ogni penitenza
dell'uomo è il coronamento di una speranza di
Dio».
È un
linguaggio figurato, come tutto il nostro parlare di Dio, ma contiene una
verità.
In noi esseri
umani, la condizione che rende possibile la speranza è il fatto che non
conosciamo il futuro e
perciò lo speriamo; in Dio, che conosce il futuro, la
condizione è che non vuole (e, in certo senso,
non può) realizzare quello che vuole, senza il nostro consenso.
La libertà umana spiega l'esistenza
della speranza in Dio.
Che dire allora delle novantanove
pecorelle giudiziose e
del figlio maggiore?
Non c'è alcuna
gioia in
cielo per essi?
Vale la pena
vivere tutta la vita da buoni
cristiani?
Ricordiamo cosa risponde il Padre al
figlio maggiore:
«Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo» (Lc 15,31).
L'errore del
figlio maggiore sta nel considerare l'essere rimasto sempre
a casa e aver
condiviso tutto con il Padre non un privilegio immenso, ma un merito; si
comporta da mercenario,
più che da figlio.
Questo dovrebbe
mettere sull'avviso
tutti noi che, per stato di vita, ci troviamo
nella stessa posizione del
figlio maggiore!
Su questo
punto la realtà è stata migliore della stessa
parabola.
Nella realtà,
il figlio maggiore - il Primogenito
del Padre, il Verbo - non è rimasto nella casa
paterna; è
andato lui in «una regione lontana» a cercare
il figlio minore, e cioè l'umanità decaduta; è stato
lui che lo ha
ricondotto a casa, che gli ha procurato la
veste nuova e ha
imbandito per lui un banchetto al
quale può
sedersi a ogni Eucaristia.
In un suo
romanzo, Dostoevskij descrive un quadretto
che ha tutta l'aria di una scena osservata dal vero.
Una donna del popolo tiene in braccio il suo bambino
di poche settimane, quando questi per la prima
volta, a detta di lei, le sorride.
Tutta compunta, ella si fa il segno della
croce e a chi le chiede il perché di
quel gesto risponde: «Ecco, allo stesso modo che una
madre è felice quando nota il primo sorriso
del suo bimbo, così si rallegra Iddio
ogni volta che un peccatore si mette in ginocchio e rivolge a lui una preghiera
fatta con tutto il cuore» (F.
Dostoevskij, L'Idiota, Milano 1983. p. 272).
3. La
nostra misericordia: causa o effetto della
misericordia
di Dio?
Gesù dice:
«Beati i misericordiosi, perché troveranno
misericordia»,
e nel Padre
nostro ci fa pregare così:
«Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo
ai nostri debitori».
Dice anche:
«Se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà
le vostre colpe» (Mt 6,15).
Queste frasi potrebbero indurre a pensare che la misericordia di Dio verso
di noi sia un effetto della nostra misericordia verso gli altri, e sia
proporzionata ad essa.
Se così fosse
però
sarebbe completamente rovesciato il rapporto tra
grazia e buone
opere, e si distruggerebbe il carattere
di pura
gratuità della misericordia divina solennemente
proclamato da Dio davanti a Mosè: «Farò grazia a
chi vorrò far grazia e avrò misericordia di
chi vorrò aver
misericordia» (Es 33,19).
La parabola dei
due servitori (Mt 18,23ss) è la chiave
per interpretare correttamente il rapporto.
Lì si vede
come è il padrone che, per primo, senza condizioni, rimette un debito immenso al
servo (diecimila talenti!), ed è proprio la
sua generosità che avrebbe dovuto spingere il servo ad avere pietà di
colui che gli doveva
la misera somma di cento denari.
Dobbiamo
dunque avere misericordia perché abbiamo
ricevuto misericordia, non per ricevere misericordia;
però dobbiamo avere misericordia, altrimenti la
misericordia
di Dio non avrà effetto per noi e ci verrà ritirata, come il padrone della
parabola la ritirò al servo
spietato.
La grazia
"previene" sempre ed è essa
che crea il
dovere: «Come il Signore vi ha perdonato,
così fate anche
voi», scrive san Paolo ai Colossesi
(Col 3,13).
Se, nella
beatitudine, la misericordia di Dio verso di
noi sembra
essere l'effetto della nostra misericordia
verso i
fratelli, è perché Gesù si colloca qui nella prospettiva
del giudizio finale («troveranno misericordia»,
al futuro!).
«Il giudizio - scrive infatti san Giacomo
- sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la
misericordia invece ha sempre
la meglio nel giudizio» (Gc 2,13).
4. Fare esperienza della
misericordia divina
Se la
misericordia divina è all'inizio di tutto ed è essa
che esige e rende possibile la misericordia degli uni verso
gli altri, allora la cosa più importante per noi è
fare un'esperienza rinnovata della misericordia di Dio.
Lo scrittore
Franz Kafka ha scritto un romanzo intitolato
Il Processo. In esso si parla di un uomo che un
giorno, senza che nessuno sappia il
perché, viene dichiarato in arresto, pur
continuando la sua solita vita e il suo lavoro di modesto impiegato. Comincia un'estenuante ricerca per
conoscere i motivi, il tribunale, le
imputazioni, le procedure. Ma nessuno sa dirgli niente, se non che c'è
veramente un processo in corso a suo carico. Finché un giorno verranno a
prelevarlo per l'esecuzione della sentenza.
Nel corso della
vicenda si viene a sapere che vi sarebbero, per quest'uomo, tre possibilità:
l'assoluzione
vera, l'assoluzione apparente e il rinvio.
L'assoluzione
apparente e il rinvio però non risolverebbero nulla;
servirebbero solo a tenere l'imputato
in un'incertezza
mortale per tutta la vita.
Nell'assoluzione vera invece
«gli atti processuali devono essere totalmente eliminati,
scompaiono del tutto dal procedimento; non solo l'accusa, ma anche il
processo e persino la sentenza
vengono distrutti, tutto viene distrutto».
Ma di queste
assoluzioni vere, tanto
sospirate, non si sa se ne sia esistita mai
alcuna; ci sono solo voci in proposito, null'altro che «bellissime
leggende».
L'opera finisce
così, come tutte quelle dell'autore: si intravede da
lontano una soluzione, la si rincorre con
affanno come negli incubi notturni,
senza possibilità alcuna di raggiungerla.
La parola di Dio
ci trasmette l'incredibile notizia
che una
«assoluzione vera» esiste per l'uomo; non è
solo una leggenda, una cosa bellissima
ma irraggiungibile. Gesù ha distrutto il
«documento scritto della nostra colpa; lo ha tolto di mezzo inchiodandolo
alla croce» (Col 2,14).
Ha distrutto
tutto. «Non c'è più
nessuna condanna
per quelli che sono in Cristo Gesù»,
grida san Paolo (Rm 8,1).
Nessuna
condanna! Di
nessun genere! Per quelli che credono in Cristo Gesù!
A Gerusalemme
c'era una piscina miracolosa e il
primo che vi si buttava dentro, quando le acque venivano agitate,
era guarito (cfr. Gv 5,2ss). La realtà però,
anche qui, è infinitamente più grande del simbolo.
Dalla croce di Cristo è sgorgata una fonte di
acqua e sangue, e non uno soltanto, ma tutti quelli che vi si
buttano dentro ne escono
guariti.
Dopo il
battesimo questa piscina miracolosa è il sacramento
della riconciliazione.
A volte è bello
fare una confessione
"fuori serie", cioè diversa da quelle solite,
in cui permettiamo davvero al Paraclito di
"convincerci di peccato".
C'è una grazia particolare quando non
è solo l'individuo, ma l'intera comunità che
si mette davanti a Dio in quest'atteggiamento penitenziale. Da
un'esperienza profonda della misericordia di Dio si esce rinnovati
e pieni di speranza: «Dio, ricco di misericordia,
per il grande amore con il quale ci ha amati, da
morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti
rivivere
con Cristo» (Ef 2,4-5).
5. Una
Chiesa «ricca in misericordia»
Dopo aver fatto
l'esperienza della misericordia di
Dio, dobbiamo, a
nostra volta, attuarla con i fratelli.
Anzitutto a livello ecclesiale.
Predicando gli esercizi
spirituali alla Curia Romana, nell'anno
giubilare del 2000, il cardinale
Francesco Saverio Van Thuan, alludendo
al rito dell'apertura della Porta Santa, disse in
una meditazione: «Sogno una Chiesa che sia una
"Porta Santa", aperta, che accoglie tutti,
piena di compassione e di comprensione per le pene e le sofferenze
dell'umanità, tutta
protesa a consolarla».
La Chiesa del Dio «ricco di
misericordia», dives in misericordia,
non può non essere essa stessa
dives in
misericordia.
Dall'atteggiamento di Cristo verso i
peccatori
esaminato sopra deduciamo alcuni criteri.
Egli non
banalizza il peccato e trova il modo di non
alienarsi mai
i peccatori, ma piuttosto di attirarli a sé.
Non vede in
essi solo quello che sono, ma quello che
possono
divenire, se raggiunti dalla misericordia divina
nel profondo della loro miseria e disperazione.
Non aspetta
che vengano da lui; spesso è lui che va a
cercarli.
Oggi gli
esegeti sono abbastanza d'accordo nell'ammettere
che Gesù non aveva un atteggiamento
ostile verso
la legge mosaica, che osservava lui stesso
scrupolosamente. Quello che lo poneva in contrasto
con l'elite religiosa del suo
tempo era una certa maniera rigida e a volte
disumana di costoro di interpretare
la legge.
«Il sabato,
diceva, è per l'uomo, non
l'uomo per il
sabato» (Mc 2,27), e quello che dice del
riposo
sabbatico, una delle leggi più sacre in Israele,
vale per ogni
altra legge.
Gesù è fermo e
rigoroso nei principi, ma sa quando un principio deve cedere il passo a un
principio superiore, che
è quello della misericordia di Dio e la salvezza
dell'uomo.
Il modo in cui
questi criteri desunti dall'agire di Cristo possono essere applicati ai problemi
concreti dell'attuale momento storico (aborto, divorzio,
eutanasia) dipende dalla paziente ricerca e, in
definitiva, dal discernimento
del magistero.
Anche
nella vita della Chiesa, però,
come in quella di Gesù, devono risplendere
insieme e la misericordia delle mani e
quella del cuore, sia le opere di misericordia
sia «le viscere di misericordia».
6.
«Rivestitevi di sentimenti di misericordia»
L'ultima parola
a proposito di ogni beatitudine deve
essere sempre
quella che ci tocca personalmente e
spinge ognuno di noi alla conversione e alla pratica.
San Paolo
esortava i colossesi con queste accorate parole:
«Rivestitevi
dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti [alla lettera: "di
viscere"] di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza;
sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente,
se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi
degli altri. Come il Signore vi ha perdonato,
così fate anche
voi» (Col 3,12-13).
«Noi esseri umani - diceva
sant'Agostino - siamo come vasi di creta
che, solo sfiorandosi, si fanno del
male».
Non si può
vivere insieme in armonia, nella
famiglia e in
ogni altro tipo di comunità, senza la pratica
del perdono e della misericordia reciproca.
Misericordia è
una parola composta da misereo e cor; significa
impietosirsi nel proprio cuore, commuoversi,
a riguardo della sofferenza o
dell'errore del fratello.
È
così che Dio spiega la sua misericordia di fronte al
traviamento del popolo: «Il mio cuore si commuove
dentro di me, il mio intimo freme di
compassione» (Os
11,8).
Si tratta di
reagire con il perdono e, fin dove è possibile, con la scusa, anziché con la
condanna.
Quando
si tratta di noi, vale il
detto: «Chi si scusa, Dio lo accusa; chi si
accusa, Dio lo scusa»; quando si tratta degli
altri vale il contrario: «Chi scusa il fratello. Dio
scusa lui; chi accusa il fratello, Dio accusa lui».
Il perdono è per
una comunità quello che è l'olio
per il motore.
Se uno si mette in viaggio su un'auto
che non ha neppure una goccia d'olio nel motore, dopo
pochi minuti vedrà andare tutto in fiamme. Come l'olio, anche il perdono
scioglie gli attriti. L'olio che dobbiamo
mettere negli ingranaggi della vita sono soprattutto parole buone.
L'apostolo esortava così i cristiani
di Efeso: «Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca, ma solo
parole buone, che possano servire
a vicendevole edificazione» (Ef 4,29).
Una parola
buona, cioè positiva, di incoraggiamento e di lode, è
un balsamo, specie nell'ambito della
famiglia.
La misericordia degli uni verso gli
altri dovrebbe essere per noi creature umane
il sentimento più naturale.
Il poeta
Charles Péguy mette in bocca a Dio queste
parole: «La carità non mi stupisce. Quelle povere
creature sono
così infelici che a meno di avere un
cuore di
pietra, come potrebbero non avere carità le
une per le
altre?».
Per non avere
un po' di compassione
bisognerebbe tapparsi gli occhi e gli orecchi alle
grida di desolazione che ci giungono
da tutte le parti.
Questo è forse
il punto che più avvicina il cristianesimo
al buddismo.
Nel buddismo
la compassione per
ogni essere
vivente è ciò che costituisce «l'azione
giusta» che, a
sua volta, è una delle otto tappe del
«sentiero
prezioso» che porta all'illuminazione.
La
motivazione è diversa nei due universi religiosi.
Nel
cristianesimo, il fondamento è che l'essere umano è
creato a
immagine di Dio, «Padre misericordioso e
Dio di ogni consolazione» (2Cor 1,3),
che «ama tutte le cose esistenti e nulla
disprezza di ciò che ha creato»
(Sap 11,24);
nel buddismo,
che non conosce l'idea
di un Dio
personale e creatore, il fondamento è antropologico
e cosmico: l'uomo deve essere misericordioso per la solidarietà e la
responsabilità che lo legano a
tutti i
viventi.
Questa
differenza non dovrebbe però
impedirci di
operare insieme sul piano pratico, soprattutto
oggi che la vita è così minacciata dalla violenza
e i rapporti
umani sono diventati tanto aspri e "spietati".
Noi cristiani
possiamo imparare molto dai libri
dell'attuale
Dalai Lama Gyatso Tenzin che propongono
«un'etica di pace e di cura» per il terzo millennio.
Essi trasudano da ogni pagina un grande
senso di solidarietà e quasi di tenerezza verso tutti i viventi e suggeriscono
come calare questa visione nella politica, nell'economia e in tutte le
altre realtà della vita.
La terra
sarebbe un posto tanto più vivibile se imparassimo
a pensare un po' di più alle sventure e alle
sofferenze
altrui e un po' meno esclusivamente alle
nostre.
Se imparassimo a sostituire
all'autocommiserazione,
una genuina commiserazione del prossimo.
Gesù ha detto: «Beati i misericordiosi
perché troveranno
misericordia».
Non la
troveranno solo presso
Dio, nel
giudizio finale, ma anche adesso, qui in terra,
presso i loro
simili.
Ho usato
l'immagine dell'olio.
C'è un salmo che
canta la bellezza e la
gioia del vivere insieme come fratelli riconciliati, dicendo che questo «è come
olio profumato sul capo» che scende lungo la
barba e le vesti di Aronne, fino
all'orlo della sua veste (cfr. Sal 133).
Il nostro Aronne, il nostro sommo
sacerdote è Cristo; la misericordia e il
perdono è l'olio che scende da questo
«capo» elevato sulla croce e si diffonde lungo
il corpo della Chiesa fino all'estremità delle sue
vesti, fino a quelli che
vivono ai suoi margini.
Cerchiamo,
concretamente, di individuare, tra i nostri
rapporti con le persone, quello nel quale ci sembra più necessario far penetrare
l'olio della misericordia e della riconciliazione e versiamocelo
silenziosamente, con abbondanza.
Dove si vive
così, nel perdono e nella
misericordia reciproca, il Signore, conclude il salmo, «dona la sua benedizione
e la vita per sempre».
PER UN ESAME
DI COSCIENZA BASATO SULLE BEATITUDINI
«Beati i
misericordiosi, perché troveranno misericordia».
Io sono
misericordioso?
Davanti allo
sbaglio di un fratello, di un collaboratore, reagisco con il giudizio
o con la misericordia?
Gesù sentiva
compassione
per le folle: e io?
Sono stato
anch'io qualche volta
il servo
perdonato che non sa perdonare?
Quante volte
ho chiesto e ricevuto alla leggera la misericordia di Dio per i miei peccati,
senza rendermi conto a quale
prezzo Cristo me l'ha procurata?
|