Beati gli affamati

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Meditazione n. 4

  «BEATI VOI CHE ORA AVETE FAME,

PERCHÉ SARETE SAZIATI»

 

1. Storia e Spirito

La ricerca sul Gesù storico oggi tanto in auge - sia quella fatta da studiosi credenti che quella radicale dei non credenti - nasconde un grave pericolo: quello di indurre a credere che sia "autentico" solo ciò che, per questa nuova via, si potrà far risalire al Gesù terreno, mentre tutto il resto sia non storico e quindi non "autentico". Questo significherebbe limitare indebitamente alla sola storia i mezzi che Dio ha a disposizione per rivelarsi. Significherebbe abbandonare tacitamente la verità di fede dell'ispirazione biblica e quindi il carattere rivelato delle Scritture.

Parola di Dio, e quindi normativa per il credente, non è l'ipotetico nucleo originario variamente ricostruito dagli storici, ma quello che è scritto nei vangeli.

Il risultato delle ricerche storiche va tenuto in grandissimo conto, perché è esso che deve guidare alla comprensione anche degli sviluppi posteriori della tradizione, ma l'esclamazione «Parola di Dio!» continueremo a pronunciarla al termine della lettura del testo evangelico, non al termine della lettura dell'ultimo libro sul Gesù storico.

Le due letture, quella storica e quella di fede, hanno tra loro un importante punto di incontro.

«Un evento è storico - ha scritto un eminente studioso del Nuovo Testamento - quando assomma in sé due requisiti: è "accaduto" e in più ha assunto un rilievo significativo determinante per le persone che ne furono coinvolte e ne fissarono la narrazione».

Ci sono infiniti fatti realmente accaduti che, tuttavia, non ci sogniamo di definire "storici", perché non hanno lasciato alcuna traccia nella storia, non hanno destato alcun interesse, né fatto nascere alcunché di nuovo.

"Storico" non è dunque solo il nudo e crudo fatto di cronaca, ma il fatto più il significato di esso.

Questo significa che i vangeli sono "storici" non solo per quel tanto che riferiscono di veramente accaduto, ma anche per il significato dei fatti che essi portano alla luce sotto l'ispirazione dello Spirito Santo.

Gli evangelisti e la comunità apostolica prima di loro, con le loro aggiunte e sottolineature diverse, non fanno che mettere in luce i diversi significati o implicazioni di un determinato fatto o detto di Gesù. Quello che essi mettono in luce non è, del resto, più, ma meno di ciò che il fatto o il detto potenzialmente contiene, perché alle parole di Cristo si deve attribuire in grado sommo la nota di «inesauribilità» che i Padri riconoscono alle Scritture rivelate.

Giovanni si preoccupa di far spiegare in anticipo, da Gesù stesso, questo fatto quando gli attribuisce le parole: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future» (Gv 16,12-13).

È l'eterno problema del rapporto tra storia e spirito.

La storia senza lo spirito è muta; lo spirito senza la storia è cieco.

Pare che questa esigenza di non limitare alla sola storia la ricerca sul Nuovo Testamento cominci a farsi strada tra diversi studiosi della Bibbia che all'esegesi storico filologica affiancano quella che viene definita l'esegesi «canonica», che tiene conto, cioè, del canone delle Scritture e del valore teologico che da ciò deriva.

 

 

 

 

 

 

2. Chi sono gli affamati e chi i sazi

Queste osservazioni ci sono particolarmente utili quando si tratta dell'uso da fare delle beatitudini evangeliche.

È risaputo che le beatitudini ci sono giunte in due versioni diverse.

Matteo ha otto beatitudini, Luca ne ha solo quattro, seguite però da altrettanti «guai» contrari;

in Matteo il discorso è indiretto: «Beati i poveri», «Beati gli affamati»;

in Luca il discorso è diretto: «Beati voi, poveri», «Beati voi che avete fame»;

Matteo ha poveri «in spirito» e «affamati di giustizia»,

Luca semplicemente «poveri» e «affamati».

Si direbbe che anche l'ambientazione esterna rifletta questa diversa prospettiva:

Matteo, più spiritualizzante, colloca il discorso in alto, sulla montagna;

Luca, più attento a ciò che avviene sulla terra, lo colloca in basso, in una pianura (Lc 6,17).

Dopo tutto il lavoro critico fatto per distinguere ciò che, nelle beatitudini, risale al Gesù storico e ciò che è proprio di Matteo e di Luca, il compito del credente di oggi non è di scegliere come autentica una delle due versioni e lasciare da parte l'altra.

Si tratta piuttosto di raccogliere il messaggio contenuto nell'una e nell'altra versione evangelica e - secondo i casi e le necessità di oggi - valorizzare di volta in volta l'una o l'altra prospettiva, come fece ognuno dei due evangelisti a suo tempo.

 

Seguendo questo principio, riflettiamo oggi sulla beatitudine degli affamati, partendo dalla versione di Luca: «Beati voi che avete fame, perché sarete saziati».

Vedremo, in un secondo momento, che la versione di Matteo della «fame di giustizia» non si oppone a quella di Luca, ma la conferma e la rafforza.

 

Al sentire proclamare questa beatitudine, molti reagiscono indignati: come si fa a proclamare beati gli affamati, in un mondo in cui ci sono milioni di persone e di bambini che muoiono di fame, mentre altri si rimpinzano di cibo fino a rovinarsi la salute e a gettare tonnellate di cibo nella spazzatura?

È un'indignazione più che giusta ed è condivisa da Gesù stesso, che a quella beatitudine fa seguire subito un «guai»: «Ma guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame».

Gesù ha pronunciato la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31) proprio per denunciare questa situazione che evidentemente non è nuova nel mondo, anche se oggi si realizza su scala planetaria.

Nella beatitudine Gesù dice: «Beati gli affamati perché saranno saziati; guai a voi che ora siete sazi perché avrete fame»; nella parabola la stessa conclusione è presente in chiave narrativa: «Morì il povero Lazzaro e fu portato nel seno di Abramo; morì anche il ricco e fu sepolto nell'inferno».

Gli affamati della beatitudine lucana non sono una categoria diversa dai poveri menzionati nella prima beatitudine.

Sono gli stessi poveri considerati nell'aspetto più drammatico della loro condizione: la mancanza di cibo.

Parallelamente, i «sazi» sono i ricchi che nella loro prosperità possono soddisfare non solo il bisogno, ma anche la voluttà nel mangiare.

Anche la parabola del ricco epulone considera povertà e ricchezza sotto l'angolatura della mancanza o sovrabbondanza di cibo: il ricco «banchettava ogni giorno lautamente»; il povero bramava invano di «sfamarsi con quello che cadeva dalla mensa del ricco».

Il contrasto continua, rovesciato, nell'aldilà: un tempo Lazzaro desiderava sfamarsi almeno con le briciole che cadevano dalla mensa del ricco; ora è il ricco che implora da Lazzaro alcune gocce d'acqua per placare la sua sete.

La parabola però non spiega solo chi sono gli affamati e chi i sazi, ma anche e soprattutto perché i primi sono dichiarati beati e i secondi sventurati.

Il ricco epulone e tutti gli altri ricchi di cui Gesù parla nel vangelo non sono condannati per il semplice fatto di essere ricchi, ma per l'uso che fanno, o non fanno, della loro ricchezza e per quello che la ricchezza produce in loro.

La ricchezza e la sazietà tendono a racchiudere l'uomo in un orizzonte terreno, perché «dove è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Lc 12,34); aggravano il suo cuore con la crapula e la ubriachezza, soffocando in lui il seme della parola (cfr. Lc 21,34); gli fanno dimenticare che la notte seguente potrebbe essergli chiesto conto della sua vita (Lc 16,19-31).

Il ricco è sventurato, perché la ricchezza gli rende l'entrare nel regno «più difficile che per un cammello passare per la cruna di un ago» (Lc 18,25).

Nella parabola del ricco epulone Gesù fa intendere che ci sarebbe, per il ricco, una via di uscita: quella di ricordarsi di Lazzaro alla sua porta e condividere con lui il suo lauto pasto.

Il rimedio è di farsi «amici i poveri con le ricchezze», di invitare a pranzo «i poveri, storpi, zoppi e ciechi» (Lc 14,13-14).

La sazietà però ottunde lo spirito e rende estremamente difficile imboccare questa strada (la storia di Zaccheo mostra come sia possibile, ma anche quanto sia raro) e questo spiega il perché del «guai» rivolto ai ricchi e ai sazi.

Un «guai» che nasce anch'esso da amore e che, più che un «maledetti!», è un «attenti!».

Il miglior commento alla beatitudine dei poveri e degli affamati è quello che dice Maria nel Magnificat. «Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi» (Lc 1,51-53).

Con una serie di potenti verbi all'aoristo, Maria descrive un rovesciamento e un radicale mutamento delle parti tra gli uomini: «Ha rovesciato / ha innalzato; ha ricolmato / ha rimandato a mani vuote».

Qualcosa dunque di già avvenuto, o che avviene abitualmente nell'agire di Dio.

Guardando alla storia, non pare ci sia stata una rivoluzione sociale, per cui i ricchi, di colpo, sono impoveriti e gli affamati sono stati saziati di cibo.

Il rovesciamento è avvenuto, ma nella fede!

Si è manifestato il regno di Dio, e questa cosa ha provocato una silenziosa ma radicale rivoluzione.

Come se si fosse scoperto un bene che, di colpo, ha svalutato la moneta corrente.

Il ricco appare come un uomo che ha messo da parte un'ingente somma di denaro, ma nella notte c'è stata una svalutazione del cento per cento, e, quando al mattino si è alzato, egli era un povero miserabile.

I poveri e gli affamati, al contrario, sono avvantaggiati, perché sono più pronti ad accogliere la nuova realtà, non temono il cambiamento; hanno il cuore pronto.

San Giacomo, rivolgendosi ai ricchi, diceva: «Piangete, gridate per le sciagure che vi sovrastano. Le vostre ricchezze sono imputridite» (Gc 5,1-2).

Anche qui, niente attesta che al tempo di san Giacomo le derrate dei ricchi imputridissero nei granai. L'apostolo vuol dire che è avvenuto qualcosa che ha fatto perdere a esse ogni reale valore; si è rivelata una nuova ricchezza. «Dio ha scelto i poveri del mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno» (Gc 2,5).

Più che «un incitamento a rovesciare i potenti dai troni per innalzare gli umili», come talvolta si è scritto, il Magnificat è un salutare ammonimento rivolto ai ricchi e ai potenti circa il tremendo pericolo che corrono, esattamente come il «guai» di Gesù e la parabola del ricco epulone.

 

 

3. Una parabola attuale

Una riflessione sulla beatitudine degli affamati e dei sazi non può accontentarsi di spiegarne il significato esegetico, il testo e il contesto; deve aiutarci a leggere la situazione in atto intorno a noi e ad agire in essa nel senso richiesto dal Vangelo.

La parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro si ripete oggi, in mezzo a noi, su scala mondiale.

I due personaggi stanno addirittura per due emisferi:

il ricco epulone rappresenta l'emisfero nord (Europa occidentale, America, Giappone);

il povero Lazzaro è, con poche eccezioni, l'emisfero sud.

Due personaggi, due mondi: il primo mondo e il "terzo mondo".

Due mondi di diseguale grandezza: quello che chiamiamo "terzo mondo" rappresenta in realtà i "due terzi del mondo"!

Qualcuno ha paragonato la terra a un'astronave in volo nel cosmo, in cui uno dei tre cosmonauti a bordo consuma l'ottantacinque per cento delle risorse presenti e briga per accaparrarsi anche il rimanente quindici per cento.

Lo spreco è di casa presso quell'ottantacinque per cento.

Anni fa, una ricerca condotta dal ministero dell'agricoltura americano ha calcolato che, su centosessantuno miliardi di chilogrammi di alimentari prodotti, quarantatre miliardi, cioè circa un quarto, finiscono nella spazzatura. Di questo cibo buttato via, si potrebbero facilmente recuperare, volendo, circa due miliardi di chilogrammi, una quantità sufficiente a sfamare per un anno quattro milioni di persone.

Il più grande peccato contro i poveri e gli affamati è forse l'indifferenza, il far finta di non vedere, il «passar oltre, dall'altra parte della strada» (cfr. Lc 10,31).

Ignorare le immense moltitudini di affamati, di mendicanti, di senzatetto, senza assistenza medica e soprattutto senza speranza di un futuro migliore - scriveva Giovanni Paolo II nell'enciclica Sollicitudo rei socialis al n. 42 - significa «assimilarci al ricco epulone che fingeva di non conoscere Lazzaro il mendico, giacente fuori della sua porta».

Noi tendiamo a mettere dei doppi vetri tra noi e i poveri.

L'effetto dei doppi vetri, oggi così sfruttato, è che impedisce il passaggio del freddo e dei rumori, stempera tutto, fa giungere tutto attutito, ovattato. E infatti vediamo i poveri muoversi, agitarsi, urlare dietro lo schermo televisivo, sulle pagine dei giornali e delle riviste missionarie, ma il loro grido ci giunge come da molto lontano.

Non arriva al cuore, o vi arriva solo per un momento.

La prima cosa da fare nei confronti dei poveri è dunque di rompere i "doppi vetri", superare l'indifferenza, l’insensibilità, gettare via le difese e lasciarci invadere da una sana inquietudine a causa della miseria spaventosa che c'è nel mondo.

Siamo chiamati a condividere il sospiro di Cristo: «Sento compassione di questa folla che non ha niente da mangiare» (cfr. Mc 8,2).

Quando si ha occasione di vedere di persona, visitando i villaggi interni di certi paesi africani, cos'è la miseria e la fame, non sulla carta ma nella realtà, questo non è più tanto difficile...

Eliminare o ridurre l'ingiusto e scandaloso abisso che esiste tra i sazi e gli affamati del mondo è il compito più urgente e più ingente che il millennio appena concluso ha lasciato in eredità al nuovo da poco iniziato.

Un compito in cui anzitutto le religioni dovrebbero distinguersi e nel quale ritrovarsi unite al di là di ogni rivalità.

Un'impresa così gigantesca non può essere promossa da nessun capo o potere politico, condizionato, com'è, dagli interessi della propria nazione e spesso da poteri economici forti.

Papa Benedetto XVI ne ha dato un esempio con il forte richiamo rivolto al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede:

«Tra i problemi più urgenti come non pensare ai milioni di persone, specialmente donne e bambini, che mancano di acqua, di cibo e di un tetto? Lo scandalo della fame che tende ad aggravarsi è inaccettabile in un mondo che dispone di beni, di conoscenze e di mezzi per mettervi fine» (Discorso di papa Benedetto XVI al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 8 gennaio 2007).

La tecnica permette oggi di scambiarsi in tempo reale ogni genere di informazione, senza barriere neppure tra primo e terzo mondo, ma si mostra incapace quando si tratta di scambiarsi i generi più indispensabili alla vita, quelli alimentari.

 

 

4. «Beati coloro che hanno fame di giustizia»

Dicevo all'inizio che le due versioni della beatitudine degli affamati, quella di Luca e quella di Matteo, non si pongono in alternativa, ma si integrano a vicenda.

Matteo non parla di fame materiale, ma di fame e sete «di giustizia».

Di queste parole sono state date due interpretazioni fondamentali.

La prima, in linea con la teologia luterana, interpreta la beatitudine alla luce di quello che dirà più tardi san Paolo sulla giustificazione mediante la fede.

Avere fame e sete di giustizia significa prendere coscienza del proprio bisogno di giustizia e della incapacità a procurarsela da soli con le opere, e quindi attenderla umilmente da Dio.

L'altra interpretazione vede nella giustizia «non quella che Dio stesso mette in atto o quella che egli concede, bensì quella che egli reclama dall'uomo, quella che merita a un uomo come Giuseppe il titolo di giusto».

Alla luce di questa seconda interpretazione, che è di gran lunga la più comune ed esegeticamente più fondata, la fame materiale di Luca e la fame spirituale di Matteo cessano di apparire senza rapporto tra di loro.

Stare dalla parte degli affamati e dei poveri rientra tra le opere di giustizia e sarà anzi, secondo Matteo, il criterio in base al quale avverrà alla fine la separazione tra i giusti e i reprobi (cfr. Mt 25).

Tutta la giustizia che Dio richiede dall'uomo si riassume nel duplice precetto dell'amore di Dio e del prossimo (cfr. Mt 22,40).

È l'amore del prossimo dunque che deve spingere gli affamati di giustizia a preoccuparsi degli affamati di pane.

È esso il grande principio attraverso cui il Vangelo agisce nel sociale.

Su questo punto aveva visto giusto la teologia liberale, come appare dalle parole di uno dei suoi più illustri rappresentanti, Adolph von Harnack:

«In nessun luogo del Vangelo, riscontriamo che esso insegni a mantenerci indifferenti di fronte ai fratelli. L'indifferenza evangelica (il non preoccuparsi del cibo, del vestito, del domani) esprime più che altro ciò che ciascuna anima deve sentire di fronte al mondo, ai suoi beni e alle sue lusinghe. Quando si tratta, invece, del prossimo, il Vangelo non vuol nemmeno sentir parlare di indifferenza, ma impone amore e pietà. Inoltre, il Vangelo considera come assolutamente inseparabili i bisogni spirituali e temporali dei fratelli».

Il vangelo non incita gli affamati a farsi giustizia da soli, a sollevarsi, anche perché al tempo di Gesù - a differenza di oggi - essi non avevano nessuno strumento, né teorico né pratico, per farlo; non chiede loro l'inutile sacrificio di andare a farsi ammazzare dietro qualche sobillatore zelota, o qualche Spartaco di casa. Gesù agisce sulla parte forte, non sulla parte debole; affronta, lui, l'ira e il sarcasmo dei ricchi con i suoi «guai» (cfr. Lc 16,14), non lascia che siano le vittime a farlo.

Cercare a tutti i costi nel Vangelo modelli o inviti espliciti rivolti ai poveri e agli affamati a cambiare essi stessi la loro situazione è vano e anacronistico e fa perdere di vista il vero contributo che esso può portare alla loro causa.

In ciò ha ragione Rudolph Bultmann, quando scrive che «il cristianesimo ignora qualunque programma di trasformazione del mondo e non ha proposte da presentare per la riforma delle condizioni politiche e sociali», anche se la sua affermazione avrebbe bisogno di qualche distinzione.

Quello delle beatitudini non è l'unico modo di affrontare il problema di ricchezza e povertà, fame e sazietà; ce ne sono altri, resi possibili dal progresso della coscienza sociale, che partono dalla storia e non dalla fede.

Ad essi giustamente i cristiani danno il loro appoggio e la Chiesa, con la sua dottrina sociale, il proprio discernimento.

Il grande messaggio delle beatitudini è che, indipendentemente da ciò che faranno o non faranno i ricchi e i sazi, anche così, allo stato attuale, la situazione dei poveri e degli affamati per la giustizia è preferibile a quella dei primi.

Ci sono piani e aspetti della realtà che non si colgono a occhio nudo, ma solo con l'ausilio di una luce speciale, ai raggi infrarossi o ultravioletti.

Se ne fa largo uso nelle fotografie dai satelliti.

L'immagine ottenuta con questa luce è molto diversa e sorprendente per chi è abituato a vedere quello stesso panorama alla luce naturale.

Le beatitudini sono una specie di raggi infrarossi: ci danno della realtà un'immagine diversa, l'unica vera, perché mostra ciò che alla fine resterà, quando sarà passata «la scena di questo mondo».

5. Pane materiale e pane eucaristico

Gesù ci ha lasciato un'antitesi perfetta del banchetto del ricco epulone, l'Eucaristia.

Essa è la celebrazione quotidiana del grande banchetto al quale il padrone invita «poveri, storpi, ciechi e zoppi» (Lc 16,21), cioè tutti i poveri Lazzari che ci sono in giro.

In essa si realizza la perfetta "commensalità": lo stesso cibo e la stessa bevanda, e nella stessa quantità, per tutti, per chi presiede come per l'ultimo arrivato nella comunità, per il ricchissimo come per il poverissimo.

Il legame tra il pane materiale e quello spirituale era ben visibile nei primi tempi della Chiesa, quando la cena del Signore, detta agape, avveniva nel quadro di un pasto fraterno, in cui si condivideva sia il pane comune sia quello eucaristico.

Ai corinzi che avevano tralignato su questo punto, san Paolo scriveva: «Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l'altro è ubriaco» (1Cor 11,20-22).

Accusa gravissima; come dire: la vostra non è più un'Eucaristia!

Oggi l'Eucaristia non si celebra più nel contesto del pasto comune, ma il contrasto tra chi ha il superfluo e chi non ha il necessario ha assunto dimensioni planetarie, anche tra i cristiani.

La recente esortazione post-sinodale sull'Eucaristia lo ricorda con forza: «Il cibo della verità ci spinge a denunciare le situazioni indegne dell'uomo, in cui si muore per mancanza di cibo a causa dell'ingiustizia e dello sfruttamento, e ci dona nuova forza e coraggio per lavorare senza sosta all'edificazione della civiltà dell'amore» (Sacramentum caritatis, n. 90).

L'otto per mille meglio speso è quello che viene destinato dalla Chiesa a questo scopo, sostenendo le varie Caritas nazionali e diocesane, le mense dei poveri, iniziative per l'alimentazione nei paesi in via di sviluppo.

Uno dei segni di vitalità delle nostre comunità religiose, come dei nuovi movimenti ecclesiali, sono le mense dei poveri esistenti in quasi tutte le città, in cui vengono distribuite migliaia di pasti al giorno in un clima di rispetto e di accoglienza.

È una goccia in un oceano di povertà, ma anche l'oceano, diceva Madre Teresa di Calcutta, è fatto di tante piccole gocce.

Mi piace terminare con la preghiera che si recita ogni giorno nelle nostre comunità cappuccine prima del pasto: «Benedici, Signore, questo cibo che per tua bontà stiamo per prendere, aiutaci a provvederne anche per quelli che non ne hanno e rendici partecipi un giorno della tua mensa celeste. Per Cristo nostro Signore».

 

 

 

PER UN ESAME DI COSCIENZA BASATO SULLE BEATITUDINI

 

«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati».

Io ho fame e sete di santità?

Tendo alla santità, o mi sono da tempo rassegnato alla mediocrità e alla tiepidezza?

La fame materiale di milioni di persone mette in crisi la mia continua ricerca di comodità, il mio stile di vita borghese?

Mi rendo conto di quanto io e il mondo in cui vivo ci troviamo di fatto nella situazione del ricco epulone?

 

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