Beati i miti

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Meditazione n. 3

«BEATI I MITI,

PERCHÉ POSSEDERANNO LA TERRA»

 Per scoprire chi sono i miti proclamati beati da Gesù, giova passare brevemente in rassegna i vari termini con cui la parola «miti» (praeis) è resa nelle traduzioni moderne.

L'italiano ha due termini: miti e mansueti.

Quest'ultimo è anche il termine usato nelle traduzioni spagnole, los mansos, i mansueti.

In francese la parola è tradotta con doux, alla lettera «i dolci», coloro che possiedono la virtù della dolcezza. Non esiste in francese un termine specifico per dire mitezza; nel Dìctìonnaire de spiritualité questa virtù e trattata alla voce douceur «dolcezza».

In tedesco si alternano diverse traduzioni. Lutero traduceva il termine con «miti, dolci» (Sanftmutigen); nella «Bibbia dell'unità», la traduzione tedesca ecumenica della Bibbia, i miti sono coloro che «non fanno alcuna violenza», i non violenti; sempre in questa linea, alcuni accentuano la dimensione oggettiva e sociologica e traducono il termine greco con inermi, «senza potere» (Machtlosen).

L'inglese legge nella beatitudine una sfumatura di gentilezza e di cortesia, traducendo praeis con «gentili» (the gentle).

Ognuna di queste traduzioni mette in luce una componente vera, ma parziale della beatitudine. Bisogna tenerle insieme e non isolarne nessuna, per avere un'idea della ricchezza originaria del termine evangelico.

Due associazioni costanti, nella Bibbia e nella parenesi cristiana antica, aiutano a cogliere il "senso pieno" di mitezza:

una è quella che accosta tra loro mitezza e umiltà, l'altra quella che accosta mitezza e pazienza;

l'una mette in luce le disposizioni interiori da cui scaturisce la mitezza, l'altra gli atteggiamenti che spinge ad avere nei confronti del prossimo: affabilità, benignità, rispetto, gentilezza.

Gli stessi tratti che l'Apostolo mette in luce parlando della carità (1Cor 3 3,4-5).

 

1. Due chiavi di lettura delle beatitudini

Gesù proclama: «Beati i miti», e, in un altro passo dello stesso Vangelo di Matteo, esclama: «Imparate da me che sono mite ed umile di cuore» (Mt 11,29).

Ne deduciamo che le beatitudini non sono solo un bel programma etico che il Maestro traccia, per così dire a tavolino, per i suoi seguaci; sono l'autoritratto di Gesù! È lui il vero povero, il mite, il puro di cuore, il perseguitato per la giustizia. «Abbiamo trovato il vero povero! - esclama sant'Agostino -. Esso è colui che sarà trovato essere membro di questo Povero».

 

Questo ci offre l'occasione di mettere in luce le due diverse interpretazioni di fondo delle beatitudini evangeliche che sono state date nel corso della storia: l'interpretazione morale e l'interpretazione cristologica.

 

Un'interpretazione morale è, per esempio, quella di san Tommaso d'Aquino, che tratta delle beatitudini nella parte morale della Somma, nel contesto delle virtù e dei doni.

Secondo l'interpretazione morale, con le beatitudini Gesù traccia per i suoi discepoli un ideale di perfezione che trascende la legge.

Le esigenze che esse pongono possono parere a volte impraticabili, per questo non sono date come "precetti", ma, appunto, come "beatitudini".

Nella distinzione scolastica tra precetti e consigli evangelici, esse rientrano piuttosto nella categoria dei consigli, delle opere cosiddette "supererogatorie".

Lutero si mantiene dentro questa interpretazione morale, ma in un certo senso rovesciandola.

Le esigenze irrealizzabili di Gesù servono solo a rivelare all'uomo il proprio peccato e la propria impotenza a fare il bene, spingendolo così a non riporre la propria fiducia che nella grazia di Cristo.

Hanno un valore, per così dire, "accusatorio", come del resto, secondo Paolo, tutta la legge antica.

Non indicano ciò che dobbiamo fare, ma ciò che non possiamo fare da soli.

Anche per san Tommaso, le beatitudini, come tutti i precetti morali del vangelo, sarebbero «lettera che uccide», se non si aggiungesse, dentro, la «grazia della fede che sana»; non per questo, però, egli riduce il loro scopo a pura e semplice «rivelazione del peccato».

 

La chiave di lettura cristologica, invece, è quella che legge le beatitudini non come "specchio dei peccati" dell'uomo, ma come affermazioni su Cristo e sull'uomo nuovo, modellato su di lui.

Non in negativo, ma in positivo.

In questo senso dicevo che le beatitudini sono fondamentalmente l'autoritratto di Gesù.

Come sempre, la cosa da fare non è di opporre questi due modi di considerare le beatitudini, ma di tenerli uniti.

Esse hanno certamente una valenza morale, e in quanto tali richiedono l'accettazione e la collaborazione dell'uomo, ma il loro fondamento è cristologico, dicono chi è Gesù.

Proprio da ciò, dal dovere dell'imitazione di Cristo, scaturisce anzi intrinsecamente la loro valenza morale.

Possiamo parlare, in entrambi i casi, di una lettura cristologica delle beatitudini, a patto di considerare correttamente il Cristo come "dono da ricevere mediante la fede", e, nello stesso tempo, come "modello da imitare mediante le opere".

È qui, io credo, il limite di Gandhi nel suo approccio al discorso della montagna che pure ammirava tanto. Per lui, esso potrebbe anche prescindere del tutto dalla persona storica di Cristo. «Non mi importerebbe nemmeno - egli disse in un'occasione - se qualcuno dimostrasse che l'uomo Gesù in realtà non visse mai e che quanto si legge nei vangeli non è che frutto dell'immaginazione dell'autore. Perché il sermone della montagna resterebbe pur sempre vero ai miei occhi».

È, al contrario, la persona e la vita di Cristo che fanno delle beatitudini e dell'intero discorso della montagna qualcosa di più che una splendida utopia etica; ne fanno una realizzazione storica, da cui ognuno può attingere forza, per la comunione mistica che lo lega alla persona del Salvatore.

Non appartengono solo all'ordine dei doveri, ma anche a quello della grazia.

 

2. Gesù il mite

Se le beatitudini sono l'autoritratto di Cristo, la prima cosa da fare, nel commentare ognuna di esse, è di vedere come è stata vissuta da lui.

 

I vangeli sono, da un capo all'altro, la dimostrazione della mitezza di Cristo, nel suo duplice aspetto di umiltà e di pazienza.

Egli stesso, abbiamo ricordato, si propone come modello di mitezza.

A lui Matteo applica le parole dette del Servo di Dio in Isaia: «Non discuterà, né griderà, non spezzerà la canna incrinata e non spegnerà il lucignolo fumigante» (cfr. Mt 12,20).

Il suo ingresso in Gerusalemme cavalcando un'asina è visto come un esempio di re «mite» che rifugge da ogni idea di violenza e di guerra (cfr. Mt 21,4).

La prova massima della mitezza di Cristo si ha, però, nella sua passione. Nessun moto d'ira, nessuna minaccia: «Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta» (lPt 2,23).

Questo tratto della persona di Cristo si era talmente stampato nella memoria dei suoi discepoli che san Paolo, volendo scongiurare i corinzi per qualcosa di caro e di sacro, scrive loro: «Vi esorto per la mitezza [prautes] e la benignità [epieikeia] di Cristo» (2Cor 10,1).

Ma Gesù ha fatto ben più che darci un esempio di mitezza e di pazienza eroica; ha fatto della mitezza e della non violenza il segno della vera grandezza.

Questa non consisterà più nell'elevarsi solitari sugli altri, sulla massa, ma nell'abbassarsi per servire ed elevare gli altri.

Sulla croce, dice Agostino, egli rivela che «la vera vittoria non consiste nel fare vittime, ma nel farsi vittima».

Nietzsche, si sa, si è opposto a questa visione, definendola una «morale da schiavi», suggerita dal «risentimento» naturale dei deboli verso i forti. Predicando l'umiltà e la mitezza, il farsi piccoli, il porgere l'altra guancia, il cristianesimo avrebbe introdotto, secondo lui, una specie di cancro nell'umanità che ne ha spento lo slancio e mortificato la vita.

Da qualche tempo si assiste al tentativo di assolvere Nietzsche da ogni accusa, di addomesticarlo e perfino di cristianizzarlo. Si dice che, in fondo, egli non se la prende contro Cristo, ma contro i cristiani che in certe epoche hanno, effettivamente, predicato una rinuncia fine a se stessa, disprezzando la vita e infierendo contro il corpo... Tutti avrebbero travisato il vero pensiero del filosofo, a cominciare da Hitler. In realtà, egli sarebbe stato un profeta dei tempi nuovi, il precursore dell'era postmoderna.

È rimasta, si può dire, una sola voce a opporsi a questa tendenza: quella del pensatore francese Rene Girard. Secondo lui, tutti questi tentativi fanno torto anzitutto a Nietzsche. Con una perspicacia davvero unica per il suo tempo, Nietzsche ha colto il vero nocciolo del problema, l'alternativa irriducibile tra paganesimo e cristianesimo.

Il paganesimo esalta il sacrificio del debole a favore del forte e dell'avanzamento della vita; il cristianesimo esalta il sacrificio del forte a favore del debole. È difficile non vedere un nesso oggettivo tra la proposta di Nietzsche e il programma hitleriano di eliminazione di interi gruppi umani per l'avanzamento della civiltà e la purezza della razza.

Non è dunque soltanto il cristianesimo il bersaglio del filosofo, ma anche Cristo. «Dioniso contro il crocifisso: eccovi l'antitesi», esclama in uno dei suoi frammenti postumi.

Quello che forma il più grande vanto della società moderna - la preoccupazione per le vittime, lo stare dalla parte del debole e dell'oppresso, la difesa della vita minacciata - è in realtà un prodotto diretto della rivoluzione evangelica che però, per un paradossale gioco di rivalità mimetiche, viene ora rivendicato da altri movimenti, come conquista propria, in opposizione addirittura al cristianesimo.

Non è vero che il vangelo mortifica il desiderio di fare grandi cose e di primeggiare.

Gesù dice: «Se qualcuno vuol essere il primo, si faccia l'ultimo di tutti e il servo di tutti» (Mc 9,35).

È dunque lecito, e anzi raccomandato, di voler essere il primo; solo il cammino per giungervi è cambiato: non elevandosi sopra gli altri, magari schiacciandoli se sono di ostacolo, ma abbassandosi per elevare gli altri insieme con sé.

 

3. Mitezza e tolleranza

La beatitudine dei miti è diventata di straordinaria rilevanza nel dibattito su religione e violenza, accesosi dopo l’11 settembre.

Essa ricorda, anzitutto a noi cristiani, che il Vangelo non lascia spazio a dubbi. Non ci sono, in esso, esortazioni alla non violenza, mescolate a esortazioni contrarie.

I cristiani possono, in certe epoche, aver tralignato su ciò, ma la fonte è limpida e ad essa la Chiesa può tornare a ispirarsi in ogni epoca, sicura di non trovarvi che verità e santità.

Il Vangelo dice che «chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,16), ma condannato in cielo, non in terra, da Dio, non dagli uomini. «Quando vi perseguiteranno in una città - dice Gesù - fuggite in un'altra» (Mt 10,23); non dice: «Mettetela a ferro e fuoco».

Una volta, due suoi discepoli, Giacomo e Giovanni, non essendo stati ricevuti in un certo villaggio di samaritani, dissero a Gesù: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?»; ma Gesù «si voltò e li rimproverò». Molti manoscritti riportano anche il tenore del rimprovero: «Voi non sapete di che spirito siete. Poiché il Figlio dell'uomo non è venuto a perdere le anime degli uomini, ma a salvarle» (cfr. Lc 9,53-55).

Il famoso compelle intrare, «costringeteli a entrare», con cui sant'Agostino, anche se a malincuore, giustifica la sua approvazione delle leggi imperiali contro i Donatisti e che servirà in seguito a giustificare la coercizione nei confronti degli eretici, è dovuto a un'evidente forzatura del testo evangelico, frutto di una lettura meccanicamente letterale della Bibbia.

[S. Agostino. Epistola 93,5: «Dapprima ero del parere che nessuno dovesse essere condotto per forza all'unità di Cristo, ma si dovesse agire solo con la parola, combattere con la discussione, convincere con la ragione»].

La frase è messa da Gesù in bocca all'uomo che aveva preparato una grande cena e, di fronte al rifiuto degli invitati di venire, dice ai servi di andare per le strade e lungo le siepi e di «costringere poveri, storpi, ciechi e zoppi ad entrare» (cfr. Lc 14,15-24). È chiaro che, nel contesto, costringere non significa altro che fare un'amabile insistenza. I poveri e gli storpi, come tutti gli infelici, potrebbero sentirsi imbarazzati a presentarsi al palazzo, male in arnese come sono; vincete la loro resistenza, raccomanda il padrone, dite loro che non abbiano paura ad entrare. Quante volte, in circostanze simili, noi stessi abbiamo detto: «Mi ha costretto ad accettare», sapendo bene che, in questi casi, l'insistenza è segno di benevolenza, non di violenza.

In un libro inchiesta su Gesù che tanta eco ha suscitato ultimamente in Italia si attribuisce a Gesù la frase: «E quei miei nemici che non volevano che diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me» (Lc 19,27), e se ne deduce che «è a frasi come queste che si rifanno i sostenitori della "guerra santa"» [C. Augias - M. Pesce, Inchiesta su Gesù, Mondadori. Milano 2006, p. 52. 46].

Ora va precisato che Luca non attribuisce tali parole a Gesù, ma al re della parabola e si sa che non si possono trasferire di peso dalla parabola alla realtà tutti i dettagli del racconto parabolico, e in ogni caso essi vanno trasferiti dal piano materiale a quello spirituale.

Il senso metaforico di quelle parole è che accettare o rifiutare Gesù non è senza conseguenze; è una questione di vita o di morte, ma vita e morte spirituale, non fisica. La guerra santa non c'entra proprio.

 

4. Con mitezza e rispetto

Ma lasciamo da parte queste considerazioni di ordine apologetico e cerchiamo di vedere come fare della beatitudine dei miti una luce per la nostra vita cristiana.

 

C'è un'applicazione pastorale della beatitudine dei miti che inizia già con la Prima Lettera di Pietro.

Essa riguarda il dialogo con il mondo esterno: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con mitezza [prautes] e rispetto» (lPt 3,15-16).

Vi sono stati fin dall'antichità due tipi di apologetica, uno ha il suo modello in Tertulliano, l'altro in Giustino; l'uno mira a vincere, l'altro a convincere.

Giustino scrive un Dialogo con Trifone giudeo, Tertulliano (o un suo discepolo) scrive un trattato Contro i giudei (Adversus Judeos).

Tutti e due questi stili hanno avuto un seguito nella letteratura cristiana (il nostro Giovanni Papini era certamente più vicino a Tertulliano che a Giustino), ma certo oggi è da preferire il primo.

L'enciclica Dio è amore di Benedetto XVI è un esempio luminoso di questa presentazione rispettosa e costruttiva dei valori cristiani che dà ragione della speranza cristiana «con mitezza e rispetto».

Il martire sant'lgnazio d'Antiochia suggeriva ai cristiani del suo tempo, nei confronti del mondo esterno, questo atteggiamento sempre attuale: «Davanti alla loro ira, siate miti; di fronte alla loro boria, siate umili».

La promessa legata alla beatitudine dei miti - «possiederanno la terra» - si realizza su diversi piani, fino alla terra promessa definitiva che è la vita eterna, ma certamente uno dei piani è quello umano: la terra sono i cuori degli uomini.

I miti conquistano la fiducia, attirano gli animi.

Il santo per eccellenza della mitezza e della dolcezza, san Francesco di Sales, soleva dire: «Siate più dolci che potete e ricordatevi che si prendono più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto».

 

5. Imparate da me che sono mite

Si potrebbe insistere a lungo su queste applicazioni pastorali della beatitudine dei miti, ma passiamo a un'applicazione più personale.

Gesù dice: «Imparate da me che sono mite».

Si potrebbe obiettare: ma Gesù non si è mostrato, lui stesso, sempre mite!

Dice, per esempio, di non opporsi al malvagio, e «a chi ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra» (Mt 5,39). Quando però una delle guardie percosse lui sulla guancia, durante il processo davanti al Sinedrio, non è scritto che porse l'altra, ma con calma rispose: «Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18,23).

Questo significa che nel discorso della montagna, non tutto va preso meccanicamente alla lettera.

Secondo il suo stile e le esigenze dell'insegnamento orale, Gesù usa delle iperboli e un linguaggio immaginifico per meglio imprimere nella mente dei discepoli una certa idea.

Nel caso del porgere l'altra guancia, per esempio, l'importante non è il gesto di porgere l'altra guancia (che a volte può perfino apparire provocatorio), ma di non rispondere alla violenza con altra violenza, di vincere l'ira con la calma.

In questo senso, la sua risposta alla guardia è l'esempio di una mitezza divina.

Per misurarne la portata, basta confrontarla con la reazione del suo apostolo Paolo (che pure era un santo) in una situazione analoga. Quando, nel processo davanti al sinedrio, il sommo sacerdote Anania ordina di percuotere Paolo sulla bocca, egli risponde: «Dio percuoterà te, muro imbiancato» (At 23,2-3).

 

Un altro dubbio va chiarito. Nello stesso discorso della montagna Gesù dice: «Chi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna» (Mt 5,22).

Ora, più volte nel vangelo egli si rivolge agli scribi e ai farisei chiamandoli «ipocriti, stolti e ciechi» (cfr. Mt 23,17); rimprovera i discepoli chiamandoli «sciocchi e tardi di cuore» (cfr. Lc 24,25).

Anche qui la spiegazione è semplice. Bisogna distinguere tra l'ingiuria e la correzione.

Gesù condanna le parole dette con rabbia e con l'intenzione di offendere il fratello, non quelle che mirano a fare prendere coscienza del proprio errore e a correggere.

Un padre che dice al figlio: sei un indisciplinato, un disobbediente, non intende offenderlo, ma correggerlo.

Mosè viene definito dalla Scrittura «più mansueto di ogni uomo che è sulla terra» (Nm 12,3), eppure nel Deuteronomio lo sentiamo esclamare rivolto a Israele: «Così ripaghi il Signore, o popolo stolto e insipiente?» (Dt 32,6).

Quello che decide è se chi parla lo fa per amore o per odio.

«Ama e fa' ciò che vuoi», diceva sant'Agostino.

Se ami, sia che correggi, sia che lasci correre, sarà amore.

L'amore non fa alcun male al prossimo; dalla radice dell'amore, come da albero buono, non possono nascere che frutti buoni.

 

Siamo giunti così al terreno proprio della beatitudine dei miti, il cuore.

Gesù dice: «Imparate da me che sono mite ed umile di cuore».

La vera mitezza si decide lì. È dal cuore, dice, che provengono omicidi, cattiverie, calunnie (Mc 7,21-22), come dai ribollimenti interni del vulcano fuoriescono lava, cenere e lapilli infuocati.

Le più grandi esplosioni di violenza, guerre e liti cominciano segretamente dalle «passioni che si agitano dentro il cuore dell'uomo» (cfr. Gc 4,1-2).

Come esiste un adulterio del cuore, così esiste un omicidio del cuore: «Chiunque odia il proprio fratello - scrive Giovanni - è omicida» (lGv 3,15).

Non c'è solo la violenza delle mani, c'è anche quella dei pensieri.

Dentro di noi, se ci facciamo caso, si svolgono quasi in continuazione "processi a porte chiuse".

Dicevo che nelle traduzioni inglesi delle beatitudini al posto di miti si trova la parola gentle, i gentili. C'è in questo termine una sfumatura della mitezza che è importante raccogliere.

San Paolo faceva ai cristiani di Filippi questa raccomandazione: «La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini» (Fil 4,5).

La parola greca che traduciamo con "affabilità" significa tutto un complesso di atteggiamenti che vanno dalla clemenza, alla capacità di saper cedere e di mostrarsi amabile, tollerante e accogliente.

Non siamo lontani da ciò che intendiamo oggi per "gentilezza".

È necessario riscoprire anzitutto il valore umano di questa virtù. La gentilezza è una virtù a rischio, o addirittura in estinzione, nella società in cui viviamo.

La violenza gratuita nei film e in televisione, il linguaggio volutamente volgare, la gara a chi spinge più oltre i limiti del tollerabile in fatto di brutalità e di sesso esplicito in pubblico ci stanno rendendo assuefatti a ogni espressione del brutto e del volgare.

La gentilezza è un balsamo nei rapporti umani. Io sono convinto che si vivrebbe tanto meglio in famiglia se ci fosse un po' più di gentilezza nei gesti, nelle parole e prima di tutto nei sentimenti del cuore. Nulla spegne la gioia di stare insieme quanto la rozzezza del tratto.

«Una risposta gentile - dice la Scrittura - calma la collera, una parola pungente eccita l'ira... Una lingua dolce è un albero di vita» (Pro 15,1.4).

«Una bocca amabile moltiplica gli amici, un linguaggio gentile attira i saluti» (Sir 6,5).

Una persona gentile lascia una scia di simpatia e di ammirazione dovunque passa.

«Come è gentile!», è la prima frase che viene pronunciata, appena si è allontanata.

 

Accanto a questo valore umano, dobbiamo riscoprire il valore evangelico della gentilezza che non è solo questione di educazione e di buone maniere.

Nella Bibbia i termini "mite" e "mansueto" non hanno il senso passivo di "sottomesso"', "remissivo", ma quello attivo di persona che agisce con rispetto, cortesia, clemenza verso gli altri.

Paolo pone la gentilezza tra i frutti dello Spirito quando dice che frutto dello Spirito è «amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22).

Per san Tommaso d'Aquino la gentilezza è una qualità della carità. Essa non esclude la giusta collera, sa però moderarla in modo che non impedisca dal giudicare le cose con serenità e giustizia. È il segno più chiaro che riconosciamo in chi ci sta davanti una persona umana, con la sua sensibilità e dignità, che non ci sentiamo superiori.

 

6. Rivestirsi della mitezza di Cristo

Un'osservazione prima di concludere.

Per loro natura, le beatitudini sono orientate alla pratica; fanno appello all'imitazione, accentuano l'opera dell'uomo.

C'è il rischio che si resti scoraggiati nel constatare l'incapacità di attuarle nella propria vita e la distanza abissale che c'è tra l'ideale e la pratica.

Qui può essere utile richiamare alla mente lo scopo che Lutero assegnava alle beatitudini; spingere il peccatore a riconoscere la propria impotenza e ad appropriarsi delle virtù di Cristo.

Le beatitudini, si diceva, sono l'autoritratto di Gesù. Egli le ha vissute tutte e in grado sommo; ma - e qui sta la buona notizia - non le ha vissute solo per sé, ma anche per tutti noi.

Nei confronti delle beatitudini, non siamo chiamati solo all'imitazione, ma anche all'appropriazione.

Nella fede possiamo attingere dalla mitezza di Cristo, come dalla sua purezza di cuore e da ogni altra sua virtù.

Possiamo pregare per avere la mitezza, come Agostino pregava per avere la castità: «O Dio, tu mi comandi di essere mite; dammi ciò che mi comandi e comandami ciò che vuoi».

«Rivestitevi, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine [prautes], di pazienza» (Col 3,12), scrive l'Apostolo ai colossesi.

La mansuetudine e la mitezza sono come un vestito che Cristo ci ha meritato e di cui, nella fede, possiamo ricoprirci. Non, s'intende, per essere dispensati dalla pratica, ma per animarci ad essa.

La mitezza (prauies) è posta da Paolo tra i frutti dello Spirito (Gal 5,23), cioè tra le qualità che il credente mostra nella propria vita, quando accoglie lo Spirito di Cristo e si sforza di corrispondervi.

Possiamo dunque terminare ripetendo insieme con fiducia la bella invocazione delle litanie del Sacro Cuore: «Gesù, mite ed umile di cuore, rendi il nostro cuore simile al tuo».

 

 

PER UN ESAME DI COSCIENZA BASATO SULLE BEATITUDINI

«Beati i miti, perché erediteranno la terra».

Io sono mite?

C'è una violenza delle azioni, ma anche una violenza delle parole e dei pensieri.

Domino l'ira fuori e dentro di me?

Sono gentile e affabile con chi mi sta vicino?

 

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