Meditazione n. 3
«BEATI I
MITI,
PERCHÉ
POSSEDERANNO LA TERRA»
Per scoprire
chi sono i miti proclamati beati da Gesù, giova passare brevemente in rassegna i
vari termini con cui la parola «miti» (praeis) è resa nelle traduzioni
moderne.
L'italiano ha due termini: miti e
mansueti.
Quest'ultimo è anche il termine usato
nelle traduzioni spagnole, los mansos, i mansueti.
In francese
la parola è tradotta con doux, alla lettera «i dolci», coloro
che possiedono la virtù della dolcezza.
Non esiste in francese un termine specifico
per dire mitezza; nel Dìctìonnaire
de spiritualité
questa virtù e trattata alla voce douceur «dolcezza».
In tedesco
si alternano diverse traduzioni. Lutero traduceva
il termine con
«miti, dolci» (Sanftmutigen); nella
«Bibbia dell'unità», la traduzione
tedesca ecumenica della Bibbia, i miti sono
coloro che «non fanno alcuna violenza», i non violenti; sempre in questa linea,
alcuni accentuano la dimensione oggettiva e sociologica e
traducono il termine greco con inermi,
«senza potere»
(Machtlosen).
L'inglese legge
nella beatitudine una
sfumatura di
gentilezza e di cortesia, traducendo
praeis
con «gentili»
(the gentle).
Ognuna di
queste traduzioni mette in luce una componente
vera, ma parziale della beatitudine. Bisogna
tenerle
insieme e non isolarne nessuna, per avere un'idea
della ricchezza originaria del termine evangelico.
Due
associazioni costanti, nella Bibbia e nella parenesi
cristiana antica, aiutano a cogliere il "senso pieno"
di mitezza:
una è quella
che accosta tra loro mitezza e
umiltà,
l'altra quella che accosta mitezza e pazienza;
l'una mette in
luce le disposizioni interiori da cui scaturisce
la mitezza, l'altra gli atteggiamenti che spinge
ad avere nei confronti del prossimo:
affabilità, benignità, rispetto, gentilezza.
Gli stessi tratti che l'Apostolo
mette in luce parlando della carità (1Cor 3 3,4-5).
1. Due
chiavi di lettura delle beatitudini
Gesù proclama:
«Beati i miti», e, in un altro passo
dello stesso
Vangelo di Matteo, esclama: «Imparate da
me che sono
mite ed umile di cuore» (Mt 11,29).
Ne
deduciamo
che le beatitudini non sono solo un bel
programma etico
che il Maestro traccia, per così dire
a tavolino, per
i suoi seguaci; sono l'autoritratto di
Gesù! È lui il
vero povero, il mite, il puro di cuore, il
perseguitato
per la giustizia. «Abbiamo trovato il vero
povero! -
esclama sant'Agostino -. Esso è colui che
sarà trovato
essere membro di questo Povero».
Questo ci offre
l'occasione di mettere in luce le due
diverse
interpretazioni di fondo delle beatitudini
evangeliche che
sono state date nel corso della storia:
l'interpretazione morale e l'interpretazione cristologica.
Un'interpretazione
morale è, per esempio, quella
di san Tommaso
d'Aquino, che tratta delle beatitudini
nella parte
morale della Somma, nel contesto delle
virtù e dei
doni.
Secondo
l'interpretazione morale,
con le
beatitudini Gesù traccia per i suoi discepoli un ideale di perfezione che
trascende la legge.
Le esigenze
che esse pongono possono parere a volte impraticabili, per questo non sono date
come "precetti", ma, appunto, come "beatitudini".
Nella
distinzione scolastica
tra precetti e consigli evangelici, esse rientrano piuttosto nella categoria dei
consigli, delle opere cosiddette "supererogatorie".
Lutero si
mantiene dentro questa interpretazione
morale, ma in un certo senso rovesciandola.
Le esigenze
irrealizzabili di Gesù servono solo a rivelare
all'uomo il proprio peccato e la propria impotenza a
fare il bene, spingendolo così a non riporre
la propria
fiducia che nella grazia di Cristo.
Hanno un
valore,
per così dire, "accusatorio", come del resto, secondo
Paolo,
tutta la legge antica.
Non indicano
ciò che
dobbiamo
fare, ma ciò
che non possiamo fare da soli.
Anche per san Tommaso, le beatitudini,
come tutti i precetti morali del vangelo,
sarebbero «lettera che uccide», se non
si aggiungesse, dentro, la «grazia
della fede che sana»; non per questo, però, egli riduce il loro scopo a pura e semplice «rivelazione del
peccato».
La chiave di
lettura cristologica, invece, è quella
che legge le
beatitudini non come "specchio dei peccati"
dell'uomo, ma come affermazioni su Cristo e
sull'uomo nuovo,
modellato su di lui.
Non in negativo,
ma in positivo.
In questo senso
dicevo che le beatitudini sono fondamentalmente l'autoritratto di
Gesù.
Come sempre, la
cosa da fare non è di opporre questi
due modi di considerare le beatitudini, ma di tenerli
uniti.
Esse hanno certamente una valenza
morale, e in quanto tali richiedono
l'accettazione e la collaborazione
dell'uomo, ma il loro fondamento è cristologico,
dicono chi è Gesù.
Proprio da ciò,
dal dovere dell'imitazione
di Cristo, scaturisce anzi intrinsecamente la loro valenza morale.
Possiamo parlare, in entrambi
i casi, di una lettura cristologica delle
beatitudini, a patto di considerare
correttamente il Cristo come "dono da ricevere mediante la fede", e,
nello stesso tempo, come "modello da imitare mediante le opere".
È qui, io credo, il limite di Gandhi
nel suo approccio al discorso della montagna
che pure ammirava tanto. Per lui, esso
potrebbe anche prescindere del tutto dalla persona storica di Cristo.
«Non mi importerebbe nemmeno - egli disse in
un'occasione - se qualcuno
dimostrasse che l'uomo Gesù in realtà non visse mai e che quanto si legge nei
vangeli non è che frutto
dell'immaginazione dell'autore. Perché il sermone della montagna
resterebbe pur sempre vero ai
miei occhi».
È, al
contrario, la persona e la vita di Cristo che
fanno delle
beatitudini e dell'intero discorso della
montagna
qualcosa di più che una splendida utopia
etica; ne fanno
una realizzazione storica, da cui ognuno
può attingere forza, per la comunione mistica che
lo lega alla
persona del Salvatore.
Non
appartengono
solo all'ordine dei doveri, ma anche a quello della
grazia.
2. Gesù il
mite
Se le beatitudini sono l'autoritratto
di Cristo, la prima cosa da fare, nel commentare ognuna di esse, è di vedere
come è stata vissuta da lui.
I vangeli sono, da
un capo all'altro, la dimostrazione della mitezza di
Cristo, nel suo duplice
aspetto di umiltà e di pazienza.
Egli stesso,
abbiamo ricordato, si propone come modello
di mitezza.
A lui Matteo applica le parole dette
del Servo di Dio in Isaia: «Non discuterà, né griderà,
non spezzerà la canna incrinata e non spegnerà il lucignolo
fumigante» (cfr. Mt 12,20).
Il suo ingresso
in
Gerusalemme cavalcando un'asina è visto come un
esempio di re
«mite» che rifugge da ogni idea di violenza e di guerra (cfr. Mt 21,4).
La prova
massima della mitezza di Cristo si ha, però,
nella sua passione. Nessun moto d'ira, nessuna minaccia:
«Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e
soffrendo non minacciava vendetta»
(lPt 2,23).
Questo
tratto della persona di Cristo si era talmente stampato nella memoria dei
suoi discepoli che san Paolo, volendo
scongiurare i corinzi per qualcosa di caro e di sacro, scrive loro: «Vi
esorto per la mitezza [prautes]
e la benignità [epieikeia]
di Cristo» (2Cor 10,1).
Ma Gesù ha
fatto ben più che darci un esempio di
mitezza e di pazienza eroica; ha fatto della mitezza e
della non violenza il segno della vera grandezza.
Questa
non consisterà più nell'elevarsi solitari sugli altri,
sulla massa, ma nell'abbassarsi per
servire ed elevare gli
altri.
Sulla croce,
dice Agostino, egli rivela che
«la
vera vittoria non consiste nel fare vittime, ma nel farsi
vittima».
Nietzsche, si
sa, si è opposto a questa visione, definendola
una «morale da schiavi», suggerita dal «risentimento» naturale dei deboli verso
i forti. Predicando
l'umiltà e la mitezza, il farsi piccoli, il porgere
l'altra guancia, il cristianesimo avrebbe
introdotto, secondo lui, una specie di cancro nell'umanità che ne ha
spento lo slancio e
mortificato la vita.
Da qualche
tempo si assiste al tentativo di assolvere
Nietzsche da
ogni accusa, di addomesticarlo e perfino di cristianizzarlo. Si dice che, in
fondo, egli non se la
prende contro
Cristo, ma contro i cristiani che in certe epoche hanno, effettivamente,
predicato una rinuncia fine a se stessa, disprezzando la vita e infierendo
contro il corpo... Tutti avrebbero travisato il vero pensiero
del filosofo, a cominciare da Hitler.
In realtà, egli sarebbe stato un profeta dei
tempi nuovi, il precursore dell'era postmoderna.
È rimasta, si
può dire, una sola voce a opporsi a
questa
tendenza: quella del pensatore francese Rene
Girard. Secondo lui, tutti questi
tentativi fanno torto anzitutto a Nietzsche.
Con una perspicacia davvero unica per il suo tempo, Nietzsche ha colto il vero nocciolo
del problema, l'alternativa irriducibile tra paganesimo
e cristianesimo.
Il paganesimo
esalta il sacrificio
del debole a favore del forte e dell'avanzamento
della vita; il
cristianesimo esalta il sacrificio del forte
a favore del
debole. È difficile non vedere un nesso
oggettivo tra
la proposta di Nietzsche e il programma
hitleriano di eliminazione di interi
gruppi umani per
l'avanzamento della civiltà e la purezza della razza.
Non è dunque
soltanto il cristianesimo il bersaglio del
filosofo, ma
anche Cristo. «Dioniso contro il crocifisso:
eccovi l'antitesi», esclama in uno dei suoi frammenti
postumi.
Quello che forma il più grande vanto
della società moderna - la preoccupazione per
le vittime, lo stare dalla parte del debole e dell'oppresso, la difesa della
vita minacciata - è in realtà un
prodotto diretto della rivoluzione
evangelica che però, per un paradossale gioco di rivalità mimetiche,
viene ora rivendicato da altri movimenti,
come conquista propria, in opposizione
addirittura al cristianesimo.
Non è vero che il vangelo mortifica il
desiderio di fare
grandi cose e di primeggiare.
Gesù dice:
«Se qualcuno
vuol essere il primo,
si faccia
l'ultimo di tutti e il
servo di
tutti» (Mc 9,35).
È dunque
lecito, e anzi raccomandato,
di voler essere il primo; solo il cammino
per giungervi è cambiato: non
elevandosi sopra gli altri, magari schiacciandoli se sono di ostacolo, ma
abbassandosi per elevare gli altri insieme con sé.
3. Mitezza
e tolleranza
La beatitudine
dei miti è diventata di straordinaria
rilevanza nel
dibattito su religione e violenza, accesosi
dopo l’11 settembre.
Essa ricorda,
anzitutto a noi
cristiani, che il Vangelo non lascia spazio a dubbi.
Non ci
sono, in esso, esortazioni alla non violenza,
mescolate a esortazioni contrarie.
I cristiani possono, in certe epoche,
aver tralignato su ciò, ma la fonte è limpida e ad essa la Chiesa può tornare a
ispirarsi in ogni
epoca, sicura di non trovarvi che verità e santità.
Il Vangelo dice
che «chi non crederà sarà condannato»
(Mc 16,16), ma condannato in cielo, non in terra, da Dio, non dagli uomini.
«Quando vi perseguiteranno in una città - dice Gesù - fuggite in un'altra» (Mt
10,23); non dice:
«Mettetela a ferro e fuoco».
Una
volta, due suoi discepoli,
Giacomo e Giovanni, non essendo stati
ricevuti in un certo villaggio di samaritani,
dissero a Gesù: «Signore, vuoi che diciamo che
scenda un fuoco dal cielo e li consumi?»; ma Gesù «si
voltò e li rimproverò». Molti manoscritti
riportano anche il tenore del
rimprovero: «Voi non sapete di che
spirito siete. Poiché il Figlio dell'uomo non è venuto
a perdere le anime degli uomini, ma a salvarle» (cfr.
Lc 9,53-55).
Il famoso
compelle intrare, «costringeteli a entrare», con cui sant'Agostino, anche se
a malincuore,
giustifica la sua approvazione delle leggi imperiali
contro
i Donatisti e che servirà in seguito a giustificare la coercizione nei
confronti degli eretici, è dovuto
a un'evidente forzatura del testo evangelico, frutto
di una lettura
meccanicamente letterale della Bibbia.
[S. Agostino.
Epistola 93,5: «Dapprima ero del parere che nessuno dovesse essere
condotto per forza all'unità di Cristo, ma si dovesse agire solo con la parola,
combattere con la discussione, convincere con la ragione»].
La frase è
messa da Gesù in bocca all'uomo che
aveva preparato una grande cena e, di fronte al rifiuto degli
invitati di venire, dice ai servi di andare per le
strade e lungo le siepi e di «costringere
poveri, storpi, ciechi e zoppi ad entrare» (cfr. Lc 14,15-24). È chiaro che, nel
contesto, costringere non significa altro che fare un'amabile insistenza. I
poveri e gli storpi, come tutti gli
infelici, potrebbero sentirsi imbarazzati a presentarsi al palazzo, male in
arnese come sono; vincete la loro
resistenza, raccomanda il padrone, dite loro
che non abbiano paura ad entrare. Quante volte, in
circostanze simili, noi stessi abbiamo detto:
«Mi ha costretto ad accettare», sapendo
bene che, in questi casi,
l'insistenza è segno di benevolenza, non di violenza.
In un libro
inchiesta su Gesù che tanta eco ha suscitato
ultimamente in Italia si attribuisce a Gesù la frase:
«E quei miei nemici che non volevano che diventassi
loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a
me» (Lc 19,27), e se ne deduce che «è a
frasi come queste che si rifanno i sostenitori della "guerra santa"»
[C. Augias - M. Pesce, Inchiesta su Gesù, Mondadori. Milano 2006, p. 52.
46].
Ora va
precisato che Luca non attribuisce tali
parole a Gesù,
ma al re della parabola e si sa che non
si possono
trasferire di peso dalla parabola alla realtà
tutti i dettagli del racconto
parabolico, e in ogni caso essi vanno
trasferiti dal piano materiale a quello spirituale.
Il senso
metaforico di quelle parole è che accettare
o rifiutare Gesù non è senza conseguenze; è una questione di vita o di morte, ma
vita e morte spirituale,
non fisica. La guerra santa non c'entra proprio.
4. Con mitezza e rispetto
Ma lasciamo da
parte queste considerazioni di ordine apologetico e cerchiamo di vedere come
fare della
beatitudine dei miti una luce per la nostra vita cristiana.
C'è
un'applicazione pastorale della beatitudine dei
miti che
inizia già con la Prima Lettera di Pietro.
Essa
riguarda il dialogo con il mondo esterno: «Adorate il
Signore,
Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere
a chiunque vi domandi ragione della speranza
che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con mitezza
[prautes]
e rispetto» (lPt 3,15-16).
Vi sono stati fin dall'antichità due
tipi di apologetica, uno ha il suo modello in
Tertulliano, l'altro in Giustino;
l'uno mira a vincere, l'altro a convincere.
Giustino
scrive un Dialogo con Trifone giudeo, Tertulliano
(o un suo discepolo) scrive un trattato Contro i
giudei (Adversus Judeos).
Tutti e due
questi stili hanno
avuto un seguito nella letteratura cristiana (il nostro
Giovanni Papini era certamente più vicino a Tertulliano
che a Giustino), ma certo oggi è da preferire
il primo.
L'enciclica
Dio è amore di Benedetto XVI è
un esempio
luminoso di questa presentazione rispettosa
e costruttiva dei valori cristiani che dà ragione della speranza cristiana «con
mitezza e rispetto».
Il martire
sant'lgnazio d'Antiochia suggeriva ai
cristiani del
suo tempo, nei confronti del mondo
esterno, questo
atteggiamento sempre attuale: «Davanti
alla loro ira, siate miti; di fronte alla loro boria,
siate umili».
La promessa
legata alla beatitudine dei miti - «possiederanno la terra» - si realizza su
diversi piani, fino alla terra promessa definitiva che è la vita eterna, ma
certamente uno dei piani è quello umano: la terra sono i cuori degli uomini.
I miti
conquistano la fiducia, attirano
gli animi.
Il santo per
eccellenza della mitezza
e della dolcezza, san Francesco di Sales, soleva dire:
«Siate più dolci che potete e ricordatevi che si prendono
più mosche con una goccia di miele che con un
barile di aceto».
5. Imparate
da me che sono mite
Si potrebbe
insistere a lungo su queste applicazioni
pastorali della
beatitudine dei miti, ma passiamo a un'applicazione più personale.
Gesù dice:
«Imparate
da me che sono mite».
Si potrebbe
obiettare: ma Gesù
non si è
mostrato, lui stesso, sempre mite!
Dice, per
esempio, di non opporsi al malvagio, e «a chi ti percuote la guancia destra, tu
porgigli anche l'altra» (Mt
5,39). Quando
però una delle guardie percosse lui sulla
guancia, durante il processo davanti al Sinedrio,
non è scritto che porse l'altra, ma
con calma rispose: «Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho
parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18,23).
Questo significa che nel discorso
della montagna, non
tutto va preso meccanicamente alla lettera.
Secondo
il suo stile e le esigenze dell'insegnamento orale, Gesù usa delle iperboli e un
linguaggio immaginifico
per meglio imprimere nella mente dei discepoli
una certa idea.
Nel caso del
porgere l'altra guancia,
per esempio,
l'importante non è il gesto di porgere
l'altra
guancia (che a volte può perfino apparire provocatorio),
ma di non rispondere alla violenza con altra
violenza, di vincere l'ira con la calma.
In questo senso, la sua risposta alla
guardia è l'esempio di una
mitezza divina.
Per misurarne
la portata, basta confrontarla
con la reazione del suo apostolo Paolo (che
pure era un santo) in una situazione analoga. Quando,
nel processo davanti al sinedrio, il sommo sacerdote
Anania ordina di percuotere Paolo sulla
bocca, egli risponde: «Dio percuoterà
te, muro imbiancato» (At
23,2-3).
Un altro dubbio va chiarito. Nello
stesso discorso della montagna Gesù dice:
«Chi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli
dice: pazzo, sarà
sottoposto al fuoco della Geenna» (Mt 5,22).
Ora, più volte
nel vangelo egli si rivolge agli scribi e
ai farisei
chiamandoli «ipocriti, stolti e ciechi» (cfr.
Mt 23,17);
rimprovera i discepoli chiamandoli «sciocchi
e tardi di cuore» (cfr. Lc 24,25).
Anche qui la spiegazione è semplice.
Bisogna distinguere
tra l'ingiuria e la correzione.
Gesù condanna
le parole dette con rabbia e con l'intenzione di offendere il fratello, non
quelle che mirano a fare prendere
coscienza del
proprio errore e a correggere.
Un padre
che dice al figlio: sei un
indisciplinato, un disobbediente,
non intende offenderlo, ma correggerlo.
Mosè
viene definito dalla Scrittura
«più mansueto di ogni uomo che è sulla
terra» (Nm 12,3), eppure nel Deuteronomio lo sentiamo esclamare rivolto a
Israele: «Così ripaghi il Signore, o
popolo stolto e insipiente?»
(Dt 32,6).
Quello che
decide è se chi parla lo fa per amore o
per odio.
«Ama e fa' ciò
che vuoi», diceva sant'Agostino.
Se ami, sia che
correggi, sia che lasci correre,
sarà amore.
L'amore non fa alcun male al prossimo;
dalla radice dell'amore, come da albero
buono, non
possono nascere che frutti buoni.
Siamo giunti
così al terreno proprio della beatitudine
dei miti, il cuore.
Gesù dice: «Imparate da me che
sono mite ed
umile di cuore».
La vera
mitezza si decide lì. È dal cuore, dice, che provengono omicidi, cattiverie,
calunnie (Mc 7,21-22), come dai ribollimenti
interni del vulcano fuoriescono lava,
cenere e lapilli infuocati.
Le più grandi esplosioni di violenza,
guerre e liti cominciano segretamente dalle «passioni che si
agitano dentro il cuore
dell'uomo» (cfr. Gc 4,1-2).
Come esiste un
adulterio del cuore, così esiste un
omicidio del
cuore: «Chiunque odia il proprio fratello
- scrive
Giovanni - è omicida» (lGv 3,15).
Non c'è solo
la violenza delle mani, c'è anche quella dei pensieri.
Dentro di noi,
se ci facciamo caso, si svolgono quasi in continuazione "processi a porte
chiuse".
Dicevo che
nelle traduzioni inglesi delle beatitudini
al posto di
miti si trova la parola gentle, i gentili. C'è
in questo termine una sfumatura della
mitezza che è importante
raccogliere.
San Paolo faceva
ai cristiani
di Filippi questa raccomandazione: «La vostra affabilità
sia nota a tutti gli uomini» (Fil 4,5).
La parola greca
che traduciamo con "affabilità" significa tutto un
complesso di atteggiamenti che vanno dalla
clemenza, alla capacità di saper cedere e di mostrarsi amabile,
tollerante e accogliente.
Non siamo
lontani da ciò che
intendiamo oggi per "gentilezza".
È necessario
riscoprire anzitutto il valore umano di questa virtù. La gentilezza è una virtù
a rischio, o addirittura
in estinzione, nella società in cui viviamo.
La
violenza gratuita nei film e in
televisione, il linguaggio volutamente volgare, la gara a chi spinge più oltre i
limiti del tollerabile in fatto di brutalità e di sesso
esplicito in pubblico ci stanno rendendo
assuefatti a
ogni espressione del brutto e del volgare.
La gentilezza è un balsamo nei
rapporti umani. Io sono convinto che si
vivrebbe tanto meglio in famiglia se
ci fosse un po' più di gentilezza nei gesti, nelle
parole e prima di tutto nei sentimenti del cuore. Nulla
spegne la gioia di stare insieme quanto la
rozzezza del
tratto.
«Una risposta
gentile - dice la Scrittura - calma
la collera, una parola pungente eccita l'ira... Una lingua dolce è un albero di
vita» (Pro 15,1.4).
«Una
bocca
amabile moltiplica gli amici, un linguaggio
gentile attira i saluti» (Sir 6,5).
Una persona gentile
lascia una scia di simpatia e di ammirazione
dovunque passa.
«Come è
gentile!», è la prima frase che
viene
pronunciata, appena si è allontanata.
Accanto a
questo valore umano, dobbiamo riscoprire il valore evangelico della gentilezza
che non è solo
questione di educazione e di buone maniere.
Nella
Bibbia i
termini "mite" e "mansueto" non hanno il
senso passivo
di "sottomesso"', "remissivo", ma quello
attivo di persona che agisce con rispetto, cortesia,
clemenza verso gli altri.
Paolo pone la
gentilezza tra i frutti dello Spirito
quando dice che frutto dello Spirito è «amore, gioia, pace,
pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza,
dominio di sé» (Gal 5,22).
Per san
Tommaso d'Aquino
la gentilezza è una qualità della carità. Essa non
esclude la
giusta collera, sa però moderarla in modo
che non
impedisca dal giudicare le cose con serenità e
giustizia. È il
segno più chiaro che riconosciamo in
chi ci sta
davanti una persona umana, con la sua sensibilità e dignità, che non ci sentiamo
superiori.
6.
Rivestirsi della mitezza di Cristo
Un'osservazione prima di concludere.
Per loro natura, le beatitudini sono
orientate alla pratica; fanno
appello all'imitazione, accentuano l'opera dell'uomo.
C'è il rischio
che si resti scoraggiati nel constatare
l'incapacità
di attuarle nella propria vita e la distanza
abissale che c'è tra l'ideale e la
pratica.
Qui può essere utile richiamare alla mente lo scopo che Lutero assegnava
alle beatitudini; spingere il peccatore a riconoscere
la propria impotenza e ad appropriarsi delle
virtù di Cristo.
Le beatitudini,
si diceva, sono l'autoritratto di Gesù.
Egli le ha vissute tutte e in grado sommo; ma - e
qui sta la
buona notizia - non le ha vissute solo per
sé, ma anche per tutti noi.
Nei confronti delle beatitudini,
non siamo chiamati solo all'imitazione, ma
anche all'appropriazione.
Nella fede
possiamo attingere
dalla mitezza di Cristo, come dalla sua purezza
di cuore e da
ogni altra sua virtù.
Possiamo pregare
per avere la mitezza, come Agostino pregava per
avere la
castità: «O Dio, tu mi comandi di essere mite; dammi ciò che mi comandi e
comandami ciò che
vuoi».
«Rivestitevi, come amati di Dio, santi
e diletti, di sentimenti di misericordia, di
bontà, di umiltà, di mansuetudine [prautes],
di pazienza» (Col 3,12), scrive
l'Apostolo ai colossesi.
La
mansuetudine e la mitezza sono come un vestito che Cristo ci ha meritato e
di cui, nella fede, possiamo ricoprirci. Non, s'intende,
per essere
dispensati dalla pratica, ma per animarci ad
essa.
La mitezza
(prauies) è posta da Paolo tra i frutti
dello Spirito (Gal 5,23), cioè tra le
qualità che il credente mostra nella propria
vita, quando accoglie lo
Spirito di Cristo e si sforza di corrispondervi.
Possiamo dunque
terminare ripetendo insieme con
fiducia la
bella invocazione delle litanie del Sacro
Cuore: «Gesù,
mite ed umile di cuore, rendi il nostro
cuore simile
al tuo».
PER UN ESAME
DI COSCIENZA BASATO SULLE BEATITUDINI
«Beati i
miti, perché erediteranno la terra».
Io sono
mite?
C'è una violenza
delle azioni, ma anche una
violenza delle
parole e dei pensieri.
Domino l'ira
fuori
e dentro di me?
Sono gentile e
affabile con chi mi
sta vicino?
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