Beati voi che piangete

Home Su Sommario Cerca Contatti Privacy Area riservata

 

Meditazione n. 2

«BEATI VOI CHE ORA PIANGETE,

PERCHÉ RIDERETE!»

 

 

Le beatitudini non sono un codice morto che la Chiesa deve ricevere e trasmettere il più fedelmente possibile; sono una fonte di ispirazione perenne, perché risorto e vivo è colui che le ha proclamate.

 

Ad esse si applica quello che il poeta Charles Péguy dice di tutte le parole di Cristo:

«Gesù non ci ha dato delle parole morte

che noi dobbiamo chiudere in piccole scatole

e che dobbiamo conservare in olio rancido...

Ci ha dato delle parole vive

da nutrire...

Le parole di vita

non si possono conservare che vive...

Siamo chiamati a nutrire la parola del Figlio di Dio.

È a noi che appartiene, è da noi che dipende

di farla intendere nei secoli dei secoli,

di farla risuonare...».

 

1. Un nuovo rapporto tra piacere e dolore

Riflettiamo sulla seconda beatitudine: «Beati gli afflitti perché saranno consolati» (Mt 5,4).

In alcuni codici e traduzioni moderne l'ordine tra la seconda e la terza beatitudine - quella degli afflitti e quella dei miti - è invertito, ma questo non incide in nulla sul significato di esse.

 

Nel vangelo di Luca, dove le beatitudini, in numero di quattro, sono sotto forma di discorso diretto e sono rafforzate da un «guai» contrario, la stessa beatitudine suona così: «Beati voi che ora piangete, perché riderete... Ma guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete» (Lc 6,21.25).

 

Notiamo anzitutto che questa è l'unica beatitudine basata sull'idea di contrappasso.

Nelle altre beatitudini il rapporto tra la situazione attuale e quella futura è basato sull'idea del compimento: i poveri sono beati perché di essi è il regno dei cieli, i miti perché possiederanno la terra.

Qui invece, tra la beatitudine e la sua ricompensa, c'è un rovesciamento, un passaggio da uno stato al suo opposto: dal pianto al riso, o, viceversa, dal riso al pianto.

 

Il messaggio più formidabile è racchiuso proprio nella struttura di questa beatitudine nella versione lucana.

Essa ci permette di cogliere la rivoluzione che il Vangelo ha operato nei riguardi del problema di piacere e dolore.

Il punto di partenza - comune sia al pensiero religioso che a quello profano - è la constatazione che, in questa vita, piacere e dolore sono inseparabili; si susseguono l'un l'altro con la stessa regolarità con cui al sollevarsi di un'onda del mare segue un avvallamento e un vuoto che risucchia indietro il nuotatore.

L'uomo cerca disperatamente di staccare questi due fratelli siamesi, di isolare il piacere dal dolore.

Ma invano.

È lo stesso piacere disordinato che si ritorce contro di lui e si trasforma in sofferenza. E questo, o improvvisamente e tragicamente o un po' alla volta, in quanto è per sua natura transitorio e genera presto stanchezza e nausea.

È una lezione che ci viene dalla cronaca quotidiana e che l'uomo ha espresso in mille modi nella sua arte e nella sua letteratura.

 

«Un non so che d'amaro - ha scritto il poeta pagano Lucrezio - sorge dall'intimo stesso di ogni piacere e ci angoscia già nel mezzo delle nostre delizie».

 

Il piacere illecito è ingannevole, perché promette quello che non può dare.

Prima di essere gustato, sembra offrirti l'infinito e l'eternità; ma, una volta consumato, ti ritrovi con niente in mano.

È il messaggio tragico di tanta poesia moderna.

I «fiori del male» non si è finito di coglierli, ci dice Charles Baudelaire, che già appassiscono e mandano odore di putrefazione.

 

La Bibbia dice di avere una risposta da dare a questo dramma dell'esistenza umana.

La spiegazione è questa.

C'è stata, fin dall'inizio, una scelta dell'uomo, resa possibile dalla sua libertà e dalla sua stessa natura fatta di spirito e materia, che lo ha portato a orientare esclusivamente verso le cose visibili l'insopprimibile desiderio di gioia, di cui era stato dotato perché aspirasse a godere del Bene infinito che è Dio.

Al piacere, scelto contro la legge di Dio e simboleggiato da Adamo ed Eva che gustano del frutto proibito, Dio ha permesso che seguissero il dolore e la morte, più come rimedio che come punizione; perché non avvenisse, cioè, che, seguendo a briglie sciolte il suo egoismo e il suo istinto, l'uomo distruggesse se stesso e il suo prossimo.

Così al piacere vediamo ormai aderire, come la sua ombra, la sofferenza.

Cristo ha finalmente spezzato questa catena.

Egli, «in cambio della gioia che aveva a portata di mano, si sottopose alla croce» (cfr. Eb 12,2).

Fece, insomma, il contrario di ciò che fece Adamo e che fa ogni uomo.

 

Scrive san Massimo il Confessore:

«La morte del Signore, a differenza di quella degli altri uomini, non era un debito pagato per il piacere, ma piuttosto qualcosa che era gettato contro il piacere stesso. E così, attraverso questa morte, cambiò il destino meritato dall'uomo».

 

Risorgendo da morte, egli ha inaugurato un nuovo genere di piacere: quello che non precede il dolore, come sua causa, ma lo segue come suo frutto.

E non solo il piacere puramente spirituale, ma ogni piacere onesto, anche quello che l'uomo e la donna sperimentano nel dono reciproco, nel generare la vita e nel vedere crescere i propri figli o i propri nipoti, il piacere dell'arte e della creatività, della bellezza, dell'amicizia, del lavoro felicemente portato a termine.

Ogni gioia che procede dal dovere compiuto.

Tutto questo è meravigliosamente proclamato dalla nostra beatitudine che, alla sequenza riso - pianto, oppone la sequenza pianto - riso.

Non si tratta di una semplice inversione dei tempi.

La differenza, infinita, sta nel fatto che nell'ordine proposto da Gesù è il piacere, non la sofferenza, ad avere l'ultima parola e, quel che più conta, un'ultima parola che dura in eterno.

Il giudizio di Cristo sul riso e il pianto non ha senso, tuttavia, soltanto nella prospettiva della vita eterna, ma illumina, almeno in parte, anche la vita presente.

Si tratta di sapere cosa significa la parola iniziale «beati», di quale beatitudine o felicità si sta parlando.

Non si tratta di una felicità soltanto dei sensi, di semplice euforia e spensieratezza, ma di un "benessere" integrale e duraturo di tutta la persona.

Il pianto e l'afflizione sono proclamati beati anche perché rendono più maturi, più profondi, più veri, più comprensivi della sofferenza altrui.

In una parola, più umani.

Il Vangelo non condanna assolutamente l'allegria e la gioia; le parole gioia, festa vi ricorrono, si può dire, in ogni pagina.

Il riso e la festa diventano segno di egoismo quando, anziché segnare momenti di relax e di interruzione della fatica, diventano un idolo, qualcosa che si pretende per se stessi come diritto e come condizione stabile di vita, anche a spese di sofferenza altrui.

Diverso è il caso del riso e dell'allegria dei comici e dei clown. Il loro scopo infatti è di far ridere, divertire e istruire gli altri, di dare un momento di gioia a tutti. Esso è un dono per tutti, almeno finché si mantiene sul piano dell'arte e non scende alla volgarità e alla satira astiosa. Quando fa ridere senza ridicolizzare.

 

Il film di Roberto Benigni La vita è bella, per esempio, è piaciuto tanto perché lì la comicità è messa a servizio dell'amore. In questo caso, l'amore di un padre che, mediante il gioco e il riso, vuole risparmiare al proprio bambino gli orrori della deportazione e del campo di concentramento. Il protagonista è un afflitto che si sforza di dare gioia, e questo, a modo suo, lo abbia o no inteso il regista, rientra nel quadro della beatitudine evangelica.

 

La beatitudine di Cristo non va intesa solo al futuro: «Beati quelli che ora sono afflitti, perché un giorno saranno consolati», ma anche al presente: «Beati quelli che accettano di essere afflitti, perché altri intorno a loro possano essere consolati».

 

2. «Dov'è il tuo Dio?»

Ma adesso cerchiamo di capire chi sono esattamente gli afflitti e i piangenti proclamati beati da Cristo.

Gli esegeti escludono oggi, quasi unanimemente, che si tratti di afflitti solo in senso oggettivo o sociologico, gente che Gesù proclamerebbe beata per il solo fatto di soffrire e di piangere.

L'elemento soggettivo, cioè il motivo del pianto, è determinante.

E qual è questo motivo?

 

I padri e gli autori spirituali antichi insistevano sul motivo penitenziale, le lacrime di pentimento per i peccati.

Gli autori moderni propongono piuttosto un motivo esistenziale: il pianto di coloro che si sentono stranieri sulla terra, lontani dalla patria, di coloro che si affliggono per la sofferenza immane che c'è nel mondo. Un pianto, per cosi dire, cosmico, nella linea del paolino gemere del creato e degli uomini nell'attesa della piena redenzione (cfr. Rm 8,19-23), o del virgiliano: c'è un pianto delle cose.

 

Io credo che non dobbiamo restringere il campo a questi due soli motivi.

La via più sicura per scoprire quale pianto e quale afflizione sono proclamati beati da Cristo è di vedere perché si piange nella Bibbia e perché egli stesso piange nel Vangelo.

Scopriamo così che c'è un pianto di pentimento come quello di Pietro dopo il tradimento, un «piangere con chi piange» (Rm 12,15) cioè di compassione per il dolore altrui, come pianse Gesù con la vedova di Nain e con le sorelle di Lazzaro; il pianto di esiliati che anelano alla patria, come quello degli ebrei sui fiumi di Babilonia... E tanti altri.

 

Io vorrei mettere in luce due dei motivi per cui si piange nella Bibbia e per cui ha pianto Gesù che mi sembrano particolarmente da meditare nel momento storico che stiamo vivendo.

 

Nel Salmo 41 leggiamo:

«Le lacrime sono mio pane giorno e notte,

mentre mi dicono sempre: "Dov'è il tuo Dio?"...

Per l'insulto dei miei avversari

sono infrante le mie ossa;

essi dicono a me tutto il giorno: "Dov'è il tuo Dio?"».

 

Mai questa tristezza del credente per il rifiuto spavaldo di Dio intorno a lui ha avuto tanta ragion d'essere come oggi.

Dopo il periodo di relativo silenzio seguito alla fine dell'ateismo marxista, stiamo assistendo a un ritorno di fiamma di un ateismo militante e aggressivo, di marca in genere scientifica o scientistica.

I titoli di alcuni libri recenti sono eloquenti: Trattato di ateologia, L'illusione di Dio, La fine della fede, Creazione senza Dio, Un'etica senza Dio, Dio non è grande. La religione avvelena ogni cosa...

In uno di questi trattati si legge la seguente dichiarazione:

 

«Le società umane hanno elaborato vari mezzi ordinari di conoscenza, generalmente condivisi, attraverso cui si può accertare qualcosa. Chi afferma l'esistenza di un essere non conoscibile con quegli strumenti, deve accollarsi l'onere della prova. Per questo mi pare legittimo sostenere che, fino a prova contraria, Dio non c'è».

 

Con gli stessi argomenti si potrebbe dimostrare che neppure l'amore esiste, dal momento che non è accertabile con gli strumenti della scienza.

Il fatto è che la prova dell'esistenza di Dio non si trova nei libri e nei laboratori di biologia, ma nella vita; nella vita di Cristo prima di tutto, poi dei santi, e degli innumerevoli testimoni della fede.

Si trova anche nella tanto disprezzata prova dei segni e dei miracoli che Gesù stesso dava a conferma della sua verità.

È vero, come osserva il Lessing, che i miracoli servono a chi ne è testimone, non a chi li sente raccontare, ma i miracoli avvengono anche oggi, sotto i nostri occhi. Si tratta di non rigettarne a priori la possibilità, senza neppure darsi pena di esaminarne le prove, e di non rifiutarli in blocco solo perché si può dimostrare che alcuni di essi erano falsi.

Motivo di tristezza del credente, come per il salmista, è l'impotenza che sperimenta di fronte alla sfida: «Dov'è il tuo Dio?».

Con il suo misterioso tacere Dio chiama il credente a condividere la sua debolezza e sconfitta, promettendo solo a queste condizioni la vittoria. «La debolezza di Dio è più forte degli uomini» (lCor1,25).

Per essere sincere e feconde, queste lacrime del credente devono essere versate non solo a causa degli increduli, ma per gli increduli, per genuina compassione, non importa se da essi rifiutata o messa in ridicolo.

 

Scrive il filosofo Kierkegaard:

«Si parla tanto di pene e di miserie umane. Io cerco di comprenderle, ne ho conosciuti anche diversi casi da vicino; si parla tanto di vite sprecate. Ma sprecata è soltanto la vita di quell'uomo che la lasciava passare, ingannato dalle gioie della vita e dalle sue preoccupazioni, in modo che non diventò mai, con una decisione eterna, consapevole di se stesso come spirito, come "io"; oppure - ciò che è lo stesso - perché mai si rese conto, perché non ebbe mai l'impressione che esiste un Dio e che egli, proprio egli, il suo "io", sta davanti a questo Dio... Mi sembra di poter piangere per un'eternità, al pensiero che esiste questa miseria!».

 

Madre Teresa di Calcutta, che di povertà e di miserie ne aveva conosciute tante, non faceva che ripetere che la povertà più brutta è quella di chi pensa di poter fare a meno di Dio.

 

3. «Piangano i sacerdoti, ministri del Signore»

C'è anche un altro pianto nella Bibbia sul quale dobbiamo riflettere, che non è un piangere sugli altri, ma su noi stessi.

 

Ce ne parlano i profeti.

Ezechiele riferisce la visione che ebbe un giorno.

La voce potente di Dio grida a un misterioso personaggio «vestito di lino e con una borsa da scriba in mano»: «Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono» (Ez 9,4).

 

La Chiesa ha "pianto e sospirato" in tempi recenti per gli abomini commessi nel suo seno da alcuni dei suoi stessi ministri e pastori.

Ha pagato un prezzo altissimo per i casi di pedofilia del clero.

È corsa ai ripari, si è data regole ferree per impedire che gli abusi si ripetano.

È venuto il momento di fare anche qualcosa d'altro: piangere davanti a Dio, affliggersi come si affligge Dio per l'offesa fatta al corpo di Cristo e lo scandalo recato «ai più piccoli dei suoi fratelli».

È la condizione perché da tutto questo male possa davvero venire del bene e si operi una riconciliazione del popolo con Dio e con i propri sacerdoti.

 

«Suonate la tromba in Sion,

proclamate un digiuno,

convocate un'adunanza solenne...

Tra il vestibolo e l'altare piangano

i sacerdoti, ministri dei Signore, e dicano:

Perdona, Signore, al tuo popolo

e non esporre la tua eredità al vituperio

e alla derisione delle genti.

Perché si dovrebbe dire fra i popoli:

Dov'è il loro Dio?» (Gl 2,15-17).

 

Queste parole del profeta Gioele contengono un appello per noi.

Non si potrebbe fare lo stesso anche oggi: indire un giorno di digiuno e di penitenza, almeno a livello locale e nazionale, dove il problema è stato più forte, per esprimere pubblicamente pentimento davanti a Dio e solidarietà con le vittime?

Mi danno il coraggio di dire questo le parole pronunciate dal papa Benedetto XVI all'episcopato di una nazione cattolica in una recente visita ad limina:

 

«Le ferite causate da simili atti sono profonde, ed è urgente il compito di ristabilire la confidenza e la fiducia quando queste sono state lese... In tal modo la Chiesa si rafforzerà e sarà sempre più capace di dare testimonianza della forza redentrice della Croce di Cristo»

(Benedetto XVI, Discorso ai vescovi della conferenza episcopale di Irlanda, sabato 28 ottobre 2006).

 

Ma non dobbiamo lasciare senza una parola di speranza anche gli sventurati fratelli che sono stati la causa del male.

Sul caso di incesto avvenuto nella comunità di Corinto, l'Apostolo sentenziò: «Questo individuo sia dato in balìa di satana per la rovina della sua carne, affinché il suo spirito possa ottenere la salvezza nel giorno del Signore» (1Cor 5,5).

La salvezza del peccatore, più che il suo castigo, stava a cuore all'Apostolo.

Questi nostri fratelli sono stati spogliati di tutto: ministero, onore, libertà, e nessuno sa con quanta effettiva responsabilità morale, nei singoli casi; sono diventati gli ultimi, i reietti.

Se in questa situazione, toccati dalla grazia, si affliggono per il male causato, uniscono il loro pianto a quello della Chiesa, la beatitudine degli afflitti e di coloro che piangono diventa di colpo la loro beatitudine.

Potrebbero essere vicini a Cristo, che è l'amico degli ultimi, più di tanti altri, me compreso, ricchi della propria rispettabilità e forse portati, come i farisei, a giudicare chi sbaglia.

Ciò non toglie, naturalmente, che si faccia il possibile e si collabori a tutti i livelli con la giustizia umana, perché questi scandali non si ripetano e che si cerchi di aiutare anche spiritualmente le vittime degli abusi.

 

4. Le lacrime più belle

Abbiamo evocato fin qui alcuni motivi di afflizione e di pianto dei cristiani di oggi, ma non posso terminare senza accennare che esiste un altro tipo di lacrime.

Si può piangere di dolore, ma anche di commozione e di gioia.

Le lacrime più belle sono quelle che ci riempiono gli occhi quando, illuminati dallo Spirito Santo, «gustiamo e vediamo quanto è buono il Signore» (Sal 34,9).

Quando si è in questo stato di grazia, ci si stupisce che il mondo e noi stessi non cadiamo in ginocchio e non piangiamo di stupore e di commozione.

Lacrime di questo tipo dovevano scendere dagli occhi di Agostino quando scriveva nelle Confessioni:

 

«Quanto ci hai amato, o Padre buono, che non hai risparmiato il tuo unico Figlio, ma lo hai dato per tutti noi. Quanto ci hai amato!».

Lacrime come queste vennero versate da Pascal durante la notte in cui ebbe la rivelazione del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe che si rivela per le vie del vangelo; e, su un foglietto di carta (trovato cucito all'interno della giacca dopo la sua morte), egli scrisse: «Gioia, gioia, lacrime di gioia!».

Io penso che anche le lacrime con cui la peccatrice bagnò i piedi di Gesù non erano lacrime solo di pentimento, ma anche di gratitudine e di gioia.

Se in cielo si può piangere, è di questo pianto che è pieno il paradiso.

A Istanbul, l'antica Costantinopoli, visse intorno all'anno mille san Simeone il Nuovo Teologo, il santo delle lacrime. Egli è l'esempio più fulgido, nella storia della spiritualità cristiana, delle lacrime di pentimento che si trasformano in lacrime di stupore e di silenzio.

«Piangevo - racconta in una sua opera - ed ero in una gioia inesprimibile».

Parafrasando la beatitudine degli afflitti, egli dice: «Beati coloro che sempre piangono amaramente i loro peccati, perché li afferrerà la luce e trasformerà le lacrime amare in dolci».

Un giorno, in mezzo alle sue lacrime, san Simeone sperimentò una gioia così forte che esclamò: «Cosa ci può essere di più grande e più brillante di questo? A me basta di essere così anche dopo la morte!». La voce di Cristo gli rispose: "Sei veramente meschino se ti accontenti di questo. La tua gioia presente, rispetto a quella futura, è come un cielo disegnato sulla carta, rispetto al cielo vero"».

 

 

PER UN ESAME DI COSCIENZA BASATO SULLE BEATITUDINI

 

«Beati gli afflitti, perché saranno consolati».

Io considero l'afflizione una disgrazia e un castigo, come fa la gente del mondo, o una opportunità di rassomigliare a Cristo?

Quali sono i motivi delle mie tristezze: gli stessi di Dio o quelli del mondo?

Cerco di consolare gli altri, o solo di essere consolato io?

So custodire come un segreto tra me e Dio qualche contrarietà, senza parlarne a destra e a sinistra?

 

Realizzato da Sabato Bufano - Informa s.a.s. - Tel. 0828620029
© 2006 Parrocchia Sacro Cuore di Gesù - Eboli (SA)