Beati i poveri in spirito

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Meditazione n. 1

1. «BEATI I POVERI IN SPIRITO,

PERCHÉ DI ESSI È IL REGNO DEI CIELI»

  

1. «Poveri» e «poveri in spirito»

A proposito della prima beatitudine, esiste anzitutto un problema letterario.

Esso è costituito dal fatto che la beatitudine ci è riferita in maniera alquanto diversa da Matteo e da Luca.

Uno (Matteo) ha il discorso indiretto: «Beati i poveri», l'altro (Luca) il discorso diretto: «Beati voi, poveri»;

uno (Matteo) ha «poveri in spirito», l'altro (Luca) semplicemente «poveri».

La spiegazione più plausibile sembra essere quella che ammette una fonte comune dalla quale sia Matteo che Luca dipendono e che portava semplicemente «poveri».

Luca, preoccupato di accentuare la portata anche sociale del termine, lo conserva tale e quale, e anzi lo rafforza, contrapponendo a «beati voi poveri!» il «guai a voi ricchi» (Lc 6,24).

Matteo, che ha un intento catechetico, si premura di esplicitare il senso religioso che la parola «poveri» ha nella spiritualità ebraica e nel pensiero di Gesù, aggiungendo «in spirito».

Tra gli interpreti odierni alcuni accentuano, con Matteo, il significato religioso, altri, con Luca, il significato sociale.

Per i primi, «poveri in spirito» indicherebbe più un atteggiamento interiore che uno stato sociale. Gesù, dicono, non ha inteso beatificare una classe sociale. Soltanto una situazione spirituale può essere messa in relazione con una realtà spirituale come è il Regno.

Che la povertà reale sia una via privilegiata verso la povertà di spirito è verissimo e Gesù lo ripete in mille modi, tuttavia non si deve pensare che nella beatitudine siano in gioco i proletari o i cosiddetti «uomini della terra» del giudaismo del tempo.

Il vero povero evangelico è colui che ha scommesso tutto su Dio, nella fede.

 

Nel giudaismo dell'epoca, il termine «povero» era praticamente sinonimo di santo e di pio.

I Padri della Chiesa fanno del «povero in spirito» quasi un sinonimo di «umile».

Quelli che si appoggiano sul testo di Luca, accentuano il significato sociale della beatitudine, vedendo espressa con la parola «poveri» anzitutto una condizione sociale, uno stato concreto di vita.

Secondo loro l'interpretazione tradizionale mette troppo l'accento sulle disposizioni interiori del povero e troppo poco sulla natura del Regno che sta per venire.

Le beatitudini, dicono, sono anzitutto una rivelazione sulla misericordia e sulla giustizia che devono caratterizzare il regno di Dio; contengono più una rivelazione su Dio che sull'uomo o sul povero.

La parola usata nel vangelo per indicare i poveri (ptóchoi) designa gli indigenti, gli infelici, gli affamati, coloro che hanno bisogno dell'elemosina per vivere.

Il termine ebraico corrispondente, anawim, indica all'origine le persone «curve», cioè piegate, umiliate, oppresse.

Per quale motivo - ci si chiede - costoro dovrebbero essere favoriti da Dio?

Non per i loro particolari «meriti» religiosi, si risponde, o per la loro buona disposizione, ma perché Dio deve a se stesso, in quanto re giusto, di prendere le difese di chi non ha difesa.

I poveri, secondo la mentalità dell'Antico Testamento, sono i «protetti del re».

E come si spiega, in questo caso, il persistere dello stato di povertà e di oppressione dei poveri anche in Israele, anche intorno a Gesù, per il quale il regno di Dio è già venuto?

La smentita dei fatti non porta ad abbandonare la convinzione della giustizia regale di Dio, ma a proiettarla nel futuro, nel regno di Dio degli ultimi tempi.

Allora i poveri saranno vendicati di tutti coloro che li opprimevano, allora godranno veramente i benefici della sollecitudine di Dio.

2. La spiegazione "teologica" non basta

Queste dunque le due interpretazioni principali della beatitudine dei poveri.

Una, come si vede, fa leva più sulla povertà come "stato d'animo",

l'altra più sulla povertà come "stato sociale".

In entrambi i casi il riscatto della povertà viene dal regno di Dio, ma nel primo caso esso suppone una disposizione che è nell'uomo, nel secondo solo l'esigenza di Dio verso se stesso.

Presa isolatamente, nessuna delle due tesi soddisfa pienamente.

La prima perché tende a escludere troppo il riferimento al sociale, alla realtà della povertà;

la seconda perché esclude troppo drasticamente le disposizioni interiori del povero.

Vorrei sottolineare, in particolare, gli inconvenienti della seconda interpretazione che fa della povertà un problema teologico, facendo dipendere tutto da Dio.

Essa non spiega la parentela stretta che esiste nel vangelo tra il concetto di povertà e quello di umiltà, tra il privilegio dei poveri e quello dei bambini.

Si tratta, inoltre, di una spiegazione che, presa rigidamente, sfocia nel nulla di fatto.

Il grande riscatto dei poveri, sociologicamente tali, dovrebbe essere costituito dal regno di Dio, ma poi, analizzando la natura di tale Regno, si vede che, per la loro situazione reale, esso non porta nulla di nuovo, perché non li fa né più ricchi né più sazi sul piano materiale.

Solo apparentemente, quindi, questa interpretazione moderna è più attenta al sociale.

C'è anzi il rischio di strumentalizzare la povertà, facendone solo un'occasione che permette a Dio di dimostrare la sua sovrana giustizia.

Senza contare che, anche in questo caso, la realizzazione si situerebbe su un piano del tutto diverso da quello della promessa e dell'attesa: al povero si promette un riscatto dalla sua povertà materiale, ma un riscatto che si rivela, alla fine, essere solo di natura spirituale.

Gesù si preoccupa certamente dei poveri reali, ma non lo fa tanto quando proclama i poveri «beati», ma quando considera fatto a lui quello che si è fatto - o non si è fatto - ad essi e quando minaccia l'inferno, come nella parabola del ricco epulone, a quelli che non si curano del povero.

Nel nostro caso, la difficoltà nasce dall'usare la categoria di "meriti" e di "virtù", laddove si dovrebbe usare quella di "fede".

Dio non è indotto ad agire a favore dei poveri dai loro meriti o dalle loro disposizioni morali, ma dalla loro maggiore disponibilità a credere.

Nei poveri Dio non apprezza tanto ciò che hanno, quanto ciò che non hanno: autosufficienza, chiusura, pretesa di salvarsi da soli.

Pensare il contrario, sarebbe come dire che il Regno è offerto prima ai pubblicani e alle prostitute perché Dio privilegia tale "stato", non perché essi sono capaci di ravvedimento e i falsi giusti no.

Non si tratta di sapere se l'agire di Dio presupponga qualcosa in antecedenza: è chiaro che non lo presuppone; si tratta di sapere se esige qualcosa in risposta.

Il povero deve riconoscere e accogliere questa offerta preferenziale di Dio; insomma deve credere.

 

«Dio - dice san Giacomo - ha scelto i poveri nel mondo per farli ricchi mediante la fede» (Gc 2,5).

 

La beatitudine evangelica: «Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli» va letta alla luce del binomio grazia - fede: «Per grazia siete salvati, mediante la fede» (Ef 2,8).

Il Regno rappresenta, nella beatitudine, l'offerta di grazia, la povertà in spirito la risposta di fede.

I poveri "in spirito" sono i poveri "credenti".

È come se Gesù dicesse: Beati voi poveri «perché avete creduto» (non si deve dimenticare che egli si rivolge a persone concrete che lo avevano seguito, come nei "guai" si rivolge a coloro che di fatto lo avevano rifiutato); oppure: beati voi «se crederete».

La fede è sullo sfondo di ogni discorso di Gesù.

La soluzione delle difficoltà va dunque ricercata nella sintesi delle due prospettive.

Bisogna unire, non contrapporre, i «poveri» di Luca e i «poveri in spirito» di Matteo.

Aggiungendo a «poveri» l'espressione «in spirito», questi non ha fatto un'operazione soltanto catechetica, ma anche ermeneutica (cioè di interpretazione): ha messo in luce una componente implicita, ma reale, del concetto di povero nell'uso che ne aveva fatto Gesù.

 

3. La povertà nella vita di Cristo

La migliore esegesi della beatitudine dei poveri è la vita stessa di Cristo.

 

San Paolo scrive: «Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9).

 

Non c'è dubbio che qui si parla proprio della povertà materiale di Cristo.

Il senso è: Cristo, essendo (nella posizione di) ricco, si fece povero materialmente per arricchire noi spiritualmente.

 

«Sostenne la povertà materiale - commenta san Tommaso - per donare a noi le ricchezze spirituali» (S. Tommaso d'Aquino, Somma di teologia, III. q. 40. a. 4).

 

Non venne infatti a rendere gli uomini più ricchi di beni terreni, ma a farli figli di Dio ed eredi della vita eterna.

La povertà di Cristo ha anzitutto un aspetto concreto, esistenziale, che l'accompagna dalla nascita alla morte.

 

La beata Angela da Foligno ha una pagina assai profonda su questa povertà del Salvatore:

«La povertà ha tre modi di essere.

Il primo grado della perfetta povertà di Cristo fu che egli volle vivere ed essere povero di tutte le cose temporali di questo mondo. Non volle per sé né una casa né un terreno né una vigna né alcuna proprietà né soldi o fondi. Fu povero, ebbe fame, sete, patì il caldo e il freddo, la fatica, ogni privazione e bisogno. Non dispose di cose raffinate e di pregio...

La seconda povertà fu che egli volle essere povero nei parenti e negli amici...

La terza povertà fu che volle spogliarsi di se stesso, volle farsi povero della sua stessa forza divina, della sua sapienza e della sua gloria»

(Il libro della beata Angela da Foligno, Quaracchi, Grottaferrata 1983. pp. 642s..).

 

Povero dunque di cose, povero di appoggi, povero di prestigio.

Questa terza povertà è la più profonda di tutte perché tocca la sfera dell'essere, non più solo dell'avere.

È consistita, per Cristo, nel fatto stesso di farsi uomo, di spogliarsi, se non della sua natura divina, almeno di tutto ciò che tale natura avrebbe potuto rivendicare per sé in fatto di gloria, di ricchezza e splendore.

 

«Cosa c'è - esclama san Gregorio Nisseno - di più povero per Dio che la forma di servo? Cosa di più umile che la comunione con la nostra natura?» (S. Gregono Nisseno, Sulle beatitudini. 1; PG 44,1201B).

 

In Cristo brilla la povertà nella sua forma più sublime che non è quella di essere povero (questo può essere un dato imposto o ereditato), ma quella di farsi povero, e farsi povero per amore, per fare ricchi gli altri.

Tuttavia, circa la povertà materiale di Gesù, ci sono forse dei luoghi comuni da rettificare in base a un più attento esame dei vangeli.

Per quanto ne possiamo sapere, Gesù non appartenne, per condizione sociale, al proletariato del tempo, cioè alla classe infima della società.

Era un artigiano e si guadagnava la vita con il proprio lavoro, che era una condizione senz'altro migliore del lavoro dipendente.

Anche durante la vita pubblica, il prestigio di rabbi di cui godeva, gli inviti che riceveva anche da persone benestanti, le amicizie di cui godeva, come quella di Lazzaro e delle sue sorelle, l'aiuto che riceveva da alcune donne che disponevano di beni (cfr. Lc 8,2s), sono cose che ci impediscono di fare di lui l'ultimo dei poveri.

La stessa frase: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9,58) si spiega più pensando alla sua condizione di predicatore itinerante, senza fissa dimora, che alla mancanza di un tetto, anche se questo pure vi può essere incluso.

Dal punto di vista strettamente materiale, c'erano certamente al suo tempo persone più povere di lui, masse intere di diseredati, di cui egli stesso aveva compassione, vedendole «stanche e sfinite» (Mt 9,36).

Anche tra i suoi futuri discepoli, per esempio tra certi asceti ed eremiti del deserto, ve ne furono di quelli che superarono il Maestro in fatto di austerità e povertà puramente materiale.

L'equivoco deriva dall'attribuire un valore eccessivo alle manifestazioni esterne e materiali della povertà.

Gesù non ha mai rivendicato per sé un primato nella povertà, come l'ha rivendicato invece nella carità, dicendo che nessuno ha amore più grande di quello di dare la vita per i propri amici (cfr. Gv 15,13).

Era libero anche di fronte alla sua povertà, come era libero nel mangiare e nel bere, al punto di passare, senza prendersela troppo, per un beone e un mangione.

In fatto di ascesi, il Precursore era molto più rigido di lui.

Gesù non è caduto nella trappola, in cui sono caduti in seguito alcuni dei suoi imitatori, di assolutizzare la povertà materiale, misurando su di essa il grado di perfezione e finendo così per diventare ricchi della cosa peggiore che ci sia: di se stessi e della propria giustizia.

Non si dà un valore assoluto nelle cose materiali, un punto oltre il quale non si possa andare.

Per quanto uno voglia essere povero, scoprirà che c'è sempre qualcuno più povero di lui.

La povertà materiale non ha fondo.

Ciò che dà valore religioso alla povertà è il motivo per cui viene scelta, e nel caso di Cristo il motivo è l'amore: «Si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9).

Il dono è prezioso soprattutto quando è frutto di spogliamento, quando ci si priva di ciò che si dona.

E il Verbo si è, in qualche modo, privato della sua divina ricchezza, per poterne fare parte a noi.

La povertà di Dio è un'espressione della sua agape, del suo essere «amore».

I filosofi cinici al tempo di Gesù vivevano una povertà materiale, per certi versi, più radicale della sua, ma non era ispirata dall'amore per gli uomini; era piuttosto una sfida lanciata loro in faccia, per dimostrare l'indipendenza e la superiorità dell'uomo sulla natura e sulle cose.

 

4. Essere "per i poveri" ed essere "poveri"

Con la venuta di Cristo si registra un salto di qualità in tema di povertà.

Esso può essere sintetizzato così:

l'Antico Testamento ci presenta un Dio "per i poveri",

il Nuovo Testamento un Dio che si fa, lui stesso, "povero".

 

L'Antico Testamento è pieno di testi sul Dio «che ascolta il grido dei poveri», che «ha pietà del debole e del povero», che «difende la causa dei miseri», che «fa giustizia agli oppressi»;

ma solo il Vangelo ci parla del Dio che si fa uno di loro, che sceglie per sé la povertà e la debolezza.

La povertà materiale, da male da evitare, acquista l'aspetto di un bene da coltivare, di un ideale da perseguire. Questa è la grande novità recata da Cristo.

In questo modo, sono poste ormai in chiaro le due componenti essenziali dell'ideale della povertà evangelica: essere "per i poveri" ed essere "poveri".

La storia della povertà cristiana è la storia del diverso atteggiarsi di fronte a queste due esigenze.

Esso si riflette, per esempio, nel modo diverso di interpretare l'episodio del giovane ricco (cfr. Mt 19,16ss).

A volte, si accentua, di esso, il «vendi tutto», a volte invece il «dallo ai poveri»; cioè, ora lo spogliamento in vista di una radicale sequela di Cristo, ora la preoccupazione per i poveri.

Nell'antichità, alla interpretazione degli Encratiti - una corrente radicale che propugnava l'astensione totale dal matrimonio e dal possesso -, fa riscontro quella conciliante di un Clemente Alessandrino. Questi rischia, a sua volta, di andare all'eccesso opposto quando afferma che ciò che conta non è tanto la povertà, quanto l'uso che si fa della ricchezza:

 

«Colui che considera possedimenti e oro e argento e case come doni di Dio, e in onore a Dio che gli dà tutto questo, collabora con questi suoi averi alla salvezza di altri uomini: questi è colui che è dichiarato beato dal Signore e proclamato povero in spirito» (Clemente Alessandrino, Quale ricco si salva, 16,3; GCS 17. p. 170).

 

Una prima sintesi e un equilibrio tra le due istanze è raggiunto nel pensiero di uomini come san Basilio e sant'Agostino e nell'esperienza monastica da loro avviata. In essa, alla più rigorosa povertà personale, si unisce una uguale sollecitudine per i poveri e i malati. Questa si concretizza in apposite istituzioni che serviranno, in alcuni casi, come modello alle future opere caritative della Chiesa.

 

Nel medioevo assistiamo, in un altro contesto storico, al ripetersi di questo ciclo.

La Chiesa, e in particolare gli antichi ordini monastici diventati in occidente assai ricchi, coltivano ormai la povertà quasi solo nella forma dell'assistenza ai poveri, ai pellegrini, cioè gestendo istituzioni caritative.

Contro questa situazione, a partire dall'inizio del secondo millennio insorgono i cosiddetti movimenti pauperistici, che mettono in primo piano l'esercizio effettivo della povertà, il ritorno della Chiesa alla semplicità e povertà del Vangelo.

L'equilibrio e la sintesi sono realizzati, questa volta, dagli ordini mendicanti, che si sforzano di praticare, a un tempo, un radicale spogliamento e una cura amorevole per i poveri, i lebbrosi, gli schiavi, e soprattutto di vivere la loro povertà in comunione con la Chiesa, non contro di essa.

Con tutte le cautele del caso, possiamo forse scorgere una dialettica analoga anche in epoca moderna.

L'esplosione della coscienza sociale nel secolo scorso e del problema del proletariato ha di nuovo rotto l'equilibrio, spingendo a mettere tra parentesi l'ideale della povertà volontaria, scelta e vissuta alla sequela di Cristo, per interessarsi al problema dei poveri.

Sull'ideale di una Chiesa povera, prevale la preoccupazione "per i poveri".

Questa si traduce in mille iniziative e istituzioni nuove, soprattutto nell'ambito dell'educazione dei fanciulli poveri e dell'assistenza ai più abbandonati.

Anche la dottrina sociale della Chiesa è un prodotto di questo clima spirituale.

È stato il Concilio Vaticano II a rimettere in primo piano, soprattutto in seguito al noto intervento del cardinale Lercaro, il discorso su «Chiesa e povertà».

Nella costituzione sulla Chiesa si legge, a questo proposito:

 

«Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via... Come Cristo è stato inviato dal Padre a dare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito, a cercare e salvare ciò che era perduto, così la Chiesa circonda d'affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l'immagine del suo Fondatore, povero e sofferente, si premura di sollevarne l'indigenza e in loro intende servire a Cristo» (Lumen Gentium, 8).

 

In questo testo sono riunite entrambe le cose: l'essere poveri e l'essere a servizio dei poveri.

Non è detto che questi due aspetti debbano e possano essere coltivati in uguale misura da ogni credente, o da ogni categoria di credenti.

Bisogna infatti tener presente anche la dottrina dei carismi e delle diverse funzioni assegnate a ciascun membro, nel corpo di Cristo.

San Paolo sembra includere nel novero dei carismi anche lo spogliarsi volontariamente dei propri beni per gli altri.

Carisma è infatti per lui il «dare con semplicità» (cfr. Rm 12,6s) e il «distribuire tutte le proprie sostanze ai poveri», come lo sono, nello stesso contesto, la profezia, il parlare le lingue, la scienza (cfr. 1Cor 13,3).

In alcuni suoi membri e ordini religiosi, dunque, la Chiesa esprimerà maggiormente il Cristo povero, in altri il Cristo che prende su di sé «i languori e le infermità» dei poveri (cfr. Mt 8,17).

La pienezza dello Spirito e dei doni è nella Chiesa, non nel singolo credente.

Nella comunione ecclesiale, però, tale pienezza diventa di tutti.

Se infatti io amo l'unità e mi tengo unito ad essa, quello che ognuno in essa ha, o fa, è anche mio, lo faccio anch'io.

Appartengo infatti a quel corpo che è povero e che si prende cura dei poveri.

 

«Bandisci l'invidia - diceva sant'Agostino - e sarà tuo ciò che è mio, e se io bandisco l'invidia sarà mio ciò che possiedi tu».

 

La conseguenza di ciò è che dobbiamo bandire l'animosità e il giudizio, sostituendo ad essi la reciproca stima e la gioia per il bene che Dio compie attraverso altri.

Quelli che lavorano per la giustizia sociale e la promozione dei poveri (che spesso hanno bisogno di grandi mezzi e strutture) si rallegrano che ci siano altri che vivono e annunciano il vangelo in povertà e semplicità, e viceversa.

 

«Cessiamo dunque - esortava l'Apostolo in una situazione simile a questa - dal giudicarci gli uni gli altri... Diamoci piuttosto alle opere della pace e della edificazione vicendevole» (Rm 14,13.19).

 

5. Perché la povertà volontaria?

Ci resta da rispondere alla domanda forse più importante: perché Cristo ha introdotto nel mondo l'ideale di una povertà volontaria?

Perché rinunciare volontariamente alle cose che Dio ha creato per la gioia dell'uomo?

La redenzione si pone forse in contrasto con la creazione?

La risposta è nel motivo che giustifica la proposta di Cristo.

Esso è chiaramente espresso nel testo; il regno dei cieli o il regno di Dio.

Tutto prende senso dalla natura di questo regno che è di essere "già" presente nel mondo, ma "non ancora" pienamente e definitivamente stabilito.

Poiché il regno di Dio è già presente in terra, nella persona e nella predicazione di Gesù, occorre non lasciarselo sfuggire, ma afferrarlo, dando via tutto ciò che può essere di ostacolo ad esso, compresi, se fosse necessario, anche la mano e l'occhio (cfr. Mt 18,8s).

È possibile, in altre parole, cominciare a vivere fin d'ora come si vivrà nella situazione definitiva del Regno, dove i beni terreni non hanno più alcun valore, ma Dio sarà tutto in tutti.

Questa è la motivazione della povertà che possiamo chiamare escatologica, o anche profetica, in quanto annuncia i cieli nuovi e la terra nuova.

La povertà è profetica perché, con l'esempio di distacco dai beni terreni, proclama silenziosamente, ma efficacemente, che esiste un altro bene; ricorda che passa la scena di questo mondo, che non abbiamo quaggiù dimora permanente, ma che la nostra patria è in cielo.

Questa motivazione escatologica, basata sull'improvvisa irruzione del Regno, o, dopo la Pasqua, sull'attesa dell'imminente ritorno di Cristo, continua ad agire anche in seguito, in una forma però alquanto diversa.

Il cristiano non ha quaggiù cittadinanza stabile, appartiene a un'altra città: per questo è un controsenso che si attacchi ai beni del tempo presente che dovrà lasciare da un momento all'altro.

La motivazione escatologica agisce ormai sotto forma di speranza dei beni eterni.

Questo, per quanto riguarda la prima caratteristica del Regno, che è di essere "già" venuto.

Poiché però, in altro senso, il Regno deve ancora venire, è in cammino per giungere «fino ai confini della terra», ecco che occorrono persone che si dedichino interamente alla sua venuta, libere da ogni legame e compromesso terreno che ostacolerebbero un tale annuncio.

Se il vangelo deve giungere «fino agli estremi confini della terra» (At 1,8), bisogna che i suoi messaggeri, come i corridori nello stadio, siano leggeri, liberi, nudi, per non frenare «la corsa della parola» (cfr. 1Ts 3,1).

Questa seconda è la motivazione missionaria, o apostolica, della povertà, messa in luce soprattutto nei discorsi "di invio" di Gesù: «Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né bisaccia, né pane, né denaro, né due tuniche per ciascuno» (Lc 9,3).

 

6. Attualità della beatitudine della povertà

La beatitudine dei poveri è di grande attualità nel contesto storico in cui viviamo, segnato dalla preoccupazione per l'ecologia e la salvaguardia del creato.

Una maniera di vivere la beatitudine evangelica, possibile e accessibile a tutti, è infatti di tornare a un uso sobrio, moderato delle cose, a uno stile di vita semplice che permetta di godere dei beni della creazione senza abusarne o sprecarli.

Abbiamo bisogno di questo invito, specialmente nei paesi ricchi dell'emisfero nord.

Siamo tentati di sostituire in continuazione le cose a nostro uso: vestiti, auto, computer e apparecchi elettronici in genere.

«Usa e getta» è diventata la sintesi della nostra civiltà.

A volte questo assume forme maniacali.

 

Francesco d'Assisi soleva dire ai suoi frati: «Non sono stato mai ladro di elemosine, nel chiedere o nell’usare oltre il bisogno. Presi sempre meno di quanto mi occorreva, affinché altri poveri non fossero privati della loro parte; che fare il contrario sarebbe rubare».

Noi dovremmo poter dire lo stesso dei beni della creazione:

 

«Non ho rubato alle generazioni future risorse ad esse destinate: acqua, energia, legname per fare la carta...».

 

Tutto ciò che usiamo in più del necessario, direttamente o indirettamente, lo sottraiamo ad altri che vivono ora sulla terra o che verranno dopo di noi.

Mi piace ricordare le parole di uno scrittore inglese, Jerome K. Jerome, un umorista che però, in questo caso, parla seriamente. L'esperienza di un viaggio in barca sul Tamigi in senso contrario alla corrente gli suggerisce un'osservazione sulla vita:

 

«Quanta gente, nel viaggio lungo il fiume della vita, carica, fino quasi a farlo affondare, il proprio battello di una infinità di cianfrusaglie che crede necessarie perché il viaggio stesso risulti piacevole, ma che sono in realtà inutili e senza importanza. Perché non fare piuttosto che la barca della nostra vita sia leggera, carica solo delle cose di cui c'è veramente bisogno: una casetta accogliente, piaceri semplici, uno o due amici degni di questo nome, qualcuno da amare e qualcuno che ti ama, un gatto, un cane, una pipa o due. il sufficiente per mangiare e per coprirsi? Troveremmo che in questo modo è molto più facile spingere la barca. Avremmo tempo per pensare, per lavorare e anche per bere qualcosa standocene sdraiati al sole».

 

Non è, esattamente, l'ideale evangelico della povertà per il Regno, ma almeno fa vedere come esso non sia contrario alla felicità umana, ma sia anzi un suo potente alleato.

 

Un altro atteggiamento che la beatitudine evangelica della povertà incoraggia è la contemplazione.

Bisogna scoprire e stimare la forma speciale di possesso che è la contemplazione.

Essa è una maniera di possedere le cose in maniera più profonda, con l'anima e non solo con i sensi e il corpo.

San Paolo definisce gli apostoli e, indirettamente, tutti cristiani, persone che «non hanno niente e possiedono tutto» (2Cor 6,10).

La contemplazione fa questo miracolo: ci permette di possedere le cose senza accaparrarle per noi e senza sottrarle ad altri.

Quando qualcuno ha il diritto di proprietà d'una cosa - un parco, un bosco, una spiaggia marina, un laghetto - essa appartiene a lui solo e ogni altro ne è escluso.

Nella contemplazione, mille persone possono gioire di quello stesso lago e di quel parco senza toglierne il godimento a nessuno.

 

 

PER UN ESAME DI COSCIENZA BASATO SULLE BEATITUDINI

 

II modo migliore di prendere sul serio le Beatitudini evangeliche che stiamo meditando è di servircene come di uno specchio per un esame di coscienza davvero "evangelico".

Tutta la Scrittura, dice san Giacomo, è come uno specchio nel quale il credente deve guardarsi con calma, senza fretta, per conoscere davvero "come è" (cfr. Gc 1,23-25), ma la pagina delle beatitudini lo è in maniera unica.

 

«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli».

Io sono povero di spirito, povero dentro, abbandonato in tutto a Dio?

Sono libero e distaccato dai beni terreni?

Cosa rappresenta il denaro per me?

Cerco di condurre uno stile di vita sobrio e semplice, come si addice a chi vuole testimoniare il vangelo?

Prendo a cuore il problema della spaventosa povertà non scelta ma imposta a tanti milioni di miei fratelli?

 

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