Meditazione n. 1
1.
«BEATI I POVERI IN SPIRITO,
PERCHÉ DI
ESSI È IL REGNO DEI CIELI»
1. «Poveri» e
«poveri in spirito»
A proposito della
prima beatitudine, esiste anzitutto
un problema letterario.
Esso è costituito
dal fatto che
la beatitudine ci è riferita in
maniera alquanto diversa
da Matteo e da Luca.
Uno (Matteo) ha il
discorso indiretto:
«Beati i poveri», l'altro (Luca)
il discorso diretto: «Beati voi,
poveri»;
uno (Matteo) ha
«poveri in spirito», l'altro (Luca) semplicemente «poveri».
La spiegazione più plausibile sembra
essere quella che ammette una fonte comune
dalla quale sia Matteo
che Luca dipendono e che portava semplicemente «poveri».
Luca, preoccupato
di accentuare la portata anche
sociale del termine, lo conserva tale e quale, e anzi lo
rafforza, contrapponendo a «beati
voi poveri!» il «guai
a voi ricchi» (Lc
6,24).
Matteo, che ha un
intento catechetico,
si premura di esplicitare il senso religioso che
la parola «poveri» ha nella spiritualità ebraica e nel
pensiero di Gesù, aggiungendo «in spirito».
Tra gli interpreti
odierni alcuni accentuano, con Matteo, il significato religioso, altri, con Luca, il
significato sociale.
Per i primi,
«poveri in spirito» indicherebbe più un
atteggiamento interiore che uno stato sociale. Gesù,
dicono, non ha inteso beatificare una
classe sociale. Soltanto una situazione
spirituale può essere messa in
relazione con una realtà spirituale come è il Regno.
Che la povertà reale sia una via
privilegiata verso la povertà di spirito è
verissimo e Gesù lo ripete in mille modi, tuttavia non si deve pensare che nella
beatitudine siano in gioco i proletari
o i cosiddetti «uomini
della terra» del giudaismo del tempo.
Il vero povero
evangelico è colui che ha scommesso tutto
su Dio, nella
fede.
Nel giudaismo
dell'epoca, il termine «povero» era praticamente sinonimo di santo
e di pio.
I Padri della
Chiesa fanno del «povero
in spirito» quasi
un sinonimo di «umile».
Quelli che si
appoggiano sul testo di Luca, accentuano il significato sociale della
beatitudine, vedendo espressa con la parola «poveri» anzitutto una condizione
sociale, uno stato concreto di vita.
Secondo loro
l'interpretazione tradizionale mette troppo l'accento
sulle disposizioni interiori del
povero e troppo poco
sulla natura del Regno che sta per venire.
Le beatitudini,
dicono, sono anzitutto una rivelazione sulla misericordia
e sulla giustizia che devono caratterizzare il
regno di Dio; contengono più una rivelazione
su Dio che sull'uomo o sul povero.
La parola usata nel vangelo per
indicare i poveri (ptóchoi) designa gli indigenti,
gli infelici, gli affamati, coloro che hanno bisogno
dell'elemosina per vivere.
Il termine ebraico
corrispondente,
anawim, indica all'origine le persone
«curve», cioè
piegate, umiliate, oppresse.
Per quale motivo - ci si chiede -
costoro dovrebbero essere favoriti da Dio?
Non per i loro particolari «meriti»
religiosi, si risponde, o per la loro buona disposizione, ma perché Dio deve a
se stesso, in quanto re giusto, di prendere le difese di chi non ha difesa.
I poveri, secondo la mentalità
dell'Antico Testamento, sono i «protetti del re».
E come si spiega, in questo caso, il
persistere dello stato di povertà e di oppressione dei poveri anche in Israele,
anche intorno a Gesù, per il quale il regno di Dio è già venuto?
La smentita dei fatti non porta ad
abbandonare la convinzione della giustizia regale di Dio, ma a proiettarla nel
futuro, nel regno di Dio degli ultimi tempi.
Allora i poveri saranno vendicati di
tutti coloro che li opprimevano, allora godranno veramente i benefici della
sollecitudine di Dio.
2. La spiegazione "teologica" non
basta
Queste dunque le due interpretazioni
principali della beatitudine dei poveri.
Una, come si vede, fa leva più sulla
povertà come "stato d'animo",
l'altra più sulla povertà come
"stato sociale".
In entrambi i casi il riscatto della
povertà viene dal regno di Dio, ma nel primo caso esso suppone una disposizione
che è nell'uomo, nel secondo solo l'esigenza di Dio verso se stesso.
Presa isolatamente, nessuna delle due
tesi soddisfa pienamente.
La prima perché tende a escludere
troppo il riferimento al sociale, alla realtà della povertà;
la seconda perché esclude troppo
drasticamente le disposizioni interiori del povero.
Vorrei sottolineare, in particolare,
gli inconvenienti della seconda interpretazione che fa della povertà un problema
teologico, facendo dipendere tutto da Dio.
Essa non spiega la parentela stretta
che esiste nel vangelo tra il concetto di povertà e quello di umiltà, tra il
privilegio dei poveri e quello dei bambini.
Si tratta, inoltre, di una spiegazione
che, presa rigidamente, sfocia nel nulla di fatto.
Il grande riscatto dei poveri,
sociologicamente tali, dovrebbe essere costituito dal regno di Dio, ma poi,
analizzando la natura di tale Regno, si vede che, per la loro situazione reale,
esso non porta nulla di nuovo, perché non li fa né più ricchi né più sazi sul
piano materiale.
Solo apparentemente, quindi, questa
interpretazione moderna è più attenta al sociale.
C'è anzi il rischio di strumentalizzare
la povertà, facendone solo un'occasione che permette a Dio di dimostrare la sua
sovrana giustizia.
Senza contare che, anche in questo
caso, la realizzazione si situerebbe su un piano del tutto diverso da quello
della promessa e dell'attesa: al povero si promette un riscatto dalla sua
povertà materiale, ma un riscatto che si rivela, alla fine, essere solo di
natura spirituale.
Gesù si preoccupa certamente dei poveri
reali, ma non lo fa tanto quando proclama i poveri «beati», ma quando considera
fatto a lui quello che si è fatto - o non si è fatto - ad essi e quando minaccia
l'inferno, come nella parabola del ricco epulone, a quelli che non si curano del
povero.
Nel nostro caso, la difficoltà nasce
dall'usare la categoria di "meriti" e di "virtù", laddove si dovrebbe usare
quella di "fede".
Dio non è indotto ad agire a favore dei
poveri dai loro meriti o dalle loro disposizioni morali, ma dalla loro maggiore
disponibilità a credere.
Nei poveri Dio non apprezza tanto ciò
che hanno, quanto ciò che non hanno: autosufficienza, chiusura, pretesa di
salvarsi da soli.
Pensare il contrario, sarebbe come dire
che il Regno è offerto prima ai pubblicani e alle prostitute perché Dio
privilegia tale "stato", non perché essi sono capaci di ravvedimento e i falsi
giusti no.
Non si tratta di sapere se l'agire di
Dio presupponga qualcosa in antecedenza: è chiaro che non lo presuppone;
si tratta di sapere se esige qualcosa in risposta.
Il povero deve riconoscere e accogliere
questa offerta preferenziale di Dio; insomma deve credere.
«Dio - dice san Giacomo - ha scelto i
poveri nel mondo per farli ricchi mediante la fede» (Gc 2,5).
La beatitudine evangelica: «Beati i
poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli» va letta alla luce del
binomio grazia - fede: «Per grazia siete salvati, mediante la fede» (Ef 2,8).
Il Regno rappresenta, nella
beatitudine, l'offerta di grazia, la povertà in spirito la risposta di fede.
I poveri "in spirito" sono i poveri
"credenti".
È come se Gesù dicesse: Beati voi
poveri «perché avete creduto» (non si deve dimenticare che egli si rivolge a
persone concrete che lo avevano seguito, come nei "guai" si rivolge a coloro che
di fatto lo avevano rifiutato); oppure: beati voi «se crederete».
La fede è sullo sfondo di ogni discorso
di Gesù.
La soluzione delle difficoltà va dunque
ricercata nella sintesi delle due prospettive.
Bisogna unire, non contrapporre, i
«poveri» di Luca e i «poveri in spirito» di Matteo.
Aggiungendo a «poveri» l'espressione
«in spirito», questi non ha fatto un'operazione soltanto catechetica, ma anche
ermeneutica (cioè di interpretazione): ha messo in luce una
componente implicita, ma reale, del concetto di povero nell'uso che ne aveva
fatto Gesù.
3. La povertà nella vita di Cristo
La migliore esegesi della
beatitudine dei poveri è la vita stessa di Cristo.
San Paolo scrive: «Gesù Cristo, da
ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo
della sua povertà» (2Cor 8,9).
Non c'è dubbio che qui si parla proprio
della povertà materiale di Cristo.
Il senso è: Cristo, essendo (nella
posizione di) ricco, si fece povero materialmente per arricchire noi
spiritualmente.
«Sostenne la povertà materiale -
commenta san Tommaso - per donare a noi le ricchezze spirituali» (S. Tommaso
d'Aquino, Somma di teologia, III. q. 40. a. 4).
Non venne infatti a rendere gli uomini
più ricchi di beni terreni, ma a farli figli di Dio ed eredi della vita eterna.
La povertà di Cristo ha anzitutto un
aspetto concreto, esistenziale, che l'accompagna dalla nascita alla morte.
La beata Angela da Foligno ha una
pagina assai profonda su questa povertà del Salvatore:
«La povertà ha tre modi di essere.
Il primo grado della
perfetta povertà di Cristo fu che egli volle vivere ed essere povero di tutte le
cose temporali di questo mondo. Non volle per sé né una casa né un terreno né
una vigna né alcuna proprietà né soldi o fondi. Fu povero, ebbe fame, sete, patì
il caldo e il freddo, la fatica, ogni privazione e bisogno. Non dispose di cose
raffinate e di pregio...
La seconda povertà fu che
egli volle essere povero nei parenti e negli amici...
La terza povertà fu che
volle spogliarsi di se stesso, volle farsi povero della sua stessa forza divina,
della sua sapienza e della sua gloria»
(Il
libro della beata Angela da Foligno, Quaracchi, Grottaferrata 1983. pp.
642s..).
Povero dunque di cose, povero di
appoggi, povero di prestigio.
Questa terza povertà è la più profonda
di tutte perché tocca la sfera dell'essere, non più solo dell'avere.
È consistita, per Cristo, nel fatto
stesso di farsi uomo, di spogliarsi, se non della sua natura divina, almeno di
tutto ciò che tale natura avrebbe potuto rivendicare per sé in fatto di gloria,
di ricchezza e splendore.
«Cosa c'è - esclama san Gregorio
Nisseno - di più povero per Dio che la forma di servo? Cosa di più umile che la
comunione con la nostra natura?» (S. Gregono Nisseno, Sulle beatitudini.
1; PG 44,1201B).
In Cristo brilla la povertà nella sua
forma più sublime che non è quella di essere povero (questo può essere un
dato imposto o ereditato), ma quella di farsi povero, e farsi povero per
amore, per fare ricchi gli altri.
Tuttavia, circa la povertà materiale di
Gesù, ci sono forse dei luoghi comuni da rettificare in base a un più attento
esame dei vangeli.
Per quanto ne possiamo sapere, Gesù non
appartenne, per condizione sociale, al proletariato del tempo, cioè alla classe
infima della società.
Era un artigiano e si guadagnava la
vita con il proprio lavoro, che era una condizione senz'altro migliore del
lavoro dipendente.
Anche durante la vita pubblica, il
prestigio di rabbi di cui godeva, gli inviti che riceveva anche da
persone benestanti, le amicizie di cui godeva, come quella di Lazzaro e delle
sue sorelle, l'aiuto che riceveva da alcune donne che disponevano di beni (cfr.
Lc 8,2s), sono cose che ci impediscono di fare di lui l'ultimo dei poveri.
La stessa frase: «Le volpi hanno le
loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha
dove posare il capo» (Lc 9,58) si spiega più pensando alla sua condizione di
predicatore itinerante, senza fissa dimora, che alla mancanza di un tetto, anche
se questo pure vi può essere incluso.
Dal punto di vista strettamente
materiale, c'erano certamente al suo tempo persone più povere di lui, masse
intere di diseredati, di cui egli stesso aveva compassione, vedendole «stanche e
sfinite» (Mt 9,36).
Anche tra i suoi futuri discepoli, per
esempio tra certi asceti ed eremiti del deserto, ve ne furono di quelli che
superarono il Maestro in fatto di austerità e povertà puramente materiale.
L'equivoco deriva dall'attribuire un
valore eccessivo alle manifestazioni esterne e materiali della povertà.
Gesù non ha mai rivendicato per sé un
primato nella povertà, come l'ha rivendicato invece nella carità, dicendo che
nessuno ha amore più grande di quello di dare la vita per i propri amici (cfr.
Gv 15,13).
Era libero anche di fronte alla sua
povertà, come era libero nel mangiare e nel bere, al punto di passare, senza
prendersela troppo, per un beone e un mangione.
In fatto di ascesi, il Precursore era
molto più rigido di lui.
Gesù non è caduto nella trappola, in
cui sono caduti in seguito alcuni dei suoi imitatori, di assolutizzare la
povertà materiale, misurando su di essa il grado di perfezione e finendo così
per diventare ricchi della cosa peggiore che ci sia: di se stessi e della
propria giustizia.
Non si dà un
valore assoluto nelle cose materiali,
un punto oltre il quale non si possa andare.
Per
quanto uno voglia
essere povero, scoprirà che c'è
sempre qualcuno
più povero di lui.
La povertà
materiale non ha fondo.
Ciò che dà valore
religioso alla povertà è il motivo
per cui viene scelta, e nel caso di Cristo il motivo è
l'amore: «Si è fatto povero per voi, perché voi diventaste
ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9).
Il
dono è prezioso soprattutto quando è frutto di spogliamento,
quando ci si priva di ciò che si dona.
E il Verbo si è, in qualche modo,
privato della sua divina ricchezza, per poterne fare parte a noi.
La povertà di
Dio è un'espressione della sua agape, del suo essere
«amore».
I filosofi cinici al tempo di Gesù
vivevano una povertà materiale, per certi
versi, più radicale della sua, ma non era ispirata dall'amore per gli
uomini; era piuttosto una sfida lanciata loro in faccia, per dimostrare l'indipendenza e la superiorità dell'uomo
sulla natura e sulle cose.
4. Essere "per
i poveri" ed essere "poveri"
Con la venuta di
Cristo si registra un salto di qualità
in tema di povertà.
Esso può essere
sintetizzato così:
l'Antico
Testamento ci presenta un Dio "per i poveri",
il Nuovo
Testamento un Dio che si fa, lui stesso, "povero".
L'Antico
Testamento è pieno di testi sul Dio
«che ascolta il grido dei
poveri», che «ha pietà del debole
e del povero», che «difende la causa dei miseri», che «fa giustizia agli
oppressi»;
ma solo il
Vangelo ci
parla del Dio che si fa uno di
loro, che sceglie per sé
la povertà e la
debolezza.
La povertà
materiale, da
male da evitare, acquista
l'aspetto di un bene da coltivare,
di un ideale da perseguire. Questa è la grande
novità recata da Cristo.
In questo modo, sono poste ormai in
chiaro le due componenti essenziali
dell'ideale della povertà evangelica:
essere "per i poveri" ed essere "poveri".
La
storia della
povertà cristiana è la storia del diverso atteggiarsi
di fronte a queste due esigenze.
Esso si riflette, per esempio, nel modo
diverso di interpretare
l'episodio del giovane ricco (cfr. Mt 19,16ss).
A volte,
si accentua, di esso, il «vendi
tutto», a volte invece il «dallo ai poveri»;
cioè, ora lo spogliamento in vista di
una radicale sequela di Cristo, ora la
preoccupazione
per i poveri.
Nell'antichità,
alla interpretazione degli Encratiti
- una corrente radicale che
propugnava l'astensione
totale dal matrimonio e dal possesso -,
fa riscontro quella conciliante di un Clemente Alessandrino.
Questi rischia, a sua volta, di andare all'eccesso opposto quando afferma che
ciò che conta non è tanto
la povertà, quanto l'uso che si fa della
ricchezza:
«Colui che
considera possedimenti e oro e argento e
case come doni di Dio, e in onore a Dio che gli dà tutto
questo, collabora con questi suoi averi
alla salvezza di altri uomini: questi è colui
che è dichiarato beato dal Signore e
proclamato povero in spirito» (Clemente
Alessandrino, Quale ricco si salva, 16,3; GCS 17. p. 170).
Una prima sintesi
e un equilibrio tra le due istanze è
raggiunto nel pensiero di uomini come san Basilio e
sant'Agostino e nell'esperienza monastica da
loro avviata. In essa, alla più rigorosa povertà personale, si
unisce una uguale sollecitudine per i poveri
e i malati. Questa si concretizza in apposite istituzioni che serviranno,
in alcuni casi, come modello alle future opere
caritative della Chiesa.
Nel medioevo
assistiamo, in un altro contesto storico,
al ripetersi di
questo ciclo.
La Chiesa, e in
particolare
gli antichi ordini monastici
diventati in occidente assai
ricchi, coltivano ormai la povertà quasi solo nella forma
dell'assistenza ai poveri,
ai pellegrini, cioè gestendo
istituzioni caritative.
Contro questa
situazione, a partire
dall'inizio del secondo
millennio insorgono i cosiddetti
movimenti pauperistici,
che mettono in primo piano l'esercizio
effettivo della povertà, il ritorno della Chiesa
alla semplicità e
povertà del Vangelo.
L'equilibrio e la
sintesi sono realizzati, questa volta, dagli ordini mendicanti, che si
sforzano di praticare, a un tempo, un radicale spogliamento e una cura amorevole per i poveri, i
lebbrosi, gli schiavi, e
soprattutto di vivere la loro povertà
in comunione con la Chiesa, non contro di essa.
Con tutte le cautele del caso, possiamo
forse scorgere una
dialettica analoga anche in epoca moderna.
L'esplosione della coscienza sociale
nel secolo scorso e del problema del proletariato ha di nuovo rotto l'equilibrio,
spingendo a mettere tra parentesi l'ideale della povertà volontaria, scelta e
vissuta alla sequela
di Cristo, per interessarsi al problema dei poveri.
Sull'ideale
di una Chiesa povera, prevale la preoccupazione
"per i poveri".
Questa si traduce
in mille iniziative
e istituzioni nuove, soprattutto nell'ambito dell'educazione dei fanciulli poveri e
dell'assistenza ai più abbandonati.
Anche la dottrina
sociale della Chiesa è un prodotto di questo clima spirituale.
È stato il
Concilio Vaticano II a rimettere in primo piano, soprattutto in seguito al
noto intervento del cardinale
Lercaro, il discorso su «Chiesa e povertà».
Nella
costituzione sulla Chiesa si legge, a questo proposito:
«Come Cristo ha
compiuto la redenzione attraverso la
povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata
a prendere la stessa via... Come
Cristo è stato inviato dal
Padre a dare la buona novella ai
poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito, a cercare e salvare ciò che
era perduto, così la Chiesa circonda d'affettuosa cura
quanti sono afflitti dalla umana
debolezza, anzi riconosce
nei poveri e nei sofferenti l'immagine del suo Fondatore,
povero e sofferente, si premura di sollevarne
l'indigenza e in
loro intende servire a Cristo» (Lumen Gentium, 8).
In questo testo sono riunite entrambe
le cose: l'essere
poveri e l'essere a servizio dei poveri.
Non è detto
che questi due aspetti debbano e possano essere
coltivati in uguale misura da
ogni credente, o da ogni
categoria di credenti.
Bisogna infatti
tener presente
anche la dottrina dei carismi e delle diverse funzioni assegnate
a ciascun membro, nel corpo di Cristo.
San
Paolo sembra includere nel
novero dei carismi anche lo spogliarsi volontariamente dei propri beni per gli
altri.
Carisma è infatti
per lui il «dare con semplicità» (cfr. Rm 12,6s) e il «distribuire tutte le
proprie sostanze
ai poveri», come lo sono, nello stesso contesto, la
profezia, il parlare le lingue, la scienza
(cfr. 1Cor 13,3).
In alcuni suoi
membri e ordini religiosi, dunque, la
Chiesa esprimerà maggiormente il Cristo povero, in
altri il Cristo
che prende su di sé «i languori e le infermità» dei poveri (cfr. Mt 8,17).
La pienezza dello
Spirito
e dei doni è nella Chiesa, non nel singolo credente.
Nella comunione
ecclesiale, però, tale pienezza diventa
di tutti.
Se infatti io amo l'unità e mi tengo
unito ad essa, quello che ognuno in essa ha,
o fa, è anche
mio, lo faccio anch'io.
Appartengo infatti
a quel corpo
che è povero e che si prende cura dei poveri.
«Bandisci l'invidia
- diceva sant'Agostino - e sarà
tuo ciò che è mio, e se io bandisco l'invidia sarà mio
ciò che possiedi
tu».
La conseguenza di
ciò è che dobbiamo bandire l'animosità e il giudizio, sostituendo ad essi la
reciproca stima
e la gioia per il bene che Dio compie attraverso altri.
Quelli che
lavorano per la giustizia sociale e la promozione dei poveri (che spesso hanno bisogno di grandi
mezzi e strutture) si rallegrano che ci siano altri che vivono e annunciano il
vangelo in povertà e semplicità,
e viceversa.
«Cessiamo dunque -
esortava l'Apostolo
in una situazione simile a questa
- dal giudicarci gli uni
gli altri...
Diamoci piuttosto alle opere della pace e della edificazione vicendevole» (Rm
14,13.19).
5. Perché la
povertà volontaria?
Ci resta da rispondere alla domanda
forse più importante: perché Cristo ha
introdotto nel mondo l'ideale
di una povertà volontaria?
Perché rinunciare
volontariamente alle cose
che Dio ha creato per la gioia
dell'uomo?
La redenzione si
pone forse in contrasto
con la creazione?
La risposta è nel
motivo che giustifica la proposta
di Cristo.
Esso è chiaramente
espresso nel testo; il regno dei cieli o il regno di Dio.
Tutto prende senso
dalla natura di questo regno che è di essere "già" presente
nel mondo, ma "non ancora" pienamente e definitivamente stabilito.
Poiché il regno di Dio è già presente
in terra, nella persona e nella predicazione
di Gesù, occorre non lasciarselo
sfuggire, ma afferrarlo, dando via tutto ciò
che può essere di ostacolo ad esso, compresi, se fosse
necessario, anche la mano e
l'occhio (cfr. Mt 18,8s).
È possibile, in
altre parole, cominciare a vivere fin
d'ora come si vivrà nella situazione definitiva del Regno,
dove i beni terreni non hanno più alcun valore,
ma Dio sarà tutto
in tutti.
Questa è la
motivazione della povertà che possiamo
chiamare escatologica, o anche profetica, in quanto
annuncia i cieli nuovi
e la terra nuova.
La povertà è
profetica perché, con
l'esempio di distacco dai beni terreni,
proclama silenziosamente, ma efficacemente, che esiste un altro bene; ricorda
che passa la scena di questo mondo,
che non abbiamo quaggiù dimora permanente,
ma che la nostra patria è in cielo.
Questa motivazione
escatologica, basata sull'improvvisa irruzione del Regno, o, dopo la Pasqua, sull'attesa
dell'imminente ritorno di Cristo, continua ad
agire anche in seguito, in una forma però
alquanto diversa.
Il cristiano non
ha quaggiù cittadinanza stabile,
appartiene a un'altra città: per questo è un controsenso
che si attacchi ai beni del tempo presente che dovrà
lasciare da un momento
all'altro.
La motivazione
escatologica agisce ormai sotto forma di speranza dei
beni eterni.
Questo, per quanto
riguarda la prima caratteristica del Regno, che è di essere "già" venuto.
Poiché però,
in
altro senso, il Regno deve ancora venire, è in cammino
per giungere «fino ai confini della terra», ecco che occorrono persone che si
dedichino interamente
alla sua venuta, libere da ogni legame e compromesso
terreno che ostacolerebbero un tale
annuncio.
Se il
vangelo
deve giungere «fino agli estremi confini della
terra» (At 1,8), bisogna che i
suoi messaggeri, come i corridori nello stadio, siano leggeri, liberi, nudi, per
non frenare «la corsa
della parola» (cfr. 1Ts 3,1).
Questa seconda è
la motivazione missionaria, o
apostolica,
della povertà, messa in luce soprattutto nei
discorsi "di invio" di Gesù: «Non prendete nulla per il
viaggio, né bastone, né
bisaccia, né pane, né denaro,
né due tuniche per ciascuno» (Lc 9,3).
6. Attualità
della beatitudine della povertà
La beatitudine dei
poveri è di grande attualità nel contesto storico in cui viviamo, segnato dalla
preoccupazione per l'ecologia e la salvaguardia del creato.
Una maniera di
vivere la beatitudine evangelica, possibile
e accessibile a tutti, è infatti di tornare a un uso
sobrio, moderato delle cose,
a uno stile di vita semplice
che permetta di godere dei beni della creazione
senza abusarne o
sprecarli.
Abbiamo bisogno di
questo invito, specialmente nei
paesi ricchi
dell'emisfero nord.
Siamo tentati di
sostituire
in continuazione le cose a nostro uso: vestiti, auto,
computer e apparecchi elettronici in genere.
«Usa e
getta» è
diventata la sintesi della nostra civiltà.
A volte
questo assume forme maniacali.
Francesco d'Assisi
soleva dire ai suoi frati: «Non
sono stato mai ladro di elemosine,
nel chiedere o nell’usare
oltre il bisogno. Presi sempre meno di quanto
mi occorreva, affinché altri
poveri non fossero privati
della loro parte;
che fare il contrario sarebbe rubare».
Noi dovremmo poter
dire lo stesso dei beni della creazione:
«Non ho rubato alle
generazioni future risorse
ad esse destinate:
acqua, energia, legname per fare la carta...».
Tutto ciò che
usiamo in più del necessario,
direttamente o indirettamente, lo
sottraiamo ad altri
che vivono ora sulla terra o che verranno
dopo di noi.
Mi piace ricordare
le parole di uno scrittore inglese,
Jerome K. Jerome, un umorista che però, in questo
caso, parla seriamente.
L'esperienza di un viaggio in barca sul Tamigi in senso contrario alla corrente
gli
suggerisce un'osservazione sulla vita:
«Quanta gente, nel
viaggio lungo il fiume della vita, carica, fino quasi a farlo affondare, il
proprio battello di
una infinità di cianfrusaglie
che crede necessarie perché
il viaggio stesso risulti
piacevole, ma che sono in realtà
inutili e senza importanza.
Perché non fare piuttosto che
la barca della nostra vita sia
leggera, carica solo delle
cose di cui c'è
veramente bisogno: una casetta accogliente,
piaceri semplici, uno o due amici degni di questo nome, qualcuno da amare e
qualcuno che ti ama, un
gatto, un cane, una pipa o due. il sufficiente per mangiare
e per coprirsi? Troveremmo che in questo modo è
molto più facile spingere la barca. Avremmo tempo per
pensare, per lavorare e
anche per bere qualcosa standocene sdraiati al sole».
Non è,
esattamente, l'ideale evangelico della povertà per il Regno, ma almeno fa vedere come esso non sia contrario alla
felicità umana, ma sia anzi un suo
potente alleato.
Un altro
atteggiamento che la beatitudine evangelica
della povertà incoraggia è la contemplazione.
Bisogna
scoprire e stimare la forma speciale di possesso
che è la
contemplazione.
Essa è una maniera
di possedere
le cose in maniera più profonda, con l'anima e
non solo con i sensi e il corpo.
San Paolo definisce
gli apostoli e, indirettamente,
tutti cristiani, persone che «non hanno niente e possiedono
tutto» (2Cor 6,10).
La contemplazione
fa questo miracolo: ci permette di possedere le cose senza accaparrarle
per noi e senza sottrarle ad altri.
Quando
qualcuno
ha il diritto di proprietà d'una cosa - un parco,
un bosco, una spiaggia marina, un laghetto - essa appartiene a lui solo e ogni
altro ne è escluso.
Nella
contemplazione, mille persone possono gioire
di quello stesso lago e di quel parco
senza toglierne il godimento
a nessuno.
PER UN ESAME DI
COSCIENZA BASATO SULLE BEATITUDINI
II modo migliore
di prendere sul serio le Beatitudini
evangeliche che stiamo meditando
è di servircene come di uno specchio per un esame di coscienza davvero
"evangelico".
Tutta la
Scrittura, dice san Giacomo,
è come uno specchio nel quale il
credente deve guardarsi
con calma, senza fretta, per conoscere davvero
"come è" (cfr. Gc 1,23-25),
ma la pagina delle beatitudini lo è in maniera unica.
«Beati i poveri
in spirito, perché di essi è il regno
dei cieli».
Io sono povero di
spirito, povero dentro,
abbandonato in tutto a Dio?
Sono libero e distaccato dai beni
terreni?
Cosa rappresenta il denaro per me?
Cerco di condurre
uno stile di vita sobrio e semplice,
come si addice a chi vuole testimoniare il vangelo?
Prendo a cuore il
problema della spaventosa povertà
non scelta ma
imposta a tanti milioni di miei fratelli?
|