Orizzonti 1

Home Su Sommario Cerca Contatti Privacy Area riservata

 

Orizzonti/1

«Lo condusse fuori del villaggio»

Marco 8,22-26

 

Il testo

Guarigione di un cieco a Betsaida

[22]Giunsero a Betsàida, dove gli condussero un cieco pregandolo di toccarlo. [23]Allora preso il cieco per mano, lo condusse fuori del villaggio e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli chiese: «Vedi qualcosa?». [24]Quegli, alzando gli occhi, disse: «Vedo gli uomini, poiché vedo come degli alberi che camminano». [25]Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente e fu sanato e vedeva a distanza ogni cosa. [26]E lo rimandò a casa dicendo: «Non entrare nemmeno nel villaggio».

 

Marco, fra tutti gli evangelisti, è quello che ama dare risalto a particolari che gli altri invece trascurano. Piccole annotazioni, magari un aggettivo o una mezza frase un po' acerba nello stile, ma che poi risulta preziosa e ispirativa.

Molto breve è questo racconto di un miracolo, ma il testo racchiude una grande ricchezza, come vedremo.

Più che un racconto esso appare realmente come una parabola, che bisogna interpretare, cogliendo ogni sfumatura, perfino notando le apparenti contraddizioni.

Di questi miracoli, così en passant, Marco ne riporta un certo numero. E solo all'apparenza sono di carattere riempitivo; visti nella dinamica del contesto, appaiono piuttosto come delle chiavi interpretative sorprendenti.

Egli ama costruire le proposte di Gesù più attraverso i suoi gesti che attraverso le sue parole.

Per Marco, Gesù parla poco, ma agisce molto e il messaggio si nasconde nei gesti: bisogna scoprirlo.

 

Leggere e capire

Cogliamo anzitutto la struttura del breve racconto, notando alcuni elementi tipici.

C'è come una cornice: all'inizio si parla del villaggio (Betsaida) a cui Gesù giunse; alla fine e il cieco che deve «evitare di entrare» nel villaggio (Betsaida). E nel centro c'è tutta la vicenda che si svolge «fuori del villaggio». Perciò il villaggio è insieme luogo di transito di un viaggio ben organico, non luogo quando Gesù opera, e poi di nuovo luogo vietato, e insieme necessario, per tornare a casa. Marco, fra i sinottici, è il solo a ricordare questo episodio, e la sua descrizione è molto originale.

Altro aspetto importante del racconto è il ripetersi di alcuni elementi tipici: il gesto delle mani, la parola occhi, la pedagogia lenta e attenta dì Gesù verso il cieco, la evidente passività del cieco, che tra l'altro non ha neanche un nome. Alcuni gesti di Gesù sembrano magici: bisogna vederli nel contesto antico (per es. la saliva, che rappresenta la sorgente di vita). Anche la risposta del cieco dà l'impressione di un certo imbarazzo: la traduzione della frase potrebbe anche suonare in maniera differente. Potrebbe essere tradotta diversamente: «Vedo degli uomini, che sono come alberi, anche se camminano». Questa traduzione segnala un senso simbolico al tutto.

Betsaida è la patria di tre apostoli (Pietro, Andrea, Filippo), ma si è presa anche un rimprovero durissimo, per la sua incredulità, come ricorda Matteo: «Guai a te Corazin, guai a te Betsaida...» (Mt 11,21).

 

Importantissimo per il senso del testo è il contesto dove si trova il brano. Le ipotesi sono molte.

- Possiamo vedere chiaramente un parallelismo, con altri due miracoli: quello del sordo/balbuziente (Mc 7,31-37), e in tal caso acquista un senso proprio quello che sta tra i due fatti: il lievito dei farisei (Mc 8,14-21 ), cioè il contrasto fra le due dottrine, e la fatica a capire.

- Oppure possiamo collegare Betsaida con Gerico, e quindi con la vicenda del cieco Bartimeo (Mc 10,46-52): e allora il senso potrebbe cambiare, perché in mezzo (cioè nei capitoli 8,27-10,45) ci sono tutte le esigenze della sequela e i tre annunci della passione. Questa sequenza dì esigenze sconcertanti allarma i discepoli, i quali cercano di resistere alle pretese di Gesù, e sbagliano spesso. Ci sono una quindicina dì atteggiamenti contrastanti fra Gesù e i discepoli in questi tre capitoli.

- In entrambi i casi è importante non solo il modo di fare di Gesù, ma anche la geografia. Siamo nella zona della Decàpoli (Mc 7,31), cioè in zona di confine, verso Dalmanuta (Mc 8,10: nome sconosciuto, o forse simbolico). Gesù va dall'altra parte del lago (Mc 7,13): elemento simbolico per indicare due mondi differenti. Quello del villaggio, dalla mentalità «del messianismo terreno, nazionalistico», e quello del «fuori villaggio», dell’altra sponda», per indicare un altro tipo di prospettiva, il messianismo del servizio, aperto a tutti, universale.

- I discepoli fanno fatica a uscire dal «villaggio», hanno una visione molto "nazionalistica»: Gesù con gesti simbolici li vuole far uscire, far loro cambiare mente e prospettiva. Ne dà prova anche la citazione di Geremia: «Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite (Ger 5,21; Mc 8,18; cf. anche Mc 7,18), completata con l’interpellazione: «Non capite ancora?» (Mc 8,21).

 

Per molti Padri antichi questo racconto è una parabola della storia di Israele: deve lasciarsi condurre fuori dal villaggio delle sue Tradizioni, per seguire Gesù, che lo conduce a una nuova esperienza di amicizia, di alleanza, di discernimento delle cose, di maturità. Ma molti del popolo, a cominciare dai capi, non hanno voluto seguirlo e sono rimasti nella cecità, nella incapacità di vedere le cose in modo chiaro. Si tratta di una lettura allegorica che era molto comune nella letteratura patristica, e che a volte manifesta una tendenza polemica verso il mondo giudaico.

 

Meditare la Parola

Esaminiamo ora alcuni elementi, per approfondirli nella meditazione, in modo da cogliere, in una lettura meno letterale e più simbolica, ispirazione per la vita. È facile cogliere solo la guarigione, anche se lenta, del povero cieco. Ma non è quello il punto centrale.

 

1. Gesù in cammino: è questa una delle evidenti caratteristiche della vita di Gesù, secondo Marco. Anche qui lo troviamo in cammino, nel grande viaggio che lo porterà dal Nord verso il Sud, fino a Gerusalemme, per morire ucciso. È lungo il cammino, sulla strada di tutti, che Gesù fa incontri preziosi, e trova spunto per mostrare con i gesti in cosa consista il suo messaggio e la sua proposta. Non è un rabbi sedentario, che aspetta discepoli, ma un maestro che cammina con gli occhi aperti in mezzo alla gente, e dalla vita di tutti prende spunto di dottrina e di comportamento. Libera perciò la sua funzione di «rabbi» dalla fisionomia di un isolato, di uno che ha tutto nella testa, di uno sputasentenze. La sua sapienza (di vita) si rivela, si esemplifica proprio nei contesti della vita. Egli promuove la vita, libera chi è bloccato nelle relazioni sociali da divieti e complessi, reintegra gli emarginati.

 

2. La gestualità di Gesù: sembrano dei particolari minimi, e in questo testo ce ne sono molti, e direi che la loro importanza non è piccola, anche per il contrasto con la passività del cieco. Intanto la stessa richiesta di guarigione è evocata con il termine «toccare» («pregandolo di toccarlo»). Il primo atto di Gesù è quello di prendere il cieco «per mano e condurlo». Una relazione corretta, perché al cieco si deve prima far sentire la presenza fisica, e poi parlargli. Ma subito lo sollecita a rischiare, fidandosi di quella mano amica: lo conduce fuori dal villaggio. Per restare isolato con lui, per accompagnare il risveglio del vedere e della personalità senza il chiasso: l'aveva già fatto con il muto balbuziente (cf. Mc 7,31-35). Ma anche per poter concentrare l'attenzione reciproca sul processo di guarigione.

Poi gli mette la saliva sugli occhi, gli impone le mani: tutto un linguaggio tattile, che il cieco non poteva che vivere con intensità. La saliva indica - secondo la mentalità antica - la forza vitale di una persona, perché viene da dentro. Mette a contatto quella ferita pesante con il segreto vitale della sua persona. E poi le mani imposte più volte (vv. 23.25), indicano una relazione gestuale intensa, una intesa che diviene familiarità, solidarietà, sostegno. Mani sugli occhi, mani sulle spalle, mani che stringono e danno calore: perché quel cieco non era solo cieco, era non persona, era anonimo, aveva fatto della sua cecità una sua forma di personalità: passiva, senza identità.

 

3. Un processo graduale ma totale: la lentezza con cui avviene la guarigione merita una attenzione particolare. In genere Gesù guarisce abbastanza velocemente. In questo caso invece sembra che la sua azione insolitamente si prolunghi. Due volte torna a mettergli le mani sugli occhi: la scena ha un significato non solo di guarigione fisica, ma molto più ampio e totale. Gesù vuole risvegliare la sua personalità totalmente indifferente, passiva, senza desideri e senza iniziativa. Sradicandolo dalle abitudini comode del villaggio, dove poteva muoversi con facilità, vuole metterlo davanti a se stesso, senza alibi né difese. Doveva diventare persona, capace di vederci in modo chiaro, sano, maturo, lui che neppure aveva chiesto la guarigione, non sapeva neanche desiderarla. Per questo Gesù gli pone la domanda: «Vedi qualcosa?». Lo costringe a mettersi in gioco, a uscire dalla passività, e rischiare, anche sbagliando. E il suo primo gesto è stato «alzare gli occhi» (v. 24). Cioè provare a smuovere il peso passivo della cecità e della persona «disgraziata».

E il cieco ha tentato di rispondere, con una frase che mostra imbarazzo e incertezza. Confonde alberi e uomini e ancor di più confonde la loro natura. Alberi che camminano: cioè soggetti rigidi che sembrano in movimento. Non distingue ancora cosa deve restare ben fermo per vivere sano (gli alberi), e cosa deve invece muoversi per essere sano (gli uomini). Manca di discernimento, è in stato confusionale, ma accetta di uscire allo scoperto, di farsi protagonista della sua guarigione, di non subirla ma accompagnarla, guardando avanti insieme a Gesù, da un'altra posizione rispetto al solito villaggio. Questa frase può essere del tutto simbolica: anche gli apostoli sono in cammino con Gesù, ma di fatto sono rigidi, chiusi, resistono; è un cammino innaturale, perché non ne condividono i valori e le opzioni. Hanno preoccupazioni molto meschine, sono chiusi nel loro villaggio, rigidi come alberi.

 

4. Il risultato finale: si intravede implicitamente una serie di messe a fuoco, di verifiche reciproche, di domande e risposte. Marco offre quasi il referto di avvenuta guarigione con le tre espressioni: «ci vide chiaramente e fu sanato e vedeva a distanza ogni cosa» (v. 25). Si tratta di un risultato simile a quello segnalato già per il sordo balbuziente, del capitolo precedente. Anche lì con tre effetti: «si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della lingua e parlava correttamente» (Mc 7,36). Si tratta cioè della raggiunta maturità, non solo visiva, ma come personalità. In questa prospettiva dobbiamo interpretare il miracolo.

La visione chiara indica che non ci sono ostacoli fisici alla verità delle cose, che tutto è nella luce, c'è una accettazione dell'oggettività e della natura delle cose, senza confusioni di alberi e uomini. La visione sana indica che sono stati tolti gli ostacoli che lo bloccavano: complessi, paure, passività. Per cui ciò che è nel reale, è accettato dentro, senza patologia, senza resistenze, con libertà aperta. La visione a giusta distanza segnala quella che si chiama la «prospettiva»: sa cioè distinguere cose vicine e lontane. In altre parole ha raggiunto la maturità di chi non appiattisce tutto sul troppo lontano o sul presente, pretendendo tutto e subito. Non si guardavano negli occhi Gesù e il cieco, ma guardavano insieme verso il mondo, la vita, la storia. Così questa persona passiva e complessata, è diventata capace di accettare la luce della realtà, accettarla con animo sereno, mettendosi in gioco, e discernendo vicinanza e complessità.

5. Ritornare a casa, ma non nel villaggio: anche questa conclusione, all'apparenza sorprendente, ha un valore simbolico evidente. La sua casa certo stava nel villaggio, e quindi doveva passare per il villaggio per arrivarci. Eppure è invitato da Gesù a «non entrare nemmeno nel villaggio». Quello che all'apparenza è assurdo, appare chiaro quando si pensa che la casa indica anche la propria identità, non solo il luogo dove dormire o abitare. Lo ha ricostituito come personalità nuova, capace di valutazione e di giudizio, di discernimento e di responsabilità guarita. Questa nuova personalità ha bisogno di casa, di essere vissuta, posseduta ed esercitata. Il cieco deve abitare la sua nuova identità, con fiducia e sicurezza, vivendola.

Ma si trova in mezzo a gente (il villaggio) che lo ha conosciuto solo come un «povero cieco», passivo, a cui non si poteva chiedere nulla. Ora deve stare in mezzo agli altri con una visione chiara, sanata, matura: deve trovare nuove forme di relazione sociale e di responsabilità. Non deve, soprattutto, farsi condizionare dall'immagine che gli altri hanno di lui. Né deve andare in giro a fare il «miracolato». Deve imparare a essere ciò che Gesù lo ha fatto diventare: una fatica per lui, ma un cambiamento anche per tutto il villaggio. Si tratta di un esercizio di apprendistato e di resistenza alle pressioni delle abitudini altrui. Per questo la guarigione della vista è solo una parte della guarigione globale, che è la più importante, e il triplice effetto ricordato da Marco ne è la prova.


La Parola sapienza di vita

Circostanze come chance: quel passaggio di Gesù è diventato speranza per gli amici del cieco e chance di cambiamento totale per lui. Ma doveva lasciarsi condurre, coinvolgere, accettare di mettersi in gioco. Ci sono anche nella nostra vita incontri che diventano opportunità, non solo per ricevere qualche «grazia", ma per un cambiamento profondo della personalità. Forse si tratta di una celebrazione particolare, di un pellegrinaggio, di una malattia, iniziative che forse non abbiamo preso noi, ma in cui ci siamo trovati per caso coinvolti, e poi tutto è cambiato.

 

• Un processo profondo e ampio: Gesù agisce come al rallentatore e Marco ama mostrare questa attenzione pedagogica. Non si trattava solo di guarire gli occhi, ma di risvegliare una personalità del tutto rachitica. Ci rendiamo conto anche noi che da certe malattie (psichiche e spirituali) veniamo fuori solo attraverso un lungo processo di risveglio e di guarigione. Sono gesti e parole, sono prove e verifiche, sono rischi e attese. Di solito non mancano neanche le sofferenze.

 

• Un gioco d'azzardo: quella mano che lo portava fuori poteva anche aprirsi e abbandonarlo là, fuori dai riferimenti che conosceva, e sarebbe stato perduto. Ma anche quei gesti strani, quelle mani che si posano sugli occhi, quella domanda strana, quasi sintomo di paura di non farcela. E sempre un'avventura sostenuta da certezze fragili, segnali deboli, da novità che non si conoscono, dalla scoperta di orizzonti nuovi mai prima incontrati. Ci lasciamo anche noi «toccare», interpellare, ci affidiamo o resistiamo?

 

• II coraggio di alzare gli occhi: era lì - negli occhi opachi e inutili - la chiave della sua emarginazione e della sua personalità soffocata. Ma era anche diventato un gesto impossibile, per la vergogna e la paura. E il primo gesto voluti) e fatto: gestire proprio quegli «occhi» umiliati, sollevandoli, anche se con molta resistenza psicologica. Bisogna giungere fino a questo punto: provare a rimuovere ciò che invece ci schiaccia e ci umilia. Sappiamo fare questo primo gesto, rivoluzionario, ma necessario, per essere guariti? E indispensabile collaborare con la mano di Dio, e non pretendere che lui faccia tutto da solo. Accettiamo i passaggi purificatori, la verifica, il dialogo di discernimento o vogliamo solo essere totalmente miracolati ?

 

Dove arriva il processo: Marco segnala il risultato finale con le tre espressioni: sano, chiaro, maturo. Si raggiunge così la maturità completa: in maniera chiara (senza ombre, equivoci), in maniera sana (senza patologie, pregiudizi, chiusure culturali), in maniera proporzionata (in prospettiva, con la gradualità, i vari piani prospettici...). Per analogia bisogna riconoscere anche nelle nostre guarigioni questi risultati: da raggiungere, da favorire, senza precipitazione. Oppure ci accontentiamo di qualsiasi risultato parziale, perché tanto non si può ottenere tutto'

 

Tornare alla convivenza: io rimanda a casa, ma invitandolo a non tornare al vecchio schema, alla vecchia mancanza di personalità. Ogni nuova coscienza va vissuta nella relazione con gli altri, con un nuovo protagonismo, accettando le sfide di vecchie mentalità, senza soccombere per rispetto umano. C'è la tentazione di isolarsi dagli altri, perché potrebbero sciupare la «grazia» così intima. All'esterno si continua come prima, per non dare fastidio alle abitudini altrui.


Non è raro che ci capiti di avere una percezione distorta e alterata delle cose. Ci sono strani meccanismi che alla fine ci costringono all'ambiguità e agli equivoci. Il volto dell'altro diventa quasi come un'ombra e perde della sua forza evocativa. Prigionieri di paure e fatalismi finiamo per non vederci più, cancelliamo ogni traccia delle differenze degli altri, li riduciamo a ombre vaganti, ad «alberi che camminano». Il volto dell'altro infrange la nostra sicurezza, scompagina le certezze acquisire. Per il suo venire da fuori si presenta anche come una minaccia (Levinas). Bisogna uscire dai recinti sacri e comodi dei «villaggi» delle cose ripetute senz'anima, sottrarci al dominio dell'ombra e cominciare a vedere in modo chiaro, sereno, persone e cose. Questo miracolo, che ha tutta la preziosità di un racconto simbolico, ci mette sulla strada della libertà.

 

Tracce di contemplazione

Sei giunto a Betsaida, Gesù,

dopo aver dato il pane alla folla stanca (Mc 8,1-10).

Hai tentato di dare una risposta alle domande

che nascevano da un cuore indurito (Mc 8,11-13).

Ora, Signore, ti fermi davanti a un uomo cieco,

che ti viene condotto da altri.

Lui non può averti cercato, l'oscurità lo ha atrofizzato.

Egli e lì e tu lo conduci fuori dal villaggio;

il luogo che apparentemente lo aveva protetto,

ma anche schernito e abbandonato al suo malessere.

Lo tocchi, fai il gesto di una mano tenera

sopra un neonato.

Signore, tu lo sai che quell'uomo è nel buio,

lo avevano portato lì apposta, eppure insisti:

«Vedi qualcosa?» (Mc 8,23).

C'è una parola sulla strada dell'esistenza,

che riabilita, che scuote,

ma anche accompagna fuori dal villaggio,

lontano da chi si prende gioco dell'umana infermità.

E la tua Parolai

Parola che libera dalle visioni distorte,

che ci tira fuori dalle celle buie

a cui con tristezza ci siamo abituati o costretti.

Dobbiamo solo cercarla,

essere condotti alla sua sorgente e dire:

«Sono cieco, non mi fido più di nessuno,

gli uomini mi appaiono come fantasmi».

Fratello, accompagnami fuori da questo villaggio dell' incomunicabilità.

Sono cieco perché mi drogo con tutto: col cibo, con il lusso, con l’extasis.

Il villaggio globale dell'opulenza mi ha avvelenato. Aiutami a uscire dalla sterilità del possesso. Sono cieco, perché la fame mi attanaglia, fratello che mi hai privato di tutto: accompagnami verso un mondo dove gli uomini non abbiano solo il volto dell'ingiustizia. Sono sommerso dalla paura, perché non amo. La luce, fratello, puoi darmi la luce!

 

Per saperne di più

Realizzato da Sabato Bufano - Informa s.a.s. - Tel. 0828620029
© 2006 Parrocchia Sacro Cuore di Gesù - Eboli (SA)