Gherardo degli Angeli

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Fra’ Gherardo Degli Angeli

 “Parco, liberale co’ poveri, specialmente negli ultimi estremi di sua vita, distribuì loro quanto avea”

di Antonio Capano

 

Nel 1728 Francesco Vespoli, un mordace avvocato napoletano, che prende spunto da ogni occasione letteraria per riversare le sue satire velenose sugli uomini di cultura più in vista nella Napoli dei suoi tempi, non può fare a meno di ironizzare, ammettendone indirettamente il valore, anche su Gerardo degli Angeli o De Angelis, allora ventiduenne, autore di un volumetto finalizzato a ricordare le virtù di Angiola Cimina Marchesana della Petrella, il cui salotto aveva accolto costantemente il fior fiore dell’intellighentia presente  nella capitale. “Un tal Gerardo - scrive il Vespoli,  ch’ora gli eruditi / Della scuola d’Ulloa scrivon Gherardo (e ciò per stigmatizzare la trasformazione toscaneggiante del nome Gerardo in Gherardo e del cognome Degli Angeli in De Angelis), / Giovine d’anni ventidue compiti, /Piccolo di statura, ma gagliardo, / Di bocca grande e di naso canino, / D’occhi che ti spaventan collo sguardo: / Di viso magro, giallo e saturnino, / Col mento fesso e un po’ rivolto in suso, / Bello come la statua di Pasquino, / Veste di negro di paglietta all’uso, /Cammina alla carlona, e sempre astratto, /Parla da vecchio ...”. Rinviamo la lettura dell’intera poesia alle prossime considerazioni sulla validità del Nostro, per addentrarci nell’ambiente in cui egli si è formato e nelle sue radici familiari. Il veleno del Vespoli ci offre altre indicazioni in merito, quando mal sopportando da napoletano il successo raggiunto da un uomo giunto dalla provincia, afferma, quanto al suo ambiente d’origine.: “Dove i nobili sono i bufalari, / Paese di mal’aria e mal costume, / Buono per pascervi i somari./ (I suoi strali ,comunque, sono in parte il riflesso di una conoscenza acquisita  di un’area, quella ebolitana, che essendo posta in gran parte in pianura, era allora preda della malaria, allo stesso modo di quella che diventerà negli anni trenta del secolo la tenuta reale di Persano, per iniziativa di Carlo di Borbone che farà nel contempo realizzare una nuova strada collegante Napoli ad Eboli per raggiungere nel modo più spedito possibile il  suo casino di caccia al quale lavorerà lo stesso Vanvitelli (Alisio 1976).

Che i bufalari siano definiti sarcasticamente nobili, è un’altra constatazione indiretta dell’esistenza di un nucleo di famiglie borghesi, spesso anche di diversa provenienza, o diventate tali per l’ascesa sociale degli amministratori dei beni di altre famiglie benestanti o di nobili, e quindi, tendenti a vivere “more nobilium”, secondo lo stile di vita della vera nobiltà, oppure destinatari di recenti titoli nobiliari che hanno basato parte dei loro investimenti sull’allevamento bufalino, presente nella piana fin dall’epoca longobarda .

In questo contesto si pongono anche le vicende della famiglia cui appartiene il nostro Gerardo. Già nel XVII secolo, come scrive il Rossi (1992) “l’antica nobiltà sanseverinesca, che aveva ricevuto dai principi feudi e privilegi, decade perché incapace d’adeguarsi ai processi in atto. Il suo disagio economico cresceva per la mancata riscossione di  rendite e censi - sovente molto modesti - su feudi ed università, per insolvenza endemica dei comuni (allora detti università)  e decurtazione del reddito. Risultano più attive le famiglie togate e dei seggi salernitani; con le rendite feudali e allodiali o quelle sui fiscali delle università prendono in fitto difese per la fida degli animali e masserie di bufale e bovini gestendole in proprio, oppure interi feudi e casali con tutti i diritti e gli obblighi di grossi feudatari, quali i Grimaldi, i Doria, i Minadojs, i Filomarino, i Pignatelli. I vantaggi - continua il Rossi - non erano pochi e compensavano largamente il capitale e l’impiego personale. Le attività professionali concorrevano ad accrescere il  patrimonio familiare; perciò l’esercizio dell’avvocatura, della medicina, del notariato, l’insegnamento erano molto diffusi  tra il patriziato”. Il matrimonio tra nobili o borghesi o tra nobili e borghesi è il miglior sistema  per l’accumulo del patrimonio e per raggiungere un maggior prestigio; ed il maggiorascato, pur penalizzando gli altri figli al di fuori del primogenito, che sono costretti al chiostro conventuale, o ad entrare nella gerarchia ecclesiastica o al cavallierato, rimane l’unico mezzo per non immiserire il beni distribuendoli tra i vari eredi.

Nel Cilento i rapporti commerciali con esponenti della nobiltà di seggio della costiera amalfitano, hanno portato i De Angelis all’acquisto della terra di Porcili, l’attuale Stella Cilento,  ricaduta in potere della Corona  dopo essere stata in possesso di numerosi rappresentanti della nobiltà come I Sanseverino, i De Sangro, i Gambacorta e i  Capano. Nel 1617 né è, invece,  utile signore Carlo De Angelis che in quell’anno vende il feudo a Luzio Materazzi di Castellabate. Alla fine del secolo o, piuttosto, agli inizi del seguente, si pone l’acquisto di Trentinara da parte di questa famiglia, residente in Sorrento. Del titolo di marchese di tale feudo, concesso il 4 marzo 1710, si adorna per la prima volta Leone De Angelis,  del patriziato di Trani, morto il 21 luglio 1739, noto commerciante di bufali, il cui erede sarà dal 31 agosto 1742 Carlo Maria; questi sarà  ascritto con il primogenito Gaetano al Registro delle Piazze Chiuse. Erede di questi sarà un altro Giuseppe,  (Napoli 28 luglio 1809 ed ivi defunto l’11 gennaio 1904), e dopo di lui, in assenza di figli maschi, la primogenita Maria Giuseppa ( il 17 dicembre 1841) , moglie del nobile Ernesto di Goyzneta,  titolare del marchesato di Taverna, alla quale nel 1906 si riconoscerà il titolo familiare di marchesa di  Trentinara (Ebner 1982).

Gerardo nasce ad Eboli  il 16 dicembre 1705 da Giovanni e da Angela De Caroli e viene detta  erroneamente originaria della “vicina Città chiarissima di Capaccio” dal Grossi, confondendole con l’omonima famiglia che già il Di Stefano menziona come Angeli tra le famiglie nobili di Capaccio (I, p. 248), cui  é intestata, come si ricava dalle visite apostoliche e dalla bolla dell’11 aprile 1681, la cappella di S. Maria della Pietà nella chiesa di S. Maria di Costantinopoli., non più citata dagli anni cinquanta del Settecento (Ebner cit.).

Un collegamento tra Capaccio ed Eboli è favorito dalla presenza del medesimo nobile di casa Doria. Sappiamo che, estintasi la successione maschile dei Grimaldi con un Nicolò morto celibe, gli è successo il fratello uterino Nicolò Doria, la cui madre Isabella della Tolfa è andata sposa in seconde nozze a Marcantonio Doria, già principe d’Angri dal 20 febbraio 1636, poi  duca d’Eboli, mentre Nicolò ha  ottenuto il 4 ottobre 1659 il titolo di conte di Capaccio. Negli anni in cui vive Gerardo  muore un Marcantonio Doria, il 21 maggio 1760 .

In Eboli a metà Settecento, e precisamente al 1753, quando si confeziona il catasto onciario, è attestata una sola famiglia De Angelis, il cui capofuoco Pirro, di 40 anni, è definito magnifico e vivente del suo, cioè con le sue sostanze; ha sposato Eleonora Vacca, allora trentatreenne, ed ha per figli Giovanni di 11 anni, Elisabetta di 9, Antonia di 8. Vive con loro l’anziana madre sessantenne Giovanna di Carlo ed una serva di Campagna, Antonia Carbone di 50 anni. Quindi Pirro è fratello del nostro Gerardo in quanto un suo figlio ha preso il nome dal nonno Giovanni mentre la nonna può identificarsi nella variante tramandataci dalla fonte a stampa.

Interessante notare dalla Narrazione dell’Autore intorno ai suoi studi, inserita nell’edizione delle Orazioni stampata in Napoli nel 1763,  il fatto che fino all’età di dieci anni “non poté egli gustare cibo alcuno, fuor de’ legumi semplici cotti, di qualche picciol pesce, e di alquante selvatiche erbe”; il che, se da un lato rientra in una alimentazione ancora ricorrente agli inizi dell’Ottocento, come si evince dalla Statistica Murattiana del 1811, in cui il consumo della carne solitamente è ristretto nei giorni festivi e non di digiuno rituale,  dall’altro potrebbe ricondursi, dato il suo rilevante stato sociale  a problemi di salute a meno che una consuetudine letteraria non gli abbia suggerito di ricercare i segni di un destino in una alimentazione che sarà seguita dal giovane dal momento in cui entrerà tra i Minimi, praticanti un’astinenza di tipo quaresimale in tutto il corso dell’anno.

Dopo aver fatto i primi studi  di  grammatica e della lingua latina in Eboli, egli  viene inviato dal padre in Napoli a frequentare i corsi tenuti dai Gesuiti. Vi rimane fino all’età di 14 anni. Una ricca biblioteca gli offre l’opportunità di leggere testi  non solo di teologia ma di filosofia morale e politica e di letteratura. Tra queste S. Giovanni Climaco e S. Giovanni della Croce, Platone, Seneca, Plutarco, Virgilio, Orazio, Cicerone, Senofonte e i tragediografi greci. Deleteria gli è l’esperienza con un insegnante che lo segue negli anni 1720-22; ma pur se Gherardo continua a leggere  Platone ed Aristotile, non apprende come dovrebbe, anche per naturale avversione, la matematica e la fisica e, cosa ancora più grave, nessuno gli insegna la lingua greca. Ciononostante si segnala per l’inclinazione alla poesia, che gli rende più facile scrivere in rima che in prosa, e gli favorisce l’iscrizione ad accademie come “l’Arcadia Romana”. Le lezioni  di diritto del docente universitario  D. Gaetano Mari non lo entusiasmano, anche perché lo fa per obbligo, mentre  legge con attenzione  le opere di Gian Vincenzo Gravina, che sarà il protettore del Metastasio, e quelle di Cartesio e Melabranche. Ma è l’incontro con Giambattista Vico e la loro costante frequentazione che lo introduce non solo nei migliori salotti della capitale ma anche nel fecondo studio  di Terenzio, Tacito, di Grozio e di Bacone, del pensiero filosofico intorno  alla natura ed al  Diritto della Nazioni.

Ad 20 anni pubblica il primo volume di Rime dedicandolo al principe d’Angri e signore di Eboli Giancarlo Doria; nell’ottobre dello stesso anno 1725 Gerardo da Eboli invia al Vico sue composizioni in cui risplende la devozione dell’allievo verso il maestro che egli definisce, dopo averne letto  i “Principi di scienza Nuova”, “divin Uomo... glorioso, e grande”. Ed il filosofo che lo ha già apprezzato nell’Approvazione stilata nel luglio al volumetto di Rime,  nel dicembre  gli fa pervenire la nota lettera “sopra l’indole della vera poesia” In essa  egli esprime il suo compiacimento per il maggiore spessore poetico mostrato dal giovane nelle sue rime  composte in Eboli appena due mesi dopo la partenza da Napoli. E se ciò è accaduto, scrive il filosofo, “perché le selve, ed i boschi, che non sogliono fare gentili gli animi né punto raffinare gli ingegni, né certamente vedo altra cagione, han fatto cotesto vostro, tanto sensibile quanto repentino miglioramento”. Ed aggiunge che nell’ambito del rifiorire della poesia toscana, tra un gruppo di letterati  di cui lo stesso Vico è caposcuola, il giovane per sua inclinazione si è dato alla lettura di Autori come Dante, Petrarca, Casa, Bembo, Ariosto e sottolinea: “vi compiacete di Dante, contro il corso naturale de’ giovani, i quali, per lo bel sangue, che ride loro nelle vene, si dilettano di fiori, d’acconcezze, d’amenità; e voi con un gusto austero, innanzi gli anni, gustate di quel divino Poeta, che alle fantasie dilicate d’oggidì sembra incolto e ruvido anzi, che no, ed agli occhi ammorbiditi da musiche effeminate suona una, soventi fiate insoave, e bene spesso dispiacente armonia. Cotesto le fu dato dal melanconico umore di che ella abbonda; onde nelle conversazioni nostre, anche amenissime, voi dal piacere degli esterni solete ritrarvi a quello del vostro senso interiore; e, quantunque dalla vostra tenera età siate versato ben dieci anni nel lume di questa grande, bella e gentil città d’Italia, pure, perché siete nato a pensar poetico, rado e poco parlate con favella volgare”. Gli ricorda  che tale inclinazione lo rende poco adatto allo studio legale, allo sciolto  discorso giuridico, ma ne fa nel contempo  un vero poeta per il fatto che lavora di getto e non con riflessione; pertanto non è uno sterile imitatore di Dante ma “è un giovinetto di natra poetica de’ tempi di Dante”, colui che ha saputo nei tempi pervasi per il Vico dalla barbarie, fondere in una lingua i vari idiomi, simile ad un novello  Omero, introducendo come questi l’età eroica. Ma anche i tempi in cui vive Gherardo, pur essendo definiti dai corsi e ricorsi vichiani, età umana e filosofica, sono caratterizzati da un eccessivo razionalismo e dall’astrazione che per lo stesso filosofo bloccano la fantasia e l’immaginazione che sono alla base della poesia, cui il giovane non può rinunciare. Segue una crisi religiosa fa rivolgere a Gerardo ogni sforzo verso l’arte oratoria  e verso l’abbandono del mondo con la vita religiosa, disdicendo così tutte le speranze del padre che ne voleva fare un giurista e rifiutando persino  la proposta di  ricoprire la carica di poeta cesareo a Vienna, fattagli pervenire tramite i favori  di Anna Francesca Pinelli, principessa di Belmonte: L’incarico sarà dato al Metastasio, ma Gherardo pensa a ben altro. Dopo un tentativo mal riuscito  di tenere un panegirico nella chiesa di S. Maria della Stella dei Frati Minimi in onore di S. Francesco di Paola, nel 1728 entra nella congregazione fondata dall’illustre concittadino Matteo Ripa, detta dei Cinesi,  ed il 24 dicembre dell’anno successivo viene accolto nell’Ordine dei Minimi di S. Francesco di Paola, fondato a metà Quattrocento, che presenta già prima della morte del fondatore  conventi anche in Francia, Germania e Spagna. A Napoli Gherardo, che ha potuto conoscere tale Ordine anche in Eboli, ove esso è presente fin dalla metà del Cinquecento, con il convento di S. Pietro alli Marmi, già badia benedttina consegnata all’Ordine dal cardinale Antonio Carafa nel 1577,  compie il noviziato e viene ordinato sacerdote.

La raccolta di sue altre Rime, pubblicata nel 1730, pur essendo ben accolta dal Vico, che elogia anche le sue Orazioni, ne rappresenta nel contempo il distacco dalla poesia  imposto dal nuovo corso degli eventi. Ciò “perché - scrive il filosofo - le cose della nostra Teologia, che superano ogni senso, di troppo spossano la poetica Facultà, la quale allora è più grande ove più vivamente sente, ed immagina”.

Gherardo, nominato professore di eloquenza nel regio convento di S. Luigi detto di Palazzo perché posto di fronte alla Reggia, prima di essere abbattuto in periodo napoleonico  per far posto alla  chiesa di S. Francesco di Paola nella attuale Piazza Plebiscito, si trasferisce a Salerno, rimanendo per 4 anni nel convento posto presso la Porta Occidentale, alla marina, e recitando nel duomo orazioni anche in occasione  di cronache mondane, come le nozze di re Carlo con Maria Amalia (1737). Ritornato a Napoli egli è ospitato ancora nel convento di S. Luigi, trasferendosi poi e definitivamente in quello di S. Maria della Stella. Pochi viaggi, quello del 1749 per Bitonto, preceduto nel 1731 e nel 1740 da quello ad Aversa e seguito da un altro  nel 1761 a Nola. Ovunque è chiamato per commemorazioni di uomini illustri, anche nella cappella reale. Ricordiamo, ad esempio, le Lodi di Matteo Egizio giureconsulto (1747) o le Lodi di Francesco d’Eboli (1758). Interessante, tra l’altro,  il suo Opponimento al Sistema del Padre Piro (1749) sul problema del male. Gli ultimi anni del nostro Gherardo sono contrassegnati dall’accentuarsi dei dolori di gotta che gli impediscono di scrivere; lui che tra i tanti amici  ha avuto l’Egizio, ed artisti come Francesco Solimena, Domenico Antonio Vaccaro, Paolo De Matteis e Domenico Mondo, ha frequentato i migliori del suo tempo, dimostrando un’indole portata più all’intelletto ed alla fantasia che alla memoria, e pertanto  “per le forensi esercitazioni disadatto”, si scrive nella Narrazione. Ma ci interessa anche perché fu “parco, liberale co’ poveri, specialmente negli ultimi estremi di sua vita, distribuì loro quanto avea”,  e non tenendo in conto gli onori del clero e del suo Ordine, e rifiutando anche il vescovado di Ugento.

 

Bibliografia essenziale

 

G.    Alisio, Siti reali dei Borboni,  Roma1976.

Archivio di Stato di Salerno, Catasto onciario di  Eboli, B. 8, cart. 11.

G.    Degli Angeli, Autobiografia, in Opere, ed. Napoli 1781, III, 341.

Della Valle di Fasanella nella Lucania. Discorsi del dottor Lucido Di Stefano della Terra di Aquaro nella stessa Lucania. Libro I, Aquaro 1781, Edizione a cura del “Centro di Cultura e studi storici “Alburnus”,  Salerno 1994, Discorso IV. Di Capaccio, soprattutto p.  248, quanto alla famiglia Angeli.

P. Ebner, Chiesa baroni e popolo  nel Cilento, vol. I, Roma 1982, v. Capaccio, soprattutto pp. 611-612.

A. Fiorillo,  Le “Rime” di Padre Luigi Lucia, in “Il Postiglione” anno IX n. 10 - giugno 1997, p. 135 ss.; soprattutto pp.  151-152 e 166, quanto agli scambi poetici con Gherardo Degli Angeli.

F.    Nicolini, Giambattista Vico nella vita domestica. La moglie, i figli, la casa, Osanna Venosa 1991/2,  soprattutto pp. 53 ss. per Angela Teresa Vico, e n. 61, p. 87, quanto a Gherardo Degli Angeli.

L. Rossi,  Profili socioeconomici di un Mezzogiorno minore, Agropoli 1992, soprattutto pp. 28-29.

F. Stea - R. Quaranta, Alla scuola di G. B. Vico. Cherardo Degli Angioli poeta e oratore, Galatina 1989.

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